Il serbo scaccia via i fantasmi e torna grande sull'erba di Church Road.
Novak Djokovic vince la 132ª edizione dei Championships, battendo in 3 partite il sudafricano, solo di passaporto, Kevin Anderson, numero 5 al mondo da domani, in un match durato solo 2 ore e 19 minuti. Si dice ‘solo’ perché quest’edizione di Wimbledon ha riacceso la mai sopita disputa sul long set al quinto. Anderson, difatti, è giunto alla finale sul Centre Court dopo aver disputato due autentiche maratone negli incontri contro Re Roger (13-11, dopo che l’elvetico aveva sciupato un match point nel terzo) e soprattutto nella semifinale record con Isner – uno che di partite infinite ne sa qualcosa – per un totale di quasi 13 ore di tennis tra quarti e semifinale.
Il dibattito in Italia si è goffamente concentrato sulla questione del long come se fosse una delle tante eccentricità dell’All England Lawn. Il giornalismo sportivo italiano, troppo spesso cialtrone, dimentica che è solo New York ad eccepire a questa regola e che sollecitata dai giocatori l’ITF, in concerto con gli organizzatori degli Open, da tempo discute della sua riforma.
Il match
Anderson, che ha goduto di un giorno di risposo in più rispetto a Djokovic, è apparso in realtà esausto dalle fatiche della seconda settimana. Il servizio, che aveva fin qui costruito le fortune del sudafricano, lo ha tradito dal primo turno: Nole breaka alla prima occasione utile (doppio fallo dell’avversario), e la partita si orienta verso una precisa destinazione. Dopo appena 31′ il serbo chiude il set 6 a 2 – questo risultato non accadeva dalla finale del 2005 tra Federer e Roddick – lasciando all’opponente appena due turni di servizio, e vedendo l’avversario stremato, ritorna predatore e replica il medesimo copione nella seconda partita, ancora avara di spettacolo (rari i vincenti, ancora meno i rally degni di memoria). Scivola via anche il secondo set, di gioco non se ne vede, il Centre intuisce ed inizia un timido supporto al sudafricano. Djoker, dal canto suo, non vive queste emozioni da due anni, è famelico e vuole liquidare alla svelta il malcapitato rivale, alla sua seconda finale di uno Slam dopo la sconfitta da parte di Nadal a Flushing Meadows lo scorso settembre.
Alla terza ripresa il longilineo non vuole recitare il ruolo di agnello sacrificale ed inizia a riprendere in mano i turni di servizio. Il dono di Belgrado soffre in battuta (ma fino al 3-4 tiene il 100%) e concede addirittura un set point. La tensione inizia a crescere, il serbo è cosciente che non ha la garanzia atletica di tenere un livello alto sul lungo termine, al contrario di Anderson che è si è letteralmente esaltato nella resistenza ad oltranza. Ne annulla uno ed alla seconda opportunità di riaprire il match richiama l’inerzia con un dritto in cross scaccia paura. Anderson ritiene il servizio e sul 5-6 arriva a condurre 15-40. Nole è lo stesso di venerdì sera e nel momento decisivo torna il dittatore del 2014-6: annulla il terzo set point e si garantisce il tie dove la sua vittoria non è mai in discussione.
Gli inferi
L’anno scorso sull’erba di Londra, Novak si era ritirato ai quarti contro Berdych per un dolore all’avambraccio. In realtà era il gomito, e poi sarà la mano con un problema osseo, e sarà un tormento al punto di rinunciare all’intera seconda parte della stagione. Il 2017 horribilis, i guai fisici ed i fantasmi in testa. A 30 anni il serbo è nel momento peggiore della sua carriera e, per quel che sappiamo, della sua vita privata, malgrado l’arrivo della secondogenita Tara. Rumori vogliono il rapporto con Jelena al capolinea proprio durante la seconda gravidanza (quel farabutto di McEnroe arriva a paragonare la situazione con quella vissuta dal sessuomane Tiger Woods). Lo stesso Nole aveva dichiarato, l’anno prima agli US Open, che
“Dall’arrivo di mio figlio il tennis non è più la priorità come in passato”.
Nole rientra a Melbourne dopo sei mesi di assenza e le sue prestazioni agli inizi del torneo sono anche incoraggianti. Agli ottavi però arriva una sonora sconfitta da parte del sudcoreano Chung per 3 a 0. Opta per un’operazione alla mano e al gomito in Svizzera, dopo due anni in cui ha ascoltato i più disparati consulti medici. Smaltito l’intervento il serbo ha bisogno di riprendere il pieno ritmo e decide, forzando non poco il rientro, di giocare i primi due Masters 1000 in calendario. Ad Indian Wells il suo stato di forma è inquietante ed esce in sole 3 partite con il 109 del circuito, Taro Daniel. 61 non forzati, due sole ore di gioco ed il serbo che, visibilmente preoccupato, a fine gara ammette “Mi sono sentito come se stessi giocando per la prima volta, non dovevo essere qui“.
A Miami va in scena il bis in idem: è abulico, in uno stato fisico disarmante e visibilmente distratto, lo elimina Paire in poco più di un’ora. Per Novak si presenta il bivio, deve ricostruirsi prima come uomo e poi come atleta. Un anno fa, qui su Contrasti, davamo un consiglio chiaro a Nole: torna alle radici e ritroverai te stesso. Saluta Agassi e Stepanek, mette da parte le santonerie di Pepe Imaz, annulla smancerie e cuoricini. A Montecarlo riabbraccia lo storico coach, lo slovacco Marian Vajda, di cui dice “lui sa come centrarmi, e come portare il mio tennis al livello che desidero. Ci siamo mancati a vicenda”. Esce agli ottavi con Thiem, ma pare non soffra più in battuta. Si decide ad affrontare tutta la stagione rossa, torna a Barcellona da cui mancava dal 2006, ed esce con Klizan. A Madrid riaffiora quell’assertività che lo ha portato a dominare questo sport
“Ho sempre creduto in me stesso e tornerò”
Al primo elimina Nishikori, finalista qualche giorno prima nel Principato, ma al secondo turno viene fatto fuori da Edmund. È il primo ostacolo al suo percorso di resilienza, a Roma il ritmo da fondo inizia a ricordare i vecchi fasti. Si arrende soltanto in semifinale, nell’eterna sfida con Nadal. A Parigi arriva con la pressione di misurare l’attuale stato psico-fisico con uno slam. Dovrà arrendersi a Cecchinato, la cui stella era migliore. Mette in dubbio l’estate sui prati, è furioso. A questo punto anche il più infaticabile degli eroi crollerebbe, ma non Novak Djokovic. Se il tour rouge è stato un quasi fallimento, Djoker vuole vedere cosa accadrà sull’erba, e si prenota per l’aperitivo di Wimbledon al Queen’s Club. Arriva in finale non lasciando neanche un set, per poi arrendersi a Cilic nel derby slavo. Sta tornando la determinazione, rincalza l’attitudine alla sofferenza, se il corpo regge e la testa non tradisce, tornerà anche l’esasperato agonismo.
Londra, un anno dopo
Nella prima settimana perde soltanto il primo con Edmund. Il tabellone, da una parte, sorride, mentre la fiducia risale. Archivia l’acciaccato Nishikori, in semifinale arriva di nuovo l’oro di Manacor. Il Centrale è logorato dalla sfida tra Anderson ed Isner, Nole gioca a biglie per ingannare l’attesa, si inizia alle 20 ora di Greenwich, il roof a coprire lo stadio e i riflettori ad illuminare il sacro verde. Nel primo sciorina tutto il repertorio, sul 3 pari ha un break point, la palla accarezza la linea, chiede il falco che non gli da torto: difende come tre anni fa, in discesa la prima partita. Nel secondo contiene il rinculo del maiorchino, e tra servizi contro-strappati i conti sono pareggiati. Dal 4 pari al tie i due campioni regalano un autentico spettacolo di passione.
Andare a dormire perdendo il terzo negherebbe un incontro l’indomani, sarebbe impossibile per il mancino spagnolo non monetizzare il vantaggio. Nole lo sa ed alza il tiro, tornano gli occhi spiritati di un tempo. Sul 6 pari Nadal ha un set point, il serbo lo annulla in slice: audacia che non si vedeva da tempo. Il giorno seguente inizia la vera finale. Il quarto è già scritto, Rafa breaka subito e riporta il baricentro del match verso se. Nel 5 c’è tutto quello che ci è mancato in questi anni: ostinazione, stritolamento dell’avversario, annientamento. La sfida 52 dell’eterna rivalità tra i migliori difensori di sempre (di diritto una delle più belle) la vince Novak, che deve soltanto scrivere l’ultimo capitolo della sua odissea.
Se, come pensava Foster Wallace, il tennis è un’esperienza religiosa, Novak è uscito dal purgatorio. Non era amato, da giovane, perché troppo vero e pochi in questi anni hanno compatito le sue sofferenze. Quando ha ceduto alla bontà del mercato semplice, qualcosa si è inceppato. Tornare al nido gli ha permesso di riacquistare il contatto con la sua natura, di riacquisire la propria identità, sportiva e non. Jelena, i figli, l’allenatore, il preparatore, gli amici, la Serbia. Quadrato il cerchio.
“Durante gli ultimi due anni ho cercato di tenere un diario, per capire tutto quello che stavo attraversando. Ragazzi, se ne ho avuti, di alti e bassi! Ma è la vita, sono cose che succedono. Io ho cercato di migliorare e ritrovare il mio gioco, e questo è un grande, grande risultato. Mio figlio, voglio passare più tempo possibile con lui, parlandogli delle lezioni e delle esperienze che ho avuto nella mia vita. Ma c’è anche tanto che posso imparare da lui, è come fosse anche un mio maestro e un mio amico. Vederlo qui, con me, ora, è meraviglioso“.
Da più parti si era presagito che il tennis di Djokovic, cerebrale e psicotico allo stesso tempo, avrebbe risentito di un primo tracollo, si era addirittura paventato un ritiro anzi tempo come Borg. Non era questo il destino di Nole. Raggiunge l’idolo Sampras nell’esclusivo club di chi ha trionfato all’All England almeno quattro volte. Se una nuova generazione fatica a crescere, è giusto che che gli invincibili tornino a scrivere la storia di questo sport, la più straordinaria forse. Il serbo torna prepotentemente ai suoi livelli, e lo fa per rimanerci ancora a lungo. Per nostra fortuna.
Murray, Djokovic, Wawrinka, Raonic, Nishikori, Cilic, Monfils e Thiem: sono loro i tennisti qualificati alle ATP World Tour Finals di Londra, l'ultimo torneo della stagione. Il risultato è tutt'altro che scontato.