Ve lo devo dire: un buon 30% del motivo per cui amo Napoli, il Medio Oriente, l’Africa, in generale il Sud del mondo sta nel fatto che tanta gente va ancora in giro senza casco. Un gesto che è soprattutto una metafora. Liberi, belli e ribelli, spontanei come fanciulli; impermeabili al progresso ultra-securitario, alla borghesia come stato mentale ancor prima che come condizione sociale, al capitalismo della sorveglianza; alle manie di controllo e alle ansie contemporanee. La loro è una resistenza naturale ad un’imposizione culturale, un rifiuto antico e incivile nel senso che sta fuori e prima dei doveri del cives, del cittadino.
Basta con i cittadini!, sbottava Carmelo Bene! Quanto aveva ragione. Non l’ho mai letto, ma sono sicuro che da qualche parte CB abbia fatto un elogio dei senza casco, uomini prima che cittadini.
Così il video diffuso pochi giorni fa dei tifosi napoletani mi ha dato speranza: uno splendido esercito di senza casco che scortava il pullman azzurro al ritorno da Torino, tra clacson e bandiere, con questi ragazzotti che guidavano sobbalzando e ondeggiando sui motorini come fossero giocattoli. Che sciamavano come api proteggendo l’alveare, il bus del club. Uno spettacolo davvero memorabile, stupefacente: poesia in movimento, letteratura di periferia, realismo cinematografico; istantanea vivente da Pictures from italian profiles.
Scene che noi non riusciamo più ad accettare, terrorizzati come siamo da qualsiasi cosa che scompagini le nostre desolanti vite in vitro post-umane. Abituati a campane di vetro esistenziali con cui vogliamo ridurre al minimo i rischi, e con essi anche lo spazio vitale degli umani. Per questo abbiamo assistito a tanti attacchi, perché noi, sotto sotto, vorremmo essere un po’ come loro e non possiamo: da bravi cittadini educati, si fa per dire, ma soprattutto repressi. Lupi travestiti da moralisti e da vigili urbani che altro non siamo.
Ma poi che vi frega, a voi, se uno va in giro senza casco. Affari suoi se cade, sbatte la testa e ci resta secco: non fate finta che vi interessi perché non ve ne frega nulla. E non iniziate nemmeno con quelle formule del tipo “eh poi vanno negli ospedali che paghiamo noi con le nostre tasse!” – cosa che comunque non succede perché, da bravi ragazzi di vita, hanno un’abilità antica e stradaiola nella guida che voi vi sognate. Una logica assurda, comunque, secondo la quale nessuno dovrebbe fare nulla, neanche fumare o mangiare ai fast food, per non aumentare i rischi di essere ricoverato.
La verità è che assistere a questa forma di illegale libertà fa infuriare chi non può infrangere la legge, e quindi pretende che tutti la rispettino. Chi segue le regole, paga le tasse (cose di per sé disumane) e va fuori di testa se qualcuno non lo fa.
Almeno per le tasse c’è la scusa secondo cui poi l’evasione fiscale ricade su tutti i “contributori onesti” (quasi sempre gente che non ha modo o coraggio di evadere), per i caschi invece non c’è proprio giustificazione: siinvoca confusamente un presunto (e non credibile) rispetto delle regole, in realtà una frustrazione maturata da chi non riesce ad accettare che qualcuno possa sfidare la legge (a volto scoperto) e farla franca. Così, con la nobile veste del rispetto e della preoccupazione per il prossimo, si dà sfogo ai propri cattivi sentimenti ricorrendo a un insopportabile e ipocrita moralismo giustizialista.
La polemica è arrivata anche nei palazzi del potere (anzi ormai nelle dirette social dei nostri politici), a partire da Salvini che, accarezzando gli istinti protettivi e repressivi delle casalinghe di Voghera e degli imprenditori trevigiani, ha bacchettato i napoletani: «no no no, non si fa così. Viva il Napoli però ragazzi, in moto e in motorino casco, testa, prudenza, distanza e non si va in due, in tre o in quattro. Quindi festeggiare sì ma usando la testa». Ma basta con questa destra bacchettona, moral-populista, che ci ammorba con la sicurezza. Loro e gli esponenti di Fratelli di Kiev, pardon di Washington, pardon d’Italia, che parlano di un rispetto delle regole che nemmeno sono in grado di garantire. Che noia.
Poi ci si lamenta se cresce la destra anarcoide, libertaria e complottista trumpiana, che vede nei vaccini e nelle cinture di sicurezza un’intollerabile invasione dello Stato. Almeno qualche brivido, un po’ di vita. Di quelli dall’altra parte non ne parlo neanche, almeno di quelli rappresentati in Parlamento: una nuova sinistra poco radical e molto chic che il casco se lo mette pure per andare in monopattino elettrico. Ma al di là della politica tanti attacchi, soprattutto social, hanno evidenziato una consolidata, folcloristica e più che altro dialettica, discriminazione verso i napoletani – nulla che travalichi l’insulto e gli stereotipi territoriali, nulla per cui prendersela troppo.
Anche qui però, un appello a tanti napoletani: smettetela con questo insopportabile e piagnucolante vittimismo, con il razzismo e i complessi d’inferiorità.
Basta con i Maurizio De Giovanni che ogni volta raschiano il fondo (smielato) del barile per lamentarsi dei cattivi razzisti settentrionali o centrali che insultano i poveri napoletani dal cuore grande. Rivendicate invece il vostro vitalismo, nel bene così come nel male, ridetegli in faccia a chi invoca il Vesuvio – e che ha tutto il diritto di farlo, come quelli che invocano il fuoco per Milano o il cerino con cui bruciare Torino: nessuno, si spera, augurandoselo davvero. Fateci voi stessi i cori su, che la vita non è fatta solo di norme e reddito pro capite ma anche di ironia e di spontaneismo. Non lamentatevi dei luoghi comuni su Napoli ma alimentateli, deformateli, mitizzateli, rendeteli teatro, mentre magari li smentite sul campo vincendo uno strameritato scudetto.
Festeggiate usando la testa, dice Salvini. Ma quando mai! Matteo, un consiglio: torna ad esultare sul tapis roulant per le vittorie del Milan e lascia stare gli uomini di vita di Partenope. A Napoli non si vince uno scudetto dai tempi di Maradona, ma quale testa. Fate invece una festa enorme, gruoss, come mai si è vista prima scuotendo le viscere della città: coloratela come non mai, illuminatela anche di notte. Fin dall’antichità le vere feste sfuggivano alla ragione e ai vincoli sociali. Qui poi si parla di storia, per una città in cui il calcio è religione laica e che non esplode da oltre trent’anni. E la storia si alimenta di eventi storici, non di timori piccolo-borghesi e di effetti collaterali.
In una bellissima intervista di ieri a La Stampa ad esempio Ottavio Bianchi, tecnico del primo Napoli campione d’Italia, parlando di Maradona ha detto: «L’ho amato molto, arrivando a farmi odiare per provare a salvarlo nel momento più difficile. Non dimenticherò mai il suo sguardo spavaldo e insieme rassegnato quando mi rispose: ma io voglio vivere solo col piede sempre sull’acceleratore». Per questo a Napoli Diego è ancora considerato un Dio: non solo per il calcio, o perché è stato il più grande (non importa se il più forte) giocatore di sempre.
Ma anche perchè era un napoletano, col piede pigiato sull’acceleratore e – metaforicamente – senza il casco sulla testa. Pronto a stoppare di petto, a un matrimonio in cui fosse stato vestito di bianco, un pallone grondante di fango.
Nel suo nome ancora oggi Napoli festeggia e festeggerà lo Scudetto, nell’omaggio a Don Diego, uno di loro: una divinità così terrena da sprofondare, un umano troppo umano capace di spingersi al limite dell’autodistruzione e di vivere sempre e comunque a modo suo; perché lì, davvero, vincere non è l’unica cosa che conta. Se si vincesse senza centinaia, migliaia di ragazzi privi di casco, senza una festa esagerata, senza i fuochi d’artificio, senza qualche lieve ferito e una città trasformata dal centro alle perifierie, se si vincesse senza la Storia e il dionisiaco non sarebbe Napoli, non sarebbe la loro vittoria.
E allora lasciateli perdere sti ragazzi di vita, umani che non sono ancora stanchi di essere umani, che al massimo sono stanchi di essere cittadini. E qui lasciatemelo gridare: lunga vita ai napoletani senza casco! Fanciulli dell’esistenza più vivi che mai, in carne ed ossa, alla faccia nostra. Noi talmente ossessionati dai codici, dalle regole, dalle leggi e dai social network da scordarci la sensazione stessa del vento tra i capelli.