Quando l'estetica travolge l'etica.
Sbruffone, provocatore, simulatore irrimediabile e spesso insopportabile. Ci sono tanti motivi per non avere particolarmente in simpatia Neymar Jr, la stella che i qatarioti hanno scelto per la loro partita più importante, quella del soft-power applicato al pallone. Così, come se non bastasse il personaggio, Neymar diventa anche il volto della squadra più detestabile d’Occidente, un Paris Saint-Germain che può piacere solo a chi ha avuto qualche trauma infantile o ai collezionisti di top player cresciuti a Nike, FUT e All Star Team.
Eppure l’estetica non segue i criteri dell’etica, né quelli della ragione. Qualcuno dirà che siamo incoerenti, e c’ha pure ragione: sì perché malgrado tutto, malgrado gli sceicchi, le risatine, le provocazioni e il Paris Saint-Germain in semifinale, Neymar riesce ancora a farci emozionare. Quasi non lo vorremmo, lo confessiamo, ma è un istinto atavico, ancestrale: quando Neymar balla, come ieri sera nella partita contro il Bayern – in particolare nel primo tempo, dove ha collezionato due pali e mezzo ma soprattutto tantissima qualità –, ci riconcilia con il pallone.
Nell’epoca in cui è l’efficienza a regnare sovrana, nel nuovo corso calcistico di Haaland (che rende il gol un meccanismo quasi autistico nella sua robotica) e di Mbappé (“vero” top player del PSG, che trasforma il dribbling in una questione di accelerazione), Neymar scompagina le carte con il suo calcio originario da strada, con il suo talento tanto efficace quanto a volte fine a se stesso.
È anche questo il bello, il colpo di tacco, l’inutile virtuosismo, il dribbling a centrocampo con tre uomini addosso e il rischio di incassare un contropiede letale: nessun calcolo, solo l’eco di un calcio giocato nei palcoscenici più importanti d’Europa come al campetto sotto casa.
Ieri Neymar è stato allora la ciliegina sulla partita più bella della stagione, un trionfo collettivo di tecnica e talento che ha rappresentato una finale anticipata a dispetto delle assenze – e il Bayern soprattutto ha molto da reclamare, principalmente in polacco. Sì perché può sembrare stonato parlare di un singolo calciatore, peraltro della squadra “perdente”, dopo una partita del genere. Eppure qui non si vuole analizzare il match, le sue dinamiche o le chiavi tattiche, ma solo rendere un’emozione: un’emozione come detto incoerente e limitante, ma originaria.
Forse il segreto del calcio in fondo sta anche qui, perché razionalmente ci sarebbero sempre meno motivi per seguirne i progressi e le evoluzioni: eppure è sufficiente un Neymar in giornata di grazia per smuovere qualcosa di profondo, a livello come detto puramente estetico. Per far sì che questa estetica erompa in tutta la sua irresistibile e torrenziale potenza.
“L’atto, non l’azione”, citando quel cinico geniaccio di Carmelo Bene che, come racconta Giancarlo Dotto, si inginocchiava in preda ad estasi davanti a una punizione di Platini.
Come spiegare tutto ciò? Un teatrante disilluso e nichilista che si riscopre bambino di fronte a un gesto tecnico? Semplice, in quel momento non è il calciatore, non è il top player: è il gioco che si manifesta con l’atto individuale. Per questo lo stesso Bene diceva di adorare Van Basten in quanto egli non giocava ma “era giocato”: ma da chi? dal calcio stesso. È sempre il calcio il soggetto, di cui ogni tanto dei singoli fortunati si improvvisano inconsapevoli messaggeri.
Ecco, ieri Neymar è stato messaggero del pallone che piace a noi, quello naturale, non artificiale; incontaminato e tecnico, non costruito e tattico. Che poi lui sia un po’ un coglione, detta fra di noi, o più neutralmente un pagliaccio, poco importa. Cercate di capirci, a volte conta l’atto, non l’azione. Il calciatore, non l’uomo. L’estetica e non l’etica. E attenzione perché non tutto è estetica; non tutti i campioni sono “estetica”, anzi. Proprio per questo oggi, malgrado le critiche di efficientisti e moralisti, ci sentiamo di dirlo senza esitazioni: + Neymar, – Mbappé! Se è morta l’etica, e con essa il Bayern Monaco, almeno regni l’estetica.