Il più italiano degli allenatori, dalla scuola di Nereo Rocco.
“I divi non li ho e se li avessi li pregherei gentilmente di mettersi al totale servizio della comunità. Il divismo è una piaga, io lavoro per costruire un’allegra, briosa, coraggiosa compagnia”. È il manifesto esistenziale di Nevio Scala, l’allenatore che ha tanto amato la provincia da portarla con sé fino ai vertici del pallone. L’uomo Nevio Scala è da ritrarre alla luce di due dispositivi, il calcio e la letteratura di primo Novecento.
Nato dalla penna congiunta di Verga e Joyce, il tecnico veneto riflette i concetti propri dei romanzieri come la resistenza al progresso, in un atteggiamento di radicale opposizione all’innovazione. Nevio Scala disconosce il football moderno; al sopraggiungere della “fiumana del progresso”, quasi fosse un protagonista de I Malavoglia, salpa la Provvidenza navigando l’onda rischiosa del suo credo d’antico retrogusto.
Il background culturale e calcistico di Nevio Scala vive indubbiamente del lascito particolare di Nereo Rocco. Il Barone segna il suo periodo da fluidificante centrocampista. Da giocatore, Scala si ritaglia uno spazio nel Milan campione d’Europa e d’Italia nel ’68, formazione vincente fondata sulle geometrie di Rivera e il fiuto di Pierino Prati.
Se lo stesso undici ha dato i natali a tecnici del calibro di Scala e Trapattoni, simili nell’ermetismo concreto che imponevano ai rispettivi calciatori, il motivo riposa su un’antitesi comportamentale.
Oscurati dal pallone d’oro sindacalista e dal bomber punk, Scala e Trap hanno scelto una linea tecnica sobria, spartana e in particolare meccanica. Il meccanicismo dei due si riassume attraverso un brocardo: “Prima non prenderle”. La difesa è res extensa, materia funzionante sulla base di leggi ben precise, inequivocabili e mai casuali. Questi sono i fondamenti che un quarantenne Nevio Scala porta con sé in un viaggio squisitamente peninsulare dal Veneto alla Calabria: destinazione, la prima esperienza da allenatore a Reggio.
La Reggina di Scala viene plasmata su un modello anacronistico rispetto all’edonismo pallonaro degli anni ’80, rivelandosi una corazzata arcigna che sale presto in Serie B. Il raggiungimento della cadetteria costituisce il punto di partenza dell’immutabile pensiero scaliano, a un passo dalla storia: soltanto i calci di rigore vieteranno la doppia promozione e il salto verso la A ai calabresi, colpevole la Cremonese di Attilio Lombardo. Ma il lavoro di Nevio Scala in veste amaranto non passa inosservato; mentre le curve sono ammaliate dall’estro di Maradona, Van Basten e Matthaus, il suo solido grigiore seduce l’Emilia.
5-3-2 che alla fantasia concede poco spazio, lasciando il posto a una catena di montaggio con un baricentro decisamente difensivo e un cardine principale: il libero. Tali fondamenti, in onore del catenaccio del mondiale spagnolo, persuadono il presidente Ceresini a puntare su Scala alla guida dei Ducali. L’allenatore raccoglie l’eredità pesante di Zeman e Sacchi, con l’ostico obiettivo di portare finalmente il Parma in Serie A. La maggioranza del parlamento crociato vede degli appena ventenni eseguire e subire gli ordini di Scala: in particolare, Nevio individua il fulcro del proprio progetto in Luigi Apolloni, la sua Corte Costituzionale in campo.
Da una parte Scala, allenatore del Dortmund, dall’altra Trapattoni, allenatore del Bayern; anno 1997 (foto di Mark Sandten/Bongarts/Getty Images)
Da Apolloni il gioco inizia e termina, è lui l’ultimo uomo a reggere la baracca. L’annata esordiente di Scala all’ombra del Tardini risulta alquanto anomala, basti pensare che per ben due volte ad assegnargli una vittoria è il Giudice Sportivo, causa violenze delle tifoserie avversarie. Il Parma tuttavia non riesce a imporsi nel tabellone, fin quando sopraggiunge una svolta amara. Il patron Ceresini muore nel febbraio del 1990, e Nevio Scala riesce a trasformare lo choc in energia, inanellando un filotto positivo sino al raggiungimento dell’ultimo slot utile, il quarto.
La sua epopea gialloblu inizia ripartendo dal blocco trionfante, ma con un nuovo assetto societario. È il tempo della famosa e controversa ascesa Parmalat; Tanzi e Pedraneschi rilevano il club sotto una precoce ottica internazionalistica. Alla rosa del primo Parma in Serie A si aggiungono il portiere Taffarel, a breve campione del mondo, e la punta svedese Brolin; soprattutto, un preparatore atletico. Si chiama Ivan Carminati, è veneto come Scala e immagina il calcio alla sua stessa maniera. Si lavora con pochi giocatori a disposizione e un solo ricambio, valido, per reparto; la condizione fisica degli intoccabili viene regolata magistralmente come il motore di un’utilitaria, robusto benché antiestetico.
L’annata esordiente si conferma preparatoria, fase di collaudo al giro su pista del ’91. Con appena due innesti, in un calcio avido nell’indicare un “undici titolare”, l’anomalia della formazione di Scala – Taffarel; Benarrivo, Di Chiara; Minotti, Apolloni, Grun; Melli, Zoratto, Osio, Cuoghi e Brolin – è uno schiaffo alle rose lunghe. Mentre in campionato la compagine conferma il quinto posto ottenuto dodici mesi or sono, la bacheca ducale inizia a riempirsi.
Nevio Scala torna al Tardini da eroe, dopo tanti anni dalla conquista della Coppa delle Coppe (foto di Valerio Pennicino/Getty Images)
L’agenda dice Coppa Italia. Nevio Scala affronta Giovanni Trapattoni e la sua Juve. In una sfida fra passati e presenti in parte speculari, Trap ha la meglio al Delle Alpi grazie al Divin Codino. Il ritorno in quel di Parma è un elogio al modus operandi di Scala, attendista e psicologo dell’emotività. L’Ennio Tardini esplode quando Melli e Osio, gli stessi marcatori del match-point verso la Serie A, confezionano il trionfo. Il capitano Minotti solleva la coppa al cielo, presagendo orizzonti di gloria per l’armata di Nevio Scala.
Inserito lo sregolato Asprilla, il Parma prosegue la corsa scudetto insieme ai bianconeri. Tuttavia la vera riserva di caccia è la Coppa delle Coppe. La stagione culmina con l’eliminazione dell’Atletico Madrid in semifinale per approdare a Wembley, nel segno di una perseveranza ai limiti della strategia da trincea per andarsi a giocare il primato europeo con l’Anversa. L’usato sicuro di Nevio Scala non può fallire l’incoronamento dinanzi alla regina, e un sonoro 3-1 eleva il Parma a un livello continentale inimmaginabile fino ad allora.
Eppure, mentre Scala sorprende il mondo, allo stesso tempo storce il naso dinnanzi all’ingaggio di Zola. Il sardo illuminato incanta e sorprende, ma è distante dall’efficienza rigida propria dell’allenatore. Lo scudetto non arriva, e il Parma assume una sottile duplicità interna. A furia di mirare continuamente a record ed esigenti traguardi, l’opera di Nevio Scala si sgretola in un’altra finalissima contro l’Arsenal. In campionato vince e convince, senza però raccogliere: il più grande dolore per un pragmatico. I rapporti con Callisto Tanzi vanno via via gelandosi, e l’integrità di Scala non riesce e non può sopportare il savoir faire truffaldino che a breve imploderà.
Nevio vuole però far parlare il campo, rimodella così le retrovie con Sensini, Couto e Dino Baggio per un’ultima, sontuosa, battaglia. I nemici della carriera di Nevio Scala hanno la 10 sulle spalle o una divisa a strisce bianconere. La Coppa UEFA 1994-95 gli mette di fronte ancora una volta la Vecchia Signora.
È la vittoria di Baggio 2 su Roberto, di Nevio ai danni di Lippi, del pragmatismo sull’inventiva. L’estate successiva aumenta definitivamente la distanza di Scala con la presidenza. La linea giovane del tecnico è premiata con Cannavaro, Buffon e Inzaghi, mentre il tesseramento di Hristo Stoichkov ne vanifica gli ideali. Sono tanti i motivi che causano il divorzio di Scala con il Parma: tra questi anche il lussurioso bulgaro, un vero e proprio flop considerate le aspettative.
Dopo aver lanciato il miglior portiere dell’era recente Nevio Scala saluta Parma, i Boys e infierisce sulla società, a maggior ragione col senno di poi. Accompagnato da Carminati peregrina in Germania al Borussia Dortmund, in Turchia al Besiktas e nel panorama post-sovietico allo Shakhtar e allo Spartak. Assaggi di culture sconosciute, soprattutto per un uomo che ha aspettato, invano, la chiamata della Nazionale. È forse l’unico rimpianto di Nevio Scala: l’allenatore che, come nessuno mai, ha avuto e avrà un solo nido pascoliano.
Saggio a sufficienza da capire in anticipo il marciume attorno alla Parma calcistica, Scala rileva la società dal baratro assieme agli inseparabili Minotti e Apolloni: il commovente trio riporta i ducali in Lega Pro, disgregandosi nel 2016 a causa di controversie gestionali. Così Nevio Scala saluta il calcio, dopo aver donato genuinità ad una piazza infangata e avere ostinatamente proseguito sulla strada delle sue convinzioni. Ora si dedica alla viticoltura, da euganeo integralista, rimembrando nel vetro d’un calice il suo sport. Il suo calcio era in realtà il nostro, per chi l’abbia visto o meno, e Nevio Scala lo custodisce in una botte di cantina.