La verità fa male, ma aiuta a crescere.
Per uno strano scherzo del destino, a un anno esatto dal più inaspettato e apocalittico trionfo degli Azzurri da 16 anni a questa parte, le prime pagine dei quotidiani sportivi – e con loro l’ambaradan mediatico delle televisioni – sono costrette ad un clamoroso dietrofront sulla nazionale femminile che ieri sera, in diretta su Rai 1 e Sky Sport, ha messo in mostra tutta la bontà del movimento perdendo la partita d’esordio degli Europei col modico punteggio di 5-1 contro la Francia. Di nuovo, a scanso d’equivoci: il nostro attacco non è diretto al calcio femminile italiano in sé, ma alla narrazione sproporzionata che, nelle scorse settimane, ne ha incensato eccessivamente le qualità.
Franco Vanni, su Repubblica, scrive che «a guardarla in campo, prima che cominciasse il temporale di gol, l’Italia era bella da vedere: corta, ordinata in un 4-3-3 arrembante, veloce nelle reazioni». Sono parole che, a leggerle così come sono scritte, sembrerebbero la descrizione di una partita equilibrata, quantomeno viva. E invece, poi, per chi non l’ha vista, vai a scoprire che la Francia dopo 12’ era già sul 2-0. Dopo 38’, ne aveva fatti tre. A fine primo tempo, eravamo sul 5-0. E il gol dell’Italia, segnato da Piemonte, è arrivato al 76’. In un momento della partita dove, peraltro, la Francia era già in ciabatte. La squadra allenata dal ct Diacre è terza nel ranking mondiale, quindi nessun dito puntato contro le azzurre (per quanto il punteggio rimanga grave).
Ma forse il punto è proprio questo: rendersi conto dei limiti del movimento può rappresentare – anzi deve, qui come per la nazionale di Mancini – il primo passo verso l’evoluzione, l’approfondimento, l’arricchimento e perché no un’integrazione culturale seria (non quella che, tanto per intenderci, punta sulla parità dei sessi per raggiungere la parità salariale, in barba ad ogni logica di mercato). Sentir parlare in certi termini della nazionale femminile in queste settimane non solo è stato stucchevole (quello, si dirà, è un problema nostro, una question de goût; d’altronde le notizie di calciomercato compulsivo non sono da meno) bensì nocivo alla prova dei fatti. L’Italia è entrata in campo imballata, timorosa, inadatta al contesto. L’analisi più lucida che abbiamo letto è quella di Angelo Carotenuto sullo Slalom, dove si legge:
Sembrava rugby, sembrava il Sei Nazioni. Per il nome dell’avversaria [Francia], per il suffisso del luogo in cui si giocava [-ham], per la distanza e il divario tra la squadra italiana e l’altra. Nessuna squadra aveva mai segnato cinque gol nel primo tempo nella storia dell’Euro femminile.
Marco Evangelisti, nella sua analisi del match sul Corriere dello Sport, scrive ben tre (sic!) volte: «è calcio vero», «del resto, è calcio vero», e poi con un sottilissimo e nient’affatto allusivo gioco di parole: «era ciò che volevamo, non una di meno, non una compiacenza di più. È calcio vero e come tale lo trattiamo, con le sue felicità e le sue delusioni». Discorso splendido, da comizio elettorale. Che risponde a sé stesso (e di sé stesso) aprendo (nei giorni passati) e chiudendo (oggi) la polemica tra lui e lui stesso. Qui si potrebbe aprire un capitolo sul coinvolgimento emotivo e sportivo degli italiani nei confronti del calcio femminile. Tacciamo consci dei buonissimi numeri registrati ieri sera tra Rai e Sky Sport.
Almeno, sulla Rosea, Alessandra Bocci rileva – certo, sul calar dell’articolo – come forse, diciamo forse, la nazionale femminile sia stata un po’ troppo caricata di responsabilità e pressioni nelle settimane passate. In realtà, nelle parole della giornalista, c’è più delusione che consapevolezza, ma ci accontentiamo: «l’Italia delle donne è cresciuta, è più matura, così è stato detto in questi giorni, ed è vero, perché il bagaglio accumulato tre anni fa non può essere finito nel fiume Don». Il match contro l’Islanda rimanda la sentenza. Certo, un esordio del genere è più di un campanello d’allarme. O meglio, dovrebbe esserlo. Per ora non possiamo che tornare a fare i maschiacci bianchi prevenuti e comodi nell’occidente logofallocentrico. Non è un modo di dire: davvero stavolta lasceremo parlare il campo.