Dan Peterson denuncia una tendenza sempre più marcata nel mondo professionistico della palla a spicchi d'oltreoceano.
Come il calcio post covid, anche i playoff NBA attualmente in corso appaiono modellati dall’alto sull’esempio dei videogiochi. Al di là dell’ormai consueta cornice di pubblico digitale, è proprio ciò che avviene in campo a richiamare azioni tipiche da videogame: uno contro uno continui, tiri da tre in quantità industriale e schiacciate sceniche a non finire.
La strana fase finale della stagione cestistica a stelle e strisce, in scena a Orlando nel resort di Disney World, non attira grandi simpatie. Gli ascolti televisivi bassissimi rispetto alle medie delle passate stagioni lo dimostrano: questa NBA non piace al grande pubblico americano. Tra i disamorati compare anche il nome di Dan Peterson. Il Coach, rifacendosi alle argomentazioni contenute in un editoriale firmato da Franco Arturi, ha suonato la carica in un recente spunto sulla “Gazzetta dello Sport”:
«Anziché il gioco che aveva reso il basket NBA lo sport più spettacolare nel mondo, ne abbiamo uno che molti critici negli Stati Uniti ora definiscono playground basketball.»
Schemi, organizzazione e sistemi d’attacco non sembrano più rivestire imprescindibile importanza nel momento della stagione in cui storicamente si inizia a fare sul serio. Per certi versi sembra di assistere ad un All Star weekend prolungato. Ma d’altronde, osserva Peterson:
«I giocatori oggi non vogliono essere allenati. Vogliono fare ciò che gli piace: correre, sparare da tre, giocare uno contro uno. Insomma, l’opposto di Larry Bird e Magic Johnson, che esaltavano i compagni. Poi, i giocatori vogliono i numeri. Cioè, punti, statistiche. Così pensano di meritare un contratto più ricco. Con questa situazione, gli allenatori diventano superflui. Devono adattarsi a ciò che vogliono i giocatori, gli analisti, i proprietari.»
Lo stato dell’arte del pianeta NBA non è dei migliori. La bontà dei talenti puri che lo popolano non è in discussione, ma a preoccupare molti tra addetti ai lavori, osservatori e appassionati di lungo corso sono le condizioni in cui versa la cultura del gioco. Al riguardo, le idee di Peterson sono chiare:
«I proprietari conoscono benissimo i numeri ma non il basket. Così danno retta a chi dice che il tiro da due punti è un cattivo tiro. Non c’è un giocatore che tiri nella terra di nessuno, fuori dall’area dei tre secondi e dentro la linea dei tre punti. Le squadre hanno rinunciato a più del 50% dello spazio per attaccare. Come dire ad una squadra di calcio: “Oh, tirate solo fuori dall’area di rigore”. Ecco perché nessuno tira da due se non per schiacciare.»
Inseguendo ciecamente i dati statistici e un’eccessiva spettacolarizzazione, il rischio è quello di minare alle fondamenta la natura competitiva e quindi lo stile tecnico della massima lega di pallacanestro mondiale. Voler insistere nel coinvolgere e divertire chiunque, confondendo virtuale e reale, potrebbe rappresentare un punto di non ritorno verso una dimensione sportiva che francamente lascerebbe a desiderare.