Luis Ocaña era per tutti l'uomo giusto per interrompere il dominio del Cannibale, ma sui pedali come nella vita era una tenebra a spingerlo avanti. Vincitore, non vincente.
Un colpo di fucile alla tempia, il 19 maggio, neanche un mese prima di quel compleanno che lo avrebbe visto toccare quota quarantanove anni. Scelse di andarsene così Luis Ocaña, nel buio di una cantina dove si era messo a produrre Armagnac. E chissà se oggi se ne sarebbe versato un goccio, per soffiare su settantaquattro candeline che nessuno accenderà mai. Un addio senza lieto fine e avvolto dal mistero. Perché, per quale motivo uno che mancino non era aveva scelto proprio la mano sinistra per sperarsi fa ancora riflettere. A fugare i dubbi ci pensarono le sentenze dei tribunali e quella vita che per Ocaña sembrava essere passata da difficile a insopportabile. L’ennesimo litigio con una moglie non più amata, la telefonata al migliore amico e quel “la faccio finita”. Poi più nulla. Adieu, Luis. Anche se la Francia, in fondo, non l’aveva mai veramente voluto. Da quella parte dei Pirenei, Ocaña ci era arrivato ancora bambino e spinto dalla fame. Lui era nato a Priego, nella Mancia. Come Don Chisciotte, che non a caso la moglie dichiarerà essere l’unico libro mai letto dal marito.
La lotta contro i mulini a vento non viene mai per caso, è pura vocazione. Ma nella Spagna franchista del secondo dopo guerra, di fame ce ne era troppa e lavoro troppo poco. E Luis è costretto ad andarsene nel ’51, a sei anni, insieme a padre, madre e quattro fratelli di cui è il maggiore. Una vita come una corsa a tappe, a caccia di sicurezze. Prima Portillon, poi oltre il confine, a Magnan e Le Houga. L’Occitania ne diventa la nuova casa, senza che lui possa sceglierla. È tutto in salita, ma ben prima che inizi a pedalare. Se ne accorge a scuola, dove Ocaña non sa neanche una parola di francese. Non sa esprimersi, non riesce a capire. Gli insulti dei compagni però li capisce bene. Glieli legge negli occhi prima ancora di poterli tradurre. E se non bastasse l’intuizione, ci pensano schiaffi e sputi a farlo sentire straniero. Sarà anche per questo che anni dopo sceglierà di non prendere la cittadinanza. Resterà spagnolo a vita, malgrado lì dove era nato ormai neanche lo rivolevano più: bollato come traditore, comunista scomodo. Non sapevano che farsene, lo avevano lasciato solo.
Apolide senza averlo voluto, Ocaña si costruisce la vita nella sofferenza. Inizia a lavorare a quindici anni: appena da tre aveva varcato il confine. Garzone di bottega in una falegnameria ad Aire-sur-Adour. Sono 28 chilometri tra andata e ritorno, da sciropparsi in bici. Eppure quei pedali li fa viaggiare così bene. Inizia a farlo anche col caschetto, nel club di Mont de Marsan. Ma il padre non vuole, Luis è minorenne e per partecipare alle prime due corse deve addirittura falsificare la firma del genitore: alla seconda arriva già davanti a tutti. Perché corre come vive, Luis, con la rabbia che da dentro lo divora e in sella lo fa pedalare quasi a occhi chiusi. Questione di palle, in un ciclismo che di quelle vive. I calcoli arriveranno molto dopo.
È questione di riscatto: verso la Francia che non l’ha mai voluto e la Spagna che non lo vuole più. Riscatto contro un padre duro, morto presto, ma che farà in tempo a vedere il figlio regalargli la maglia di campione nazionale iberico, nella prova a cronometro del ‘68, in quello sport che neanche avrebbe voluto facesse. Luis gliela porterà direttamente in ospedale, dove il genitore scontava le pene di un cancro allo stomaco. Quel pomeriggio correrà prima in bici, poi ancora più forte in macchina, per raggiungere il letto su cui adagiare la maglia rossa e gialla. Il padre piangeva, ma gli resterà per sempre il dubbio che non lo facesse per gioia ma per i dolori. Come anni dopo scriverà Gianni Mura, anche quel tarlo sarebbe entrato nello sparo del pomeriggio di maggio.
Prima di quell’alloro spagnolo c’era stato il Tour du Roussillon, da dilettante, a dire quanto Ocaña sapesse andare forte. Poi tre tappe alla Vuelta andalusa, a lanciarlo verso una consacrazione che sarebbe arrivata qualche pedalata più tardi, nel 1969. Vittoria alla Grand Prix du Midi Libre, bis alla Vuelta a La Rioja. Adesso sì che lo volevano i francesi, soprattutto perché nel ’70 aveva messo in fila Tamames e Van Springel alla Vuelta più importante, quella di Spagna. La prima grande corsa a tappe della carriera. Il barlume di speranza che fosse arrivato l’uomo giusto per spezzare l’era Merckx. Perché oltralpe, che quel belga facesse il bello e cattivo tempo sugli Champs-Élysées mica andava a genio. E non piace neanche troppo a Ocaña, che oltretutto del Cannibale detesta la riverenza a lui riservata. El Puta lo chiama, senza la minima cortesia e chiedendosi come fosse possibile nessuno lo attaccasse, Merckx, neanche quando non stesse bene. Quell’altro, invece, mica era Cannibale per modo di dire.
I due si erano annusati, nel 1970. Stavolta Tour, ma vince sempre Merckx. Una tappa però finisce a Luis, da Tolosa a Saint-Gaudens: 190 chilometri che lo vedono festeggiare in quella Occitania che da bambino gli aveva sputato e ora lo applaude. Vedi a volte come gira il mondo? Le mani batteranno anche l’anno dopo. Tour ’71, forse pure il Cannibale fiuta qualche scricchiolio della propria monarchia pedalata. Alla vigilia gioca in difesa, incensa Ocaña, bluffa sapendo di bluffare. Gli assi li ha lui, compresa la maglia gialla, almeno fino al 7 luglio. Poi la situazione effettivamente si rivolta. Da Grenoble a Orcières-Merlette ci sono 134 chilometri e un sole che brucia la pelle. Merckx quel caldo lo odia, Ocaña ci si specchia dentro e scatta, mentre l’altro si pianta sulla sella.
“O io sotterro lui o lui sotterra me”,
bisbiglierà ai compagni prima di partire. Gli rifila la bellezza di nove minuti, che valgono la maglia gialla. “L’empereur fusillé” titolerà l’Equipe il mattino seguente. E lui, l’Imperatore, dichiarerà di sentirsi come un toro matato da El Cordobés.
La sensazione è che sia la volta buona, ma col Cannibale di mezzo non c’è niente di certo. Infatti due giorni dopo diluvia e stavolta è il belga a sguazzarci. Parte in fuga fin dal primo chilometro, ma recupera appena due giri d’orologio. Vince la cronometro, ma Luis tiene. Resta solo il 12 luglio per provarci ed è lì che si scrive il Tour. E forse la vita di Ocaña. Si parte da Revel per arrivare a Luchon. Di mezzo i Pirenei. Lo spagnolo Fuenta va in fuga quando il sole ancora splende, ma più si sale e più le nuvole coprono tutto. Appena sente la prima goccia, Merckx è già sui pedali, ma stavolta Luis gli rimane a ruota. Si continua così, mentre la pioggia diventa grandine e la salita ormai discesa, dove i due si lanciano con l’asfalto ridotto a una colata d’acqua. Il Cannibale sbanda, sbatte su un muretto. Accarezza la caduta, ma tiene la bici in piedi e continua a correre. Ocaña centra lo stesso bersaglio, ma la fortuna ha già scelto di proseguire col belga. E da solo, lo spagnolo si incastra a centro strada, dove il fango gli blocca le ruote.
Forse neanche lo vede arrivare Zoetemelk, che lo centra in pieno, prima che anche Agostinho e Lopez Carril facciano lo stesso. E pensare che la corsa sarebbe anche dovuta passare da Mont-de-Marsan, dove quel ragazzino ormai cresciuto avrebbe potuto levarsi le umiliazioni. Chi è che insultavate? Lo stesso che ora vi sta battendo Merckx. Ma quando il Tour ci passa per Marsan, Ocaña è all’ospedale tra i dolori, la gialla sulle spalle di un Cannibale che si becca gli insulti di chi finalmente aveva pregustato l’occasione di vederlo sconfitto, nonostante si rifiuti di indossare quella maglia che candidamente ha ammesso di non meritare. Solo i regolamenti gli imporranno il contrario.
Se non è la fine, poco di manca. Perché se nello sport conta la vittoria, nel ciclismo è molto più importante contro chi la ottieni. E quando Ocaña il Tour finirà per prenderselo, nel ’73, Eddy Merckx non c’è. Per lo spagnolo era come gli avessero annacquato lo champagne. Vincerà ancora, Luis, fino al 1977, quando dirà basta con quella bici che gli aveva consumato i muscoli e logorato l’anima. Neanche un bronzo mondiale aveva sanato la ferita. Con l’incubo di Merckx ci convivrà anche una volta lasciate le corse, al punto di ribattezzare col nome nel Cannibale anche il suo pastore tedesco. Lì almeno dava ordini lui.
Quando i due si rincontreranno, nuovamente in sella, per un’esibizione, lo sfiderà anche al bancone del bar. Pareggeranno, nonostante sulle proprie gambe fosse rimasto Luis e non Eddy. Peccato che il giorno dopo sarebbero state quelle del belga a vincere la corsa. Per Ocaña la ferita avrebbe continuato a sanguinare. Almeno fino al 19 maggio 1994, quando la vita iniziava veramente a diventare insopportabile. In mezzo ci si era messo anche il cuore e Marie-Jo, per la quale avrebbe voluto lasciare Josiane, la donna che aveva preso in moglie e gli aveva dato due figli, dopo averla conosciuta sul podio, nel ’66: lui vincitore, lei bella biondina che gli porgeva il mazzo di fiori. Ma il matrimonio ormai era finito e la vita di Luis si sarebbe interrotta anche prima, dopo un ennesimo litigio e i litri di alcool buttato giù in cantina, prima di fare fuoco e battere l’avversario che più l’aveva tormentato insieme a Merckx: sé stesso. È l’ultima sconfitta, non la più grande. Quella se l’era beccata nel ’72 e aveva finito per pesare più delle 110 vittorie. Perché lì aveva finalmente visto quello che per lui contava nel ciclismo: il dubbio e poi la sconfitta negli occhi dell’avversario. Poi una discesa s’era rimangiata tutto. Compreso Luis Ocaña.
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