Quella di Djokovic è una storia che viene da lontano.
Novak Djokovic è tornato a parlare ai microfoni della BBC, intervistato da Amol Rajan. E alla faccia di chi aveva fatto filtrare il suo ripensamento sul vaccino, è ripartito da dove aveva finito: «non sono mai stato contrario alla vaccinazione. Tutti si stanno sforzando per debellare il virus e il vaccino è probabilmente il più grande sforzo che sia stato fatto. Lo rispetto pienamente. Ma ho sempre supportato la libertà di scegliere cosamettere nel tuo corpo, per me questo è essenziale. Come atleta professionistico, ho sempre attentamente valutato qualsiasi cosa abbia assunto, dagli integratori al cibo all’acqua che bevo, qualsiasi cosa mettessi nel mio corpo. Basandomi su tutte le informazioni che avevo, ho deciso di non vaccinarmi, ad oggi».
Una decisione con delle “conseguenze” di cui Nole è bene a conoscenza, a partire da quelle che non gli consentiranno di disputare la maggior parte dei tornei del circuito. Eppure un prezzo che il numero uno del mondo (ancora per poco) è disposto a pagare.
Amol Rajan da parte sua non capisce. I due parlano linguaggi diversi, ragionano secondo canoni differenti, e forse nella testa di questo giovane e affermato giornalista inglese di origine indiana, media editor della BBC, non c’è spazio per una decisione simile. Non riesce a identificarla, a processarla. Così domanda a Nole: «ma sei veramente pronto rinunciare alla possibilità di essere il più grande giocatore che abbia mai preso in mano una racchetta, statisticamente… (si riferisce al numero degli Slam vinti, ormai primo criterio per giudicare algoritmicamente un tennista, ndr), in quanto così fermamente convinto circa il vaccino?». Djokovic: «sì, lo sono». Ma, lo incalza Rajan, «se le cose rimangono così vorrà dire che non giocherai il Roland Garros, è un prezzo che sei disposto a pagare?». Djokovic: «sì, è un prezzo che sono disposto a pagare». Ancora Rajan: «e se vorrà dire che perderai Wimbledon, ancora è un prezzo che pagherai?». Djokovic: «Sì».
In queste riposte del serbo non traspaiono rabbia e frustrazione; benché meno critica o scherno per chi ha fatto una scelta opposta, anzi. Djokovic appare serafico nella sua decisione, quasi epicureo. Serenamente rassegnato al dispiegarsi degli eventi. La sua è una decisione sovrana nel senso etimologico del termine, ponderata e sofferta, che rivendica – ma senza ostentare toni orgogliosi – anche nei suoi devastanti effetti sportivi. Novak non vuole lanciare messaggi che non siano il suo, quello di un atleta e di un uomo pronto a pagare per le sue convinzioni, disposto a rinunciare alla possibilità di essere consacrato, statisticamente, come il più grande tennista della storia – è già il primo staccato per settimane passate da numero uno al mondo, l’unico nel circuito ad aver vinto tutti i Master 1000 (almeno due volte), il solo ad avere un record positivo negli scontri diretti con tutti i più forti della sua epoca.
Un atteggiamento alieno per Rajan, che non riesce proprio a capacitarsene. Dopo un paio di secondi di silenzio, aggrottando le sopracciglia e con il tono accorato di chi chiede a un suicida perché stia per compiere l’insano gesto, l’intervistatore della BBC lo guarda fisso e gli domanda: «Why Novak? Why?». Lo chiama per la prima volta per nome, come a voler rompere il muro di irriducibile incomprensione tra le due sensibilità, nella speranza – non si sa quanto sincera o a favore di telecamera – di imporre un contatto umano, di dare il giusto consiglio ad un amico per il cui bene ci si sta preoccupando. Nole però è irremovibile: «Perché la decisione di cosa fare con il mio corpo è più importante di qualsiasi titolo, o di qualsiasi altra cosa». “Anything else”. Da qui si deve partire per comprendere la posizione di Djokovic.
Per chi non lo conosce, bisogna fare un passo indietro di dodici anni. Tornare al 2010, quando il 23enne serbo era già uno dei migliori tennisti del mondo, ma non certo paragonabile a Federer e Nadal. Con loro perdeva quasi sempre, e di Slam ne aveva vinto solo uno, a Melbourne 2008 in finale contro Tsonga. Ma soprattutto era il suo fisico a tradirlo regolarmente, a boicottarlo dall’interno: nella sua biografia Djokovic racconta che si districava tra gambe di cemento liquido, crisi respiratorie, difficoltà di recupero e stanchezza perenne. Magari andava avanti in un torneo ma arrivava svuotato a quello successivo, incappando in un’eliminazione immediata se non direttamente in un ritiro; assurdo, a pensare al Robo-Nole di una manciata di anni dopo. Lo stesso Federer disse di lui: «è ridicola la frequenza con cui si infortunia», mentre Roddick lo canzonava: «La condizione di Novak? Crampi, influenza aviaria, antrace, SARS, tosse e raffreddori comuni».
«Qualcosa dentro di me era guasto, malandato, inabile. Qualcuno parlava di allergie, altri di asma, altri ancora dicevano che ero semplicemente fuori forma, ma nessuno aveva una soluzione».
Novak Djokovic, Il punto vincente
Eppure Nole si allenava di più, sempre di più; “più degli altri” e in modi sempre diversi. Cambiava metodi, esercizi, preparatori atletici e anche programmi di allenamento; corsa, bicicletta, esercizi in palestra e sollevamento pesi. Le provava tutte, fino al punto di operarsi al naso nella speranza di respirare meglio – lo ricorda nell’intervista integrale, il cui audio è disponibile qui, anche a Rajan. Niente, il corpo continuava a tradirlo, come all’Australian Open 2010: è qui, dopo l’ennesimo default fisico, che qualcosa per Djokovic si rompe con la “medicina ufficiale”. Inizia allora, il 27 gennaio 2010, a delinearsi quel piano inclinato che lo porta verso un approccio all’alimentazione, alla cura del corpo e più in generale all’esistenza che trova il suo compimento (o meglio una sua tappa decisiva) dieci anni dopo, nel rifiuto di vaccinarsi.
In Serbia, quel 27 gennaio di dodici anni fa, davanti alla televisione c’è il dottor Igor Cetojevic che fa zapping con la moglie: quest’ultima, simpatizzante di Nole, gli chiede di lasciare la partita. È così che a suo marito, un nutrizionista totalmente disinteressato al tennis (e che oggi si definisce “specialista in medicina energetica”), bastano pochi minuti a 14 mila km di distanza per formulare una diagnosi sull’impotenza fisica di Novak: il suo è un problema di alimentazione. Djokovic perderà quell’incontro che pure aveva in mano, tra conati di vomito e dolori muscolari, ma nel frattempo Cetojevic prende a cuore la questione e contatta degli amici in comune con il padre di Nole – «la Serbia è un Paese piccolo!». Circa sei mesi dopo, quando Igor incontra Novak, si consuma la grande frattura con la scienza ufficiale. Così il tennista racconta il dialogo con Cetojevic:
«“Questo test ci aiuterà a capire se il tuo corpo è sensibile a certi alimenti”, mi disse».
«Non eravamo in ospedale, né in un laboratorio o in uno studio medico. (…) Poi mi chiese di fare una cosa molto strana: mi fece posare la mano sinistra sullo stomaco e distendere il braccio destro in fuori. “Voglio che tu opponga resistenza alla mia pressione”, disse, spingendo verso il basso il mio braccio destro. Un attimo dopo si fermò: “bene, è così che dovrebbe reagire il tuo corpo”. Poi mi diede una fetta di pane: “tienila premuta sullo stomaco e distendi di nuovo il braccio destro”. Tornò a fare pressione, e mi spiegò che quel semplice test avrebbe rivelato se ero intollerante al glutine. Mi sembrava una pazzia, eppure la differenza era evidente. Con la fetta di pane sullo stomaco il mio braccio faticava ad opporsi alla pressione. Ero visibilmente più debole».
Dopo questo responso empirico (il cosiddetto “test kinesiologico”), Djokovic spiega come sia ricorso ad un metodo più “scientifico e accurato” per approfondire la questione: il cosiddetto test ELISA, una pratica mai riconosciuta dalla comunità scientifica per quanto riguarda le allergie alimentari e che, basta fare una rapida ricerca su internet, viene ridicolizzata da una sequela di medici fact-checkers che la descrivono come un espediente per fare soldi privo di qualsiasi attendibilità. È così che Djokovic scopre di essere “sensibile al glutine”, e provvedendo ad eliminarlo (insieme a latticini e gran parte degli zuccheri) diventa una macchina perfetta: nessuna diagnosi di celiachia, nessun test anti-transglutaminasi che, quasi certamente, sarebbe risultato negativo. È lui stesso a chiarirlo: non è celiaco, come molti erroneamente pensano.
Per la medicina ufficiale, sostanzialmente, lui con il glutine non ha problemi. Eppure il suo corpo dice altro. Niente più asma, febbri, raffreddori, problemi respiratori; gambe finalmente leggere e, soprattutto, una lucidità mentale ritrovata. Insomma, fosse stato per la Scienza con S maiuscola, e per i migliori medici serbi a cui si era sempre rivolto, Djokovic non sarebbe mai diventato una leggenda del tennis. Così nasce il Novak alternativo e orientaleggiante: quello convinto che ogni organo lavori in determinate ore del giorno, che pratica il digiuno intermittente (mangiare nell’arco di 6-7 ore e non toccare cibo per le restanti), che si converte al veganesimo (salvo poi dover reintrodurre qualche proteina animale), che crede alla teoria della memoria dell’acqua, che rifiuta il vaccino e così via. Un approccio “olistico” (da όλος, tutto), per molti figlio di una subcultura para-scientifica (anzi antiscientifica), che però lo rende il tennista più dominante di sempre.
Tutto questo per dire che, se Novak non si fida oggi della medicina ufficiale – e non in generale per la società quanto invece per la gestione del suo corpo –, è a causa di un’esperienza vissuta sulla propria pelle: la sua è una questione personale, non collettiva. E ci tiene a rimarcarlo. Non ci pensa proprio ad essere simbolo del movimento no-vax, come spiega alla BBC. La sua non è ideologia no-vax in senso lato, bensì un approccio alternativo al proprio benessere che ne ha stravolto carriera ed esistenza – dal 2011 in poi, il serbo è oggettivamente il tennista più “performante” della storia. Fosse stato per i migliori medici serbi, e non per il dottor (lo è veramente?) Cetojevic, questo non sarebbe mai successo.
Ma c’è anche qualcosa in più.
Non si tratta solo di trofei ma di benessere, di salute e dell’espressione massima del proprio potenziale fisico e mentale. Djokovic ha superato se stesso, si è trasformato e lo ha fatto grazie ad un’impostazione radicalmente “antiscientifica” all’esistenza, che ci piaccia o meno. E certamente nei mesi scorsi si sarà domandato, tra sé e sé, perché dover credere adesso alla Scienza ufficiale; perché fidarsi degli stessi che gli garantivano come non avesse alcun problema, che gli consigliavano inutili operazioni al naso, o che gli diagnosticavano asma e deficienze del sistema immunitario. A quelli, in definitiva, che si accanivano sul sintomo invece di curare la causa. Questo avrà pensato Djokovic negli ultimi mesi ed anni, e se Rajan avesse studiato a fondo la sua storia lo avrebbe capito.
Quello che tanti infatti non comprendono, a partire dall’intervistatore, è che l’approccio di Djokovic non gli sta costando la possibilità di essere il migliore, ma gli ha consentito di diventarlo; non gli sta precludendo la possibilità di vincere altri slam, bensì gli ha permesso di vincerne 19. È il presupposto che è sbagliato. Il problema, in questi casi, è che rischia di innescarsi la radicalizzazione: per una diagnosi sbagliata non ci si fida più dei medici in generale, o meglio della medicina ufficiale. Ed è difficile biasimare qualcuno quando c’è di mezzo il corpo, non solo la carriera bensì la salute. Se noi avessimo problemi cronici, e la soluzione non ci venisse dagli ospedali ma da un osteopata, non saremmo spinti anche nelle occasioni successive a rivolgerci a quest’ultimo? Per Djokovic si è trattato di un processo simile ma la sua rimane una questione intima, personale. Non si è schierato contro la vaccinazione, né l’ha mai sconsigliata:
«chiedo solo che la gente rispetti la mia decisione, come io rispetto la loro».
Per questo continuare a crocifiggerlo è oggi gratuito, ingeneroso, addirittura meschino. Nei suoi confronti si è scatenato un populismo sanitario, comprensibile ma inquietante, che ha messo in mezzo tutto e di più: l’arroganza del ricco viziato, il “rispetto delle regole”, la frustrazione per la disparità di trattamento, o quella degli australiani per 262 giorni di durissimo lockdown; il giustizialismo, il moralismo e l’invidia social(e). Ma ancora prima il caso Djokovic ci ha fornito su un piatto d’argento l’opportunità finalmente di odiare, insultare, “perseguitare” qualcuno – e per di più con il pretesto del bene collettivo; il formidabile diritto di esercitare un istinto psicologico di base, quello della discriminazione, vestendo per giunta i panni dei buoni e dei giusti. In tanti non lo ammetteranno mai, ma di questo si è trattato: della libertà di odiare tutelati dalla “legge” (morale).
Così il tiro al bersaglio, il djoko al massacro, ha travalicato e di molto il buon senso. Oggi è chiaro come non si sia trattato di una questione sanitaria – i tennisti sono ultra-controllati e tamponati, i vaccinati possono infettare tanto quanto i vaccinati, Djokovic era guarito dal Covid e la sua richiesta di esenzione anonima era stata accettata da due equipe di medici indipendenti; né di una questione normativa – il serbo aveva seguito il protocollo, come dimostrato dal giudice Kelly, ed è stato poi espulso non per avere infranto le regole (l’unico errore burocratico era stata la dichiarazione di viaggio) ma a causa del “potere discrezionale esercitato dal Ministro dell’Immigrazione”, il quale ne ha annullato il visto per la “percezione che potesse ispirare un sentimento no-vax nel Paese” (un assurdo giuridico).
Si è trattato invece di una questione morale trasformata, ingiustamente, in questione etica, politica, sociale, sanitaria. Un caso personale divenuto caso pubblico. E risparmiateci la manfrina del ruolo da esempio degli sportivi: non siete credibili come gendarmi dell’igiene pubblica, e comunque si fottessero gli sportivi sponsor dello spirito del tempo, marionette delle multinazionali dei buoni sentimenti e della farmaceutica. Nel caso Djokovic si sono mescolati insieme tutti i peggiori umori della società, in un calderone dai fumi maleodoranti di istanze giacobine, invidie ancestrali e frustrazione vendicative. La legge è uguale per tutti, siete andati ripetendo per mesi nella soddisfazione di esercitare quella “giustizia” come fosse una robespierriana ghigliottina.
Eppure la realtà era molto più semplice della narrazione, ed è quella che si è manifestata alle telecamere della BBC: la realtà singola di un uomo, non di un disertore, di un trasgressore o di un profeta della galassia no-vax.
E allora dopo che ha spiegato, chiarito, dopo che si è scusato e giustificato, cos’altro volete da Djokovic? Una volta pretesa la condanna della persona e la distruzione dello sportivo, cos’altro volete da lui? Come uomo è stato accusato, strumentalizzato, colpito per educarne altri cento, e comunque non ha battuto ciglio. Come tennista è invece pronto a pagare l’altissimo prezzo del suo comportamento, e disposto ad accettare con serenità e senza rimostranze la pena – sproporzionata – che gli è stata inflitta. Certo Djokovic ha compiuto diversi errori, uno su tutti l’intervista concessa a l’Equipe da positivo. E poi ha commesso il peccato originale, non vaccinandosi. Ma siamo sicuri che sia questo il cuore del problema?
Con la stagione sulla terra rossa si aprono le danze per il campione di Maiorca, quel Rafael Nadal che ha costruito su questa superficie il suo monopolio. Eppure le incognite sono tante, tra la mancanza dei big e le nuove stelle nascenti.
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