Un allenatore e ancor prima un uomo che riavvicina al calcio.
Un’obiezione che spesso si rivolge al cosiddetto “calcio moderno”, tralasciando l’aspetto economico-finanziario, è di aver perso umanità. E come dissentire effettivamente. Certo, ci sono decine e decine di ragioni: il calcio in fondo è solo uno dei tanti aspetti che nell’epoca del capitalismo finanziario ha modificato la propria essenza, e avrebbe poco senso sperare in un’oasi incontaminata che resiste all’avanzata del nichilismo planetario. Tuttavia a noi basta poco per emozionarci ancora, e per ricordarci di quando il pallone era fortemente ancorato a “valori” umani, sociali, territoriali.
Questo il motivo per cui all’indomani della sconfitta bianconera contro l’Atletico di Madrid non ce la sentivamo di condannare il gesto di Simeone, tanto per dire. Lo stesso motivo in fondo per cui l’altra sera, quando si sono spenti i riflettori sul derby di Milano e si sono accesi quelli della conferenza stampa post-partita, ci siamo fermati a riflettere – e quasi ci siamo commossi – a sentire le parole di Rino Gattuso.
“È una sconfitta. Ci parlerò nei prossimi giorni. Io credo nel valore del gruppo, nel valore degli uomini. Ho grande coerenza e questo mi ha fatto male perché vuol dire che qualcuno non ha capito ciò in cui credo. A livello professionale per me è stata una grande sconfitta”
Questo solo uno stralcio delle parole dell’allenatore al termine della gara. D’altronde non lo scopriamo adesso: Rino anche da calciatore, come detto, “a certe cose ci teneva tantissimo”, forse ancora più che alle proprie prestazioni; e anzi, quelle stesse prestazioni erano lo specchio del suo modo di essere, della sua lealtà, del suo carattere sanguigno e del suo radicale attaccamento alla maglia. Gattuso trasferiva sul campo un’attitudine da guerriero indomito, che però nasceva ben prima della carriera sportiva e andava ben oltre il rettangolo verde.
Ecco perché ha poi ammesso candidamente di riconoscere i propri limiti, di accettare le critiche tecniche che non lo ritengono ancora “un allenatore al 100%”: quelle possono passare. Ma sull’aspetto umano, sui valori su cui ha costruito una carriera, su quella coerenza che ha trasmesso al proprio spogliatoio e che si aspetta quindi dai suoi uomini, beh lì non si può proprio transigere. Non ci stupisce quindi che Gattuso sia rimasto “profondamente deluso” per una “sconfitta professionale”, ancora più pesante di quella maturata sul campo.
Una volta compiuto il salto da allenatore, Gattuso ha mantenuto intatti quei valori umani che lo avevano portato, da falegname del calcio – siamo sicuri che non si offenderà – a risultare fondamentale per i trionfi di squadre composte da autentici fenomeni (il Milan con cui vinse tutto, la Nazionale con cui si laureò campione del mondo).
“Quando vedo giocare Pirlo, mi chiedo se io posso essere considerato davvero un calciatore”
Gia l’esordio su una panchina italiana fu emblematico: a Palermo, con quel pazzo scatenato di Zamparini, un’esperienza che per un cuore debole sarebbe stata esiziale. Poi una breve parentesi in Grecia e l’approdo in Lega Pro al Pisa: qui trascinò la squadra ai playoff e poi in Serie B, in cui si consumò un vero e proprio psicodramma. Con una crisi societaria in atto, stipendi arretrati da pagare ai calciatori e una situazione al limite del surreale, ogni settimana Rino combatteva una vera e propria guerra per motivare le sue truppe, mettendoci sempre la faccia e lottando come un leone, dentro e fuori lo spogliatoio.
“Quando arrivai in mezzo a voi ero ignaro di quello che avrei vissuto e ricevuto da quest’avventura. Giorno dopo giorno l’emozione che questa città ha saputo regalarmi si è alimentata del calore, dei sorrisi e dell’affetto che ognuno, a modo suo, ha saputo trasmettermi. Oggi il Pisa ha un futuro sicuro. Ma non posso dimenticare chi mi ha sostenuto nelle tante difficoltà che insieme abbiamo dovuto affrontare: ogni componente del mio staff, tutti i calciatori che ho allenato, i miei tifosi, la Curva Nord, fino all’ultimo dei bambini che veniva fino a San Piero anche solo per una foto. Coloro che giorno dopo giorno hanno fatto crescere un sentimento sincero che resterà per sempre. Un sentimento che possiamo comprendere e che custodiremo solo noi che l’abbiamo vissuto. Grazie Pisa, grazie a tutti i tifosi: mi avete fatto sentire uno di voi, mi sono sentito amato. E non lo dimenticherò mai”. (Rino Gattuso, lettera d’addio ai tifosi del Pisa)
Ecco allora la chiamata del Milan, teoricamente come traghettatore, per rianimare una squadra spenta, inerte. Alla conferenza stampa di presentazione, nel novembre 2017, Rino parlava così: «Questo è il paradiso. Questo per me è un sogno che continua». E non erano le solite frasi di circostanza, con il tempo d’altronde abbiamo imparato a conoscere la persona. Gattuso per il Milan ha dato, e sta continuando a dare, tutto. Tra le critiche di chi vive ancora la sindrome della nobile decaduta, ed è idealmente rimasto ai rossoneri padroni d’Europa, e le enormi difficoltà contingenti, Gattuso è andato avanti tirando su un ambiente che sembrava incapace di reagire.
I giornali e i tifosi spesso sono implacabili, e pur assolvendo l’uomo capita che condannino l’allenatore. Ma anche qui, facciamo uno sforzo di obiettività e seguiamo la lezione di Roberto Beccantini: l’importante nei propri giudizi non è rinunciare al tifo bensì, pur essendo tifosi, mantenersi se non imparziali quantomeno obiettivi. E allora vi domandiamo, chi altro sarebbe stato in grado di arrivare Domenica al terzo posto, dopo una stagione così sfortunata? Tra un Higuain svogliato e con il muso, e soprattutto gli infortuni che hanno a lungo dimezzato la difesa e privato il centrocampo dell’uomo più importante (Bonaventura) e del regista (Biglia), chi altro sarebbe stato in grado di trasferire alla squadra quella voglia – e anche quella capacità – di vincere partita dopo partita?
“La mia predisposizione alla fatica la considero quasi una malattia” (Rino Gattuso)
Gattuso deve fare i conti con un un ambiente che spesso pecca di presunzione, che si dimostra troppo esigente. E se poi non c’è più Berlusconi a suggerire le due punte ci si mette Salvini, che si spinge ben oltre con questa perversa mania social. Rino però ha le spalle larghe, e noi lo sappiamo. Le spalle larghe e un cuore grande, per non essere espliciti come Simeone. Come allenatore deve ancora migliorare molto, è lui il primo ad esserne consapevole, e chissà, magari potrebbe anche non essere l’uomo giusto per rilanciare definitivamente i rossoneri: questo noi non lo sappiamo (e comunque non sta certo a noi deciderlo). Di certo c’è solo che ad oggi è l’uomo di cui il Milan, e forse anche il calcio italiano, ha bisogno.
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