Da Garrincha a Cristiano, passando per Best e Cantona.
La Logica può farsi da parte, se glielo impone la Storia. Non c’è altro modo per spiegare come un portiere col 3 cucito sulla schiena e un minorenne a cui il 10 è toccato in sorte condividano il campo con la più grande ala destra della storia, costretta a confondere gli avversari col dribbling e gli spettatori col numero di maglia, un 11 che tradizione e allenatori vogliono appartenga a chi si esibisce sull’altra fascia – nell’occasione il mancino Zagallo, con beffardo numero 7.
Svezia, giugno 1958. Il portiere è Gilmar, l’ala destra Garrincha e il minorenne Pelé. La numerazione è del tutto casuale: un funzionario della CBF, la Confederação Brasileira de Futebol, per rimediare alla dimenticanza del collega che ha inviato alla FIFA la lista dei convocati senza abbinare i nomi ai numeri, li assegna in maniera del tutto casuale perché digiuno di cose di campo. Il processo mitopoietico del “10” inizia così, per caso. Doppiamente per caso. Perché la titolarità di Pelé si concretizza solo nell’ultima partita del girone: o Rei, tronfio, afferma tuttora che a negargli il campo nei primi due incontri fu un infortunio al ginocchio.
Dida, colui che fu costretto a cedergli il posto, racconta invece un’altra storia.
Nell’esordio mondiale contro l’Austria (3-0, doppietta di un Altafini al tempo noto come Mazola) si fa male a una coscia e al cospetto dei maestri inglesi lo sostituisce Vavá; la partita termina 0 a 0 – il primo nella storia della Coppa del mondo – e lo spettro dell’eliminazione inizia ad alleggiare sulla Seleção. Il conseguente clamore, le riflessioni del selezionatore Feola e le rimostranze di alcuni senatori (Didi, Bellini e Nílton Santos) rivoluzionano l’attacco: contro l’URSS tocca a Pelé e Garrincha. Dopo quattro minuti il Brasile ha già colpito due pali e segnato un gol, e solo il fatto che a difendere la porta avversaria ci sia Lev Jascin evita la goleada.
Le due perle del futuro O’ Rey in finale
Il resto è storia nota: Pelé segna 6 gol nelle successive tre partite, incidentalmente quarti, semifinale e finale, trascinando il Brasile sul tetto del mondo per la prima volta nella storia. Ha 17 anni, interpreta il gioco in maniera differente, ride e piange (tra le braccia di Gilmar, il portiere col 3, dopo il triplice fischio della finale) con la facilità con cui dribbla e segna. Indossa la maglia numero 10, allora e per sempre. Iconico.
Quattro anni più tardi, in Cile è nuovamente il Caso – come sovente accade – a scrivere la Storia o quantomeno a darle un indirizzo.
Accade contro la Cecoslovacchia, nella seconda partita del girone eliminatorio: Pelé, spalle alla porta, sul morbido lancio di Djalma Santos si esibisce in un elegante controllo orientato col petto, perfetto per ammansire la palla e lasciarla alle cure del piede sinistro; l’accarezza, poi inarca la schiena e calcia, con violenza. Troppa. Un gesto banale, ripetuto infinite volte nell’arco dell’esistenza di un uomo da oltre mille gol, veri o presunti. La sfera rimbalza davanti al portiere, che forse con l’aiuto del palo e forse no, mistero della fede e delle immagini sgranate, evita il gol.
Pelé non se ne cura: una fitta alla coscia sinistra, ecco cos’è che monopolizza le attenzioni sue e del Brasile intero in quell’istante. Quanto dura un istante? Abbastanza per fiaccare un popolo, annientare un uomo ed glorificarne un altro. Quest’ultimo indossa gli stessi abiti di chi abbandona il sogno zoppicando, e lui, che zoppica da una vita perché una gamba concede all’altra ben sei centimetri, se ne differenzia per un particolare singolo: il numero di maglia. Mané Garrincha, stavolta, indossa il 7: lo glorificherà.
Quest’uccellino, ché garrincha altro non è che il nome che nel nordest del Brasile identifica un piccolo pennuto marrone con il dorso striato di nero, quest’angelo dalle gambe storte prende per mano un Brasile che non è nient’altro che un manipolo di veterani, senza Pelé. Più forte del pregiudizio, e persino del regolamento, Garrincha trascina il Brasile in finale. Ingolla un’aspirina e scende in campo: l’inverno australe gli ha portato in dono una febbre, è stato espulso (dopo aver segnato due gol) in semifinale contro il Cile per aver rifilato una ginocchiata a un avversario, e tutto questo pare non aver senso.
Ma il potentissimo Havelange interviene, e persino il governo brasiliano fa la sua parte: la squalifica viene revocata, Mané è libero d’affrontare la Cecoslovacchia e i tre uomini che Vytlačil, l’allenatore avversario, ha predisposto in marcatura su di lui.
La storia è nota: il Brasile vince in rimonta e bissa il successo di quattro anni prima. Priva di Pelé, la Seleção viene trascinata al trionfo da questo splendido meticcio afroindio, le cui prestazioni in quella Coppa del Mondo possono – giurano i testimoni – essere paragonate esclusivamente a quelle del Maradona messicano, anno di grazia 1986. Per la prima volta nella storia di questo gioco, tutti gli occhi della Terra sono puntati sul 7, il numero di Garrincha.
Il che può essere considerato sorprendente, in un certo senso, dato che il gioco del calcio nasce senza numeri di maglia. Per l’introduzione dei suddetti bisogna attendere l’agosto del 1928, quando Herbert Chapman (che tra le altre cose s’è inventato il Sistema, il celeberrimo WM, ma questa è un’altra, straordinaria storia) appiccica un quadratone bianco col numero di maglia al centro sulla maglia biancorossa dell’Arsenal, il cui rosso s’è fatto più vivido dal suo avvento sulla panchina dei Gunners non per figura retorica ma per effettiva innovazione cromatica, un’altra sua pretesa. L’idea piace, quella del numero, e le altre squadre lo emulano: nel 1939 la Football Association ne sancisce l’obbligatorietà.
L’assegnazione del numero non è casuale ma segue criteri differenti, figli delle diverse scuole calcistiche. Eccezion fatta per il portiere con l’1, balza all’occhio che il centravanti (ma non sempre, chiedere al magiaro Hidegkuti) indossa il 9, il padrone della fascia destra è il 7 e su tutto il resto c’è grande libertà e varietà di pensiero a ogni latitudine. Varietà di pensiero che scarseggia quando ci si domanda chi sia stato il primo grande numero 7 della storia. La risposta è univoca, e coincide con quella che si dà alla domanda «Chi ha vinto il primo Pallone d’oro?»: Stanley Matthews, of course.
Nell’Enciclopedia dello Sport (2002), Roberto Beccantini lo definisce «un’ala destra dal repertorio classico e completo: finta micidiale, gran gioco di gambe, abilità tecnica strabiliante, scatto non meno perentorio».
Non si vide mai sventolare un cartellino in faccia, anche perché questi furono introdotti solo nel 1970, ma non venne neppure mai ammonito né tantomeno espulso nel corso della sua interminabile carriera: esordì nel 1932 contro il Burnley, si ritirò nel 1965 dopo aver giocato l’ultima partita contro il Fulham (unica apparizione stagionale), rammaricandosi poi della decisione presa perché convinto di poter disputare ancora almeno un paio di campionati. A cinquant’anni suonati. Matthews è, per i sudditi della Regina, the original number 7, ma l’Inghilterra in quanto a celebri indossatori di questo numero non ha eguali al mondo.
Se a Liverpool, sulla sponda rossa del Mersey, si sono avvicendati Kevin Keegan e Kenny Dalglish, è aManchester, anche qui nella metà rossa della città, che al 7 sono stati attribuiti poteri taumaturgici. George Best, che oggi è un’orgia di aforismi, ma in vita – nel segmento di vita trascorso sul rettangolo verde, in special modo con la maglia dei Red Devils – è stato un’ala così rapida da sgattaiolare nella leggenda dopo solo qualche sprazzo di cronaca e alcune non trascurabili escursioni nella storia.
Poi è stata la volta di Eric Cantona, che dell’anticonformismo ha fatto una bandiera quand’ancora giocava, ma giocava talmente bene che tanti colpi di testa – in prevalenza figurati, qualcuno letterale – era d’uopo tollerarli. David Beckham, quindi: un altro caso, anzi forse il più evidente, in cui la fama ha oscurato la classe. Lo Spice Boy, piede destro edizione limitata, darà l’addio al Manchester United e al 7 per salire sull’astronave diretta sul pianeta Real Madrid: galáctico anche nella scelta del nuovo numero, il 23 jordaniano.
E così il 7 se lo prende un diciottenne portoghese, coi brufoli e il sorriso metallico: garantisce Ferguson.
Il ragazzino viene da Lisbona, sette colli come la nostra Roma, ma in Portogallo indossava il 28 – come Beckham agli esordi, guarda tu il caso – e non è proprio sicurissimo di volersi prendere una simile responsabilità. Ma a Ferguson è oggettivamente difficile dire no, e così sopra il 7 del Manchester United, a partire dalla stagione 2003-04 compare la scritta «RONALDO». Quando termina l’idillio mancuniano, per qualche spicciolo – oddio, spicciolo… – in meno di 100 milioni di euro, per Ronaldo Cristiano, ormai CR7, si presenta il medesimo inconveniente che aveva indotto Beckham a omaggiare un altro dall’acronimo piuttosto noto, MJ.
Raúl, icona delmadridismo, ha già costretto un altro lusitano illustre a virare sulla 10 blanca, evento che indurrà un altrettanto illustre francese a ripiegare sul 5, e di fronte all’ingellato nuovo acquisto non ha per il momento intenzione di abdicare. CR9, quindi. Ma al termine del duumvirato, durato una stagione appena, eccolo riappropriarsi dell’imprescindibile numero 7. Che a Torino scuce dalla maglia di un Cuadrado entusiasta e complice.
Un cyborg all’ombra della Mole, il contrasto con ciò che i 7 sono stati per Torino è stridente. Meroni era una farfalla, volata via troppo presto; Sala scriveva poesie all’ala destra; Causio, nobiltà salentina, aveva la classe e lo stile di un barone. Cristiano Ronaldo è un uomo bionico, più prossimo a Shevchenko – 7 atipico, a suo agio in area anziché sulla fascia – e alla sua disciplina postsovietica che all’improvvisazione di colui che è stato, probabilmente, il più grande numero 7 nella storia del calcio azzurro: MaraZico Bruno Conti, un mancino all’ala destra.
È cambiato il mondo, il calcio non poteva fare altrimenti. Il più forte, il più vincente dei numeri 7 ce lo stiamo godendo oggi: un Pallone d’oro per ogni dito del piede destro, e lo stesso vale per le Champions League. Snocciolarne il palmarès per intero, annoierebbe. Così come rischia di annoiare, talvolta, Cristiano – CR7, anzi – nella sua interminabile ricerca della perfezione: da ala fumosa, il dribbling come ragione di vita, s’è trasformato in attaccante esterno. Non dribbla più manco un birillo, segna come nessuno e si abbandona a un’esultanza preconfezionata.
Il suo avo Garrincha, in comune tra i due solo la lusofonia, zoppicava nei dintorni della riga di gesso, piegava il tempo e il marcatore al suo volere, strabico saltimbanco morto in disgrazia dopo aver regalato tutta la gioia che aveva in corpo alla gente che l’amava. Involuzione della specie?