Maestro della festa perpetua.
Da un po’ di tempo Luciano Spalletti per me non è un semplice allenatore di calcio. È una scuola filosofica, un modello comportamentale che si adatta ai contesti più disparati: affetti, lavoro, studio. Che vuol dire essere spallettiani? Praticare l’ironia nella buona e nella cattiva sorte, la pazienza, non disperdere le energie quando serve incanalarle, fare il contrario quando devi cambiare marcia. Spalletti è una sorta di Gurdjieff contemporaneo, nello sforzo fisico, intellettuale ed emotivo che mantiene lucida la visione sulla propria vita, con la quale spesso si lotta: sofferenza e gioia, alto e basso, vittoria e sconfitta.
Questo vale soprattutto se si analizza il suo linguaggio, non solo per le invenzioni e i motti memorabili alla Sun Tzu, ma per quei non-detti che Luciano rielabora quando affronta la comunicazione altrui: non credo esista nella storia recente un interlocutore così difficile per un giornalista (professione che rappresenta il metro della comunicazione media, spesso elementare), in grado com’è di leggere tra le righe delle righe, decostruendo i sottintesi e le insinuazioni con un’intelligenza non acquistabile.
Da quando sono tornati Allegri, Sarri e Spalletti, la Serie A è tornata ad essere il campionato più bello del mondo (senz’altro, quello dialetticamente più ricco e interessante).
Questo aspetto infatti, che mi rendo conto essere il carattere specifico di tutti i miei idoli, non si insegna, non si apprende in diecimila corsi e lauree, è fuori dall’economia, da quel rapporto costi-benefici della vita quando è maggiormente (fra)intesa e ridotta a investimento imprenditoriale di sé. La scommessa, semmai, è sempre in perdita, perché mal che vada, a 64 anni, può sempre capitare che l’assurdità della vita, che qualcuno chiama destino, ti porti a fissare le tue impronte sulla linea temporale, a diventare tu stesso un destino.
Che si trattasse di matrimonio felice lo abbiamo tutti intuito dal primo giorno, quando Luciano si presentò con un capolavoro di eloquenza che già appartiene alla storia della letteratura napoletana: «la città dove calcio e miracoli sono la stessa cosa». Perché pagare milioni per una campagna turistica penosa, quando la genialità è sempre fuori dagli affari ministeriali e dalle scusanti altrettanto patetiche di chi non ha che una visione, linguisticamente e simbolicamente, ristretta delle cose?
Dove, infatti, non meriterebbe di campeggiare una definizione così? Non potrebbe mancare in una descrizione dei più bei ‘vichi’ della città, dove non vi è alcuna distinzione tra sacro e profano ed è abolita ogni forma di moderazione: chi ha avuto modo di visitare Napoli dal momento della certezza ‘spirituale’ dello scudetto, sa bene che l’eccesso e l’ostentazione non indicano una certa carenza di equilibrio estetico (come vogliono gli ultimi ignoranti rimasti, loro sì arretrati nella storia del pensiero umano), ma un rifiuto deliberato a ogni compromesso emotivo e culturale.
Nonostante il turismo – che mi piace definire «l’economia dei disperati», e penso all’Italia intera – minacci anche una città fortemente identitaria come Napoli, è evidente che, a differenza di altri luoghi, qui il carattere popolare è accentuato all’estremo piuttosto che sopito. Certe cose non si vendono, anzi vanno sbattute in faccia ai colonizzatori: non si vende e non si controlla neppure l’euforia di queste settimane, e ‘val bene’ rifiutare lo stereotipo della scaramanzia se ciò significa festeggiare uno scudetto praticamente ogni settimana, o più giorni a settimana, o più volte al giorno, quando le inseguitrici ti concedono altri punti di vantaggio a un’ora dalla partita decisiva – che poi non vinci, ma pazienza, si festeggia lo stesso in attesa di festeggiare di nuovo, in un carnevale perpetuo da lui codificato come
«dilazionamento del godimento».
Napoli città della festa. Questa è l’ultima sfida che Spalletti ha inizialmente pensato di affrontare, cioè controllare un’euforia ingestibile, per poi gettare la spugna dopo poche partite. Anche in questa occasione, con la solita intelligenza, Luciano ha fatto capire molto del suo modo di intendere il calcio e il rapporto con i tifosi. Mi pare che, diversamente da altri colleghi dal carisma iconico, qui si giochi una differenza fondamentale, cioè quella tra leader e maestro. «Noi siamo quelli che materializzano il sogno dei nostri tifosi», ha detto dopo il pareggio con la Salernitana: è uno scambio amoroso che avviene sullo stesso piano, una continuità di intenti che non prevede personalismi e accentramenti (che pure tanto fanno godere gli appassionati di questo sport, come è giusto che sia).
E in un mondo che aziendalizza tutto, dal linguaggio ai rapporti umani, dalla cultura ai sentimenti, abbiamo bisogno di personalità uniche che ci indichino un’altra strada: e che questa assomigli più alla vecchia che alla nuova poco importa (ci vorrà sia l’una che l’altra), ci basta che un’alternativa sia sempre possibile anche solo sognarla, o riviverla in una città che ha fatto del sogno un’ossessione fino a realizzarlo. Festa dopo festa, così, la distinzione tra reale e immaginario è un mero problema di certificazioni burocratiche. E se anche il maestro Luciano si è abbandonato alla gioia, forse è perché ha riletto un vecchio capolavoro che incita a non rimandarla:
Questo è un sogno, e se lo è,
sogniamo adesso le gioie
che poi saranno dolori.
Ma coi miei stessi argomenti
mi convinco del contrario:
se è sogno, se è vanagloria,
chi per vanagloria umana
perde una divina gloria?
La vita è sogno, di Pedro Calderón de la Barca