Papelitos
05 Ottobre 2022

Perché non è il 'solito' Napoli

Prima o poi la squadra di Spalletti crollerà: o forse no.

Prima di spararle in prima pagina, le chiacchiere da bar sport devono essere pesate dalla schiumarola: il liquido delle sensazioni a caldo scivola via, ma qualcosa di quanto detto rimane. Del Napoli di Spalletti, si dice, anche dopo la lezione di calcio (cit. Capello) di ieri all’Ajax: “non può durare”, “lo scorso anno in campionato era partita addirittura meglio” (otto su otto, prima dell’infortunio ad Osimhen). Ma di Spalletti, soprattutto, più che della squadra che allena, si sente dire da più parti: “è il solito Spalletti: partenza a razzo, poi verso febbraio crolla”, “il re dei titoli vinti in inverno e persi d’estate”, “il migliore di tutti, se solo non fosse matto”, et similia. Sono frasi che, anche se con ingredienti del tutto differenti, ricordano il sapore di quelle indirizzate a Stefano Pioli lo scorso anno, quando nessuno credeva davvero alla vittoria scudetto del suo Milan.

Quello non era il solito Pioli come questo non è il “solito” Napoli, né il “solito” Spalletti. Passino pure le interviste pre- e post-partita, luoghi del teatro spallettiano dove l’allenatore toscano è rimasto enigmatico e inafferrabile (anche ieri, dopo aver distrutto i maestri del calcio). Parliamo però del campo: questa squadra gioca sempre lo stesso calcio a prescindere dall’avversario che incontra. Che sia l’Hellas, il Torino, il Milan o l’Ajax, il Napoli prova a passargli sopra. Il termine non è casuale: questo Napoli non ha l’obiettivo di dominare l’avversario, non cerca di stordirlo e intrappolarlo con un possesso palla compulsivo-ossessivo; vuole semplicemente batterlo.

Se vincere significa fare gol, il Napoli si mette lì e fa (tanti) gol. In qualsiasi maniera e ad ogni costo. Lo si vede dalle giocate dei suoi interpreti, da quelli più corinzi (Kvara/Zielinski/Raspadori) a quelli più dorici (Anguissa/Kim/Di Lorenzo): in ogni caso sempre con una cattiveria agonistica da far spavento. Questa è una squadra che attacca l’area di rigore con 5/6 uomini, ma è anche la squadra che sa difendersi magistralmente e che nei momenti di sofferenza sa esaltarsi. In campionato (dove ha subìto 6 gol, terza miglior difesa dopo Lazio e Juventus a 5 e Atalanta a 3) e in Champions (dove, oltre ad aver battuto ogni record offensivo con il 6-1 di ieri sera, è ad appena 2 gol presi in tre partite).

Ajax-Napoli in questo senso non è la partita della svolta – quella che potrebbe essere, per l’Inter, la vittoria contro il Barcellona – ma delle conferme. Spalletti è stato bravo – finora – a sfruttare il relativo e generale silenzio della stampa nei confronti suoi e del suo Napoli. È stato bravo, anche, a congelare i bollenti spiriti di Auriemma & co. che quasi gli riportano alla mente l’ambiente di Roma – schizofrenico. E pensare che proprio Auriemma, dopo lo 0-3 di La Spezia con il quale i partenopei avevano chiuso la scorsa stagione, si era detto preoccupato per il futuro “di un Napoli che così forte sarà difficile rivederlo in tempi stretti”.

Lui come tanti altri, compresi quelli del bar sport, avevano intravisto la caduta di Gerusalemme nelle cessioni di Koulibaly e Fabian e nei mancati rinnovi di Insigne e Mertens. Noialtri, consapevoli che non sarebbe stato difficile sostituirli, si sono però fidati di Giuntoli: il miglior ds per distacco in Italia.

Kim e Kvaratskhelia non solo sono fortissimi: sono già al livello delle grandi notti di Champions, pur venendo da campionati “minori”. Raspadori era già molto bravo, ma così continuo e decisivo non lo era stato mai. Simeone è nel pieno della maturità e sta vivendo un sogno. Quelli che sono rimasti, poi, dal centrocampo alla difesa, stanno crescendo partita dopo partita. Paradossalmente, il problema più difficile che Spalletti dovrà risolvere è quello relativo ad Osimhen. Da quando si è fatto male, il Napoli ha sempre vinto – meglio, stravinto. In generale, è parso avere un gioco più fluido e corale, meno soggetto alle gigantomachie del suo numero 9. Un po’ come quando, coi dovuti paragoni, Sarri si trovò costretto a reintegrare Milik dopo essersi inventato Dries Mertens nel ruolo di punta centrale. Sembra un problema da poco, non lo è: superarlo significherebbe lasciare al resto della Serie A (e dell’Europa?) le briciole di una chiacchierata da bar sport.

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