Esistono persone nate per diventare personaggi, per le quali la carriera e la stessa esistenza si trasformano in una sorta di allenamento per vivere in eterno nella memoria collettiva. Persone che spingono la rappresentazione di se stesse fino a fingere di essere esattamente quello che sono. In quella dimensione che è il “pianeta calcio”, Oronzo Pugliese fa sicuramente parte di questa categoria. Prima modesto giocatore, poi eccentrico allenatore, Pugliese ha consentito alla sua macchietta di caratterizzare una saga proseguita su grande schermo con la maschera di Oronzo Canà, protagonista del film “L’allenatore nel pallone”, interpretato da Lino Banfi e diretto da Sergio Martino. Ma, come spesso accade nelle produzioni seriali, c’è un prequel. Il nostro, ha un luogo e una data precisa: Foggia, domenica 31 gennaio 1965.
Allo “Zaccheria”, i “satanelli” locali ospitano i Campioni d’Italia dell’Inter. Il cielo è coperto, minaccia pioggia, c’è il record d’incasso (trentadue milioni di lire), lo stadio è pieno come un uovo, e circa ventisettemila spettatori assistono al miracolo dei padroni di casa che, su un terreno in terra battuta e privo d’erba, sconfiggono i neroazzurri sulla cui panchina siede il “mago” Helenio Herrera, riverito protagonista della nostra serie A. Sull’altra panchina, quella del Foggia, siede invece un elegante cinquantacinquenne, Oronzo Pugliese. Sì, perché in una di quelle tappe all’incrocio di due destini, ogni protagonista necessita di un antagonista: un antimago, in questo caso. E noi, lo avrete capito, proprio di lui, dell’antimago, ci vogliamo occupare. Ecco, chi è Oronzo Pugliese? Nato a Turi, in provincia di Bari, il 5 aprile 1910, ultimo di sette figli, fin dall’infanzia il piccolo Oronzo ha le idee chiare: diventare un calciatore.
Lavorare in campagna e aiutare il padre nel vigneto non se ne parla, e allora a sedici anni scappa di casa e va a giocare ad Acquaviva delle Fonti, vicino a Bari, firmando il suo primo contratto da calciatore. Da quel momento inizia un’onesta carriera da roccioso difensore, che lo conduce prima al Frosinone, poi a Montevarchi e a Potenza, e infine a Siracusa, dove diventa il capitano della squadra locale che milita in serie C. Siamo nel 1938. Nella città siciliana si ferma due anni e incontra quello che sarà l’amore della sua vita, Adelina, una donna garbata, riservata e molto religiosa con la quale convolerà a nozze nel 1940, e che lo seguirà nel suo peregrinare per mezza Italia. Ormai accantonati i sogni di gloria (giocare nelle serie maggiori non è cosa per lui), il sanguigno Oronzo accetta l’incarico di allenatore-giocatore al Messina, in serie C, e nel doppio ruolo conduce la squadra in serie B, dopo aver disputato lo spareggio con il Cosenza.
Finita l’esperienza al Messina, viene ingaggiato prima dal Benevento, poi dal Caltanissetta, e infine dalla Reggina, e a Reggio Calabria si ferma tre anni, dal 1955 al 1958, guidando la squadra locale dalla serie D alla C. Poi è la volta del Siena del presidente Danilo Nannini, padre di Gianna, in serie C, dove sfiora la promozione ma viene battuto nello spareggio di Genova dal Mantova di Edmondo Fabbri. Quindi ancora Sicilia, a Siracusa, poi il ritorno a Siena, e infine l’approdo nell’estate del 1961 al Foggia, in serie C, quasi in contemporanea con l’arrivo del nuovo presidente, Domenico Rosa Rosa, avveduto imprenditore campano che porta stabilità finanziaria nelle casse societarie. Da quel momento inizia un ciclo vincente che, dopo quattro anni di trionfi, consente alla squadra pugliese di raggiungere la serie A. Si comincia con la promozione in serie B, al termine della stagione 61/62, e, dopo due anni fra i cadetti, arriva il tanto atteso salto nella massima serie nel giugno 1964.
A don Oronzo viene consegnato il “Seminatore d’oro”, premio attribuito dalla Figc all’allenatore emergente della stagione. Inizia l’avventura dei “satanelli” in serie A. Il Foggia è una buona squadra, che schiera un undici così composto: Moschioni, Micelli, Valadè, Bettoni, Rinaldi, Micheli, Favalli, Lazzotti, Nocera, Maioli e Patino. Lo stesso undici che, alla diciannovesima giornata, ospita i Campioni d’Italia, d’Europa e del mondo dell’Inter, attardati di cinque punti dal Milan capolista, mentre il Foggia occupa una più che onorevole posizione di metà classifica. Il prequel, ricordate? La partita è preceduta da una visita della squadra neroazzurra a San Giovanni Rotondo, ospite di Padre Pio, che predice ai milanesi la sconfitta del giorno dopo ma la conquista dello scudetto.
Profezia che puntualmente si avvera. Tutto accade nella ripresa quando, dopo un primo tempo equilibrato, il Foggia rompe gli indugi gettandosi con coraggio leonino all’attacco e marcando due reti nei primi nove minuti; l’Inter è sorpresa ma ha una reazione rabbiosa che la porta prima ad accorciare le distanze con Peirò, poi a impattare con un gran gol di Suarez. Passano un paio di minuti e Nocera s’inventa un gol magistrale che riporta avanti i satanelli mandando in visibilio i tifosi che, al grido di “Italia, Italia!” (in contrapposizione alla fama mondiale degli avversari), sospingono i rossoneri all’insperata vittoria. “Che partitone il Foggia! Suarez non basta più”, titola Tuttosport il giorno dopo.
“W la provincia!”
recita in prima pagina il Corriere dello Sport. In quel giorno nasce la leggenda calcistica di Oronzo Pugliese, la risposta italiana ad Helenio Herrera e, nell’Italia dei campanili, alle ormai celebri rivalità Coppi-Bartali, Benvenuti-Mazzinghi e Rivera-Mazzola, si va ad aggiungere quella fra “il mago” e “l’antimago”.
Nati entrambi nel 1910 sotto il segno dell’Ariete, istrioni, con innato il gusto della polemica, provenienti da famiglie di umili origini, don Helenio e don Oronzo hanno molto in comune, compreso il vezzo di togliersi qualche anno dalla carta d’identità. Calciatori mediocri, rudi difensori e nulla più, coltivano però il fuoco della passione calcistica che riescono a trasmettere una volta diventati allenatori. E se Helenio Herrera contribuisce alla nascita dell’allenatore professionista, facendone lievitare guadagni e popolarità, Oronzo Pugliese rappresenta la replica strapaesana al mister straniero dall’ingaggio faraonico. Con abilità e pazienza certosina, l’argentino diventa l’autore del proprio personaggio, ma lo stesso fa l’allenatore di Turi, e all’ “habla habla” herreriano Pugliese replica in dialetto, che è un po’ come rispondere agli incantesimi di un ponderoso trattato di magia con il folclore rupestre tramandato per via orale.
E allora ecco i riti scaramantici, come spargere il sale ai bordi del campo, oppure indossare il classico completo di lino bianco anche in inverno. E alle frasi apodittiche di don Helenio (“Il calcio moderno è velocità. Gioca veloce, corri veloce, pensa velocemente, marca e smarcati velocemente”, oppure “Le cose difficili esigono tempo, quelle impossibili ne esigono ancora di più”), fanno da contrappunto le espressioni di pura saggezza popolare di don Oronzo, come il suo “Undici sono loro undici siamo noi”, che è sì una frase semplice, ma che ha il pregio di uscire dall’iconografia da cioccolatino per entrare in quella calcistica condivisa. Perché poi gli usi e le tradizioni locali funzionano, e in quegli anni Pugliese assurge al ruolo di moderna nemesi del più famoso collega argentino. Elegantissimo nei suoi abiti a doppiopetto, l’allenatore di Turi si materializza all’Hotel Gallia di Milano, sede del calciomercato, e rovescia sui presenti la sua contagiosa allegria paesana, e per i giornalisti il suo arrivo è garanzia di titoli in prima pagina sui giornali sportivi del giorno dopo.
“Un mimo furente di certe grottesche rappresentazioni di provincia”
scrive di lui Gianni Brera. E quel mimo furente il meglio del suo repertorio lo mostra durante i novanta minuti. La panchina scotta, per Oronzo Pugliese, che si agita, gesticola, sbraccia, e sono autentiche pantomime, le sue. Grottesche rappresentazioni di provincia, appunto. Senza contare i suoi scarti semantici (il suo “tu ti stai, io mi sto, tu me la chiedi, io non te la do”, è una perfetta sintesi di tattica applicata), o i proverbi improvvisati lì per lì. Come l’ormai classico “quando il pesce grosso non riesce a mangiare il pesce piccolo, va su tutte le furie”, che sibila durante un Milan -Cagliari del 11 aprile 1965, quando i giornalisti della Rai lo convincono a tenere un microfono nel taschino della giacca per registrare commenti e incitamenti, per poi farne un servizio da mandare in onda per la rubrica sportiva “Sprint”.
Intanto alla fine della stagione il suo Foggia si piazza a metà classifica a pari punti con la Roma, e proprio la società capitolina contatta don Oronzo nella persona del presidente, il conte Marini Dettina, insoddisfatto della gestione dell’argentino Juan Carlos Lorenzo che, nonostante una rosa di tutto rispetto, che annovera nelle sue fila calciatori come Schnellinger, Angelillo, De Sisti, Losi e Nicolè, non riesce a insidiare le prime posizioni. Pugliese non si lascia scappare l’occasione della vita e firma per i giallorossi nel maggio del 1965. Siederà sulla panchina giallorossa per tre anni: un record, per quei tempi, in cui alla presidenza del club capitolino si succedono presidenti commendatori, onorevoli e conti, come Francesco Marini Dettina, appunto, numero uno del club giallorosso dal 1962 al 1965. Con lui, prima di Oronzo Pugliese si sono avvicendati sulla panchina Luis Carniglia, Alfredo Foni, Luis Mirò e Juan Carlos Lorenzo.
Durante le sessioni estive del calciomercato Marini Dettina cerca nomi altisonanti e non bada a spese, ma il quasi mezzo miliardo sborsato per acquistare dal Mantova il brasiliano Angelo Benedicto Sormani nell’estate del 1963, porta quasi al collasso le finanze societarie. Mancano i soldi per stipendi e trasferte e così, su input di un giornalista locale, viene organizzata una surreale adunata di tifosi al teatro Sistina, con conseguente colletta: cento lire a tifoso, con il capitano Losi a raccogliere l’obolo come un chierichetto durante la messa. Nasce la leggenda della “Rometta”. Vengono raccolti seicentomila lire, ma il conte, sdegnato, li rifiuta. Un gesto nobile, pari al suo lignaggio, ma che lo costringe a lasciare la presidenza dopo pochi mesi. Al suo posto subentra l’onorevole Franco Evangelisti, il camerlengo di Giulio Andreotti.
La parola d’ordine è austerity. La Roma è costretta a cedere Karl-Heinz Schnellinger al Milan e l’idolo locale Giancarlo De Sisti alla Fiorentina. Con sano pragmatismo, Oronzo Pugliese prende atto che la situazione è una di quelle che costringono a cambiare il piano A e a inventare un piano B, così rivaluta il settore giovanile (Scaratti, Spinosi e Liguori), si accontenta dell’arrivo di Paolo Barison dalla Sampdoria (a cui si aggiungono altri acquisti di secondo piano), e si affida al “er core de Roma”, ovvero capitan Giacomo Losi (il soprannome origina da un episodio degno della miglior epica calcistica avvenuto durante un Roma–Sampdoria del 8 gennaio 1961, quando Losi, pur infortunato e relegato all’ala a seguito di uno strappo – ai quei tempi non sono consentite sostituzioni – riesce a segnare di testa il gol decisivo che permette ai giallorossi di aggiudicarsi il match per 3-2).
L’irruzione di don Oronzo è come una perturbazione meteorologica dopo mesi di sereno. L’ex allenatore del Foggia impone da subito un cambio di registro nella sonnecchiosa atmosfera dello spogliatoio romanista. Cominciando dal ritiro. Abituati alle soporifere “vacanze romane“ a Vipiteno, Pugliese sorprende tutti dirottando la truppa in Molise. “Tutti a Campuwash”, ordina ai suoi “picciotti”, svelando la nuova destinazione direttamente sul pullman che trasporta la squadra al ritiro. Vale la scaramanzia. Campobasso è stata la sede del ritiro del Foggia, e lo deve diventare anche per la Roma. Una preparazione caratterizzata dal caldo afoso, da campi in terra battuta e senza docce, ma da tanta allegria, un’allegria che fa da carburante per un campionato che inizia bene, e alla quarta giornata ecco il match clou.
Già, perché la Roma ospita l’Inter mondiale e, a distanza di otto mesi da quello storico Foggia–Inter, i due rivali si ritrovano ancora uno di fronte all’altro. E “il mago” paga ancora dazio, con “l’antimago” che trionfa grazie a due reti segnate da Benitez e Barison, che regalano il 2-0 finale alla Roma. “Il vero mago sono io, quello è solo uno stregone”, tuona don Oronzo, mentre Herrera tace e mastica amaro. E al ritorno non va molto meglio, per l’undici neroazzurro, costretto a inseguire due volte i giallorossi fino al rocambolesco 2-2 finale. “
Non sono io l’Herrera del sud, è lui il Pugliese del nord”,
sibila malizioso ai cronisti Pugliese, e la sua “Rometta” si toglie la soddisfazione di sottrarre tre punti su quattro alla squadra che a fine stagione si laurea Campione d’Italia. La Roma conclude la sua onorevole stagione all’ottavo posto. Nell’estate vanno di scena gli infausti Campionati mondiali inglesi, che vedono gli Azzurri ridicolizzati ed estromessi dalla fase finale dalla Corea del Nord. La Figc proroga il blocco all’acquisto dei calciatori provenienti da campionati esteri e, per tre lustri, i tifosi non vedranno calciatori stranieri esibirsi nei nostri stadi (l’Inter deve rinunciare all’acquisto di Eusebio e Beckenbauer, con i quali aveva firmato un pre-contratto). Intanto la popolarità di don Oronzo lievita, e prima dell’estate arriva un’offerta dal Milan, che però il tecnico pugliese declina preferendo rimanere nella capitale.
Franco Evangelisti apprezza il gesto e gli propone un aumento di ingaggio: 55 milioni. Proposta che viene prontamente accettata. Con una squadra rivoluzionata nel calciomercato estivo, Pugliese guida i giallorossi a un’onorevole decimo posto, impreziosito dalla vittoria nel derby d’andata per 1-0, con rete di una promessa cresciuta nella Tevere Roma, Enzo (Il derby di ritorno finisce invece a reti bianche), da quella casalinga sui futuri Campioni d’Italia della Juventus (1-0, autorete di Bercellino), e dai due pareggi, entrambi senza reti, strappati alla capolista Inter (i neroazzurri rimangono in testa al campionato fino all’ultima giornata, superati al fotofinish dalla Juventus). Con la serie A ridotta a sedici squadre, nell’estate del 1967 la Roma cede Paolo Barison e con uno sforzo economico acquista la promettente mezzala Fabio Capello dalla Spal, arrivato nella capitale insieme a Jair, acquistato dall’Inter, e a un giovane prelevato dal Genoa, Giuliano Taccola, una punta dalla velocità supersonica e con un ottimo fiuto del gol, ma con un destino segnato da una sorte avversa (il 16 marzo del 1969, all’età di 25 anni, morirà tragicamente nello spogliatoio dello stadio Amsicora di Cagliari a seguito di un’iniezione sospetta, un decesso che, a distanza di anni, lascia ancora molti dubbi).
La stagione inizia come meglio non potrebbe per i giallorossi (Pugliese strappa un altro punto al rivale Herrera, 1-1 a San Siro alla prima giornata), e dopo sette turni la Roma si trova sola in vetta alla classifica, dopo aver espugnato il Comunale di Torino grazie a una rete di Capello (Juventus – Roma 0-1, 5 novembre 1967). Purtroppo, un grave infortunio occorso proprio all’ex spallino, accompagnato da un progressivo scadimento di forma generale, non permette alla Roma di andare oltre al decimo posto finale, di poco sopra la zona salvezza. Durante l’estate si assiste a un nuovo cambio al vertice societario, e a Franco Evangelisti subentra prima l’avvocato Franco Ranucci, poi, a fine anno, l’imprenditore edile Alvaro Marchini.
La società decide di dare una scossa all’ambiente, e a farne le spese è proprio l’allenatore, secondo il più classico dei cliché. Ma oltre al danno (Pugliese ha un altro anno di contratto) arriva la beffa, perché a sostituire don Oronzo arriva niente meno che lui, l’odiato rivale, Helenio Herrera, strappato all’Inter con un ingaggio faraonico. (“Il Mago” non farà molto meglio del suo predecessore, riuscendo a vincere nei suoi cinque anni di permanenza nella capitale solo una Coppa Italia nel 1969). I Commendatore per meriti sportivi Oronzo Pugliese (riconoscimento ricevuto nel 1966 dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat) prende atto, mastica amaro, ma si rincuora pensando ai meriti acquisiti in un triennio trascorso sulla panchina giallorossa, arco temporale durante il quale ha restituito entusiasmo all’ambiente, riportando i tifosi all’”Olimpico” come non accadeva da anni e ottenendo risultati sportivi superiori all’effettivo valore della rosa a sua disposizione.
Il proseguo della carriera lo vede subentrare a Cesare Cervellati sulla panchina del Bologna all’inizio del 1969, con i felsinei in cattive acque di classifica e condotti a fine campionato a un tranquillo posto di centro classifica, quindi l’approdo a Bari durante la successiva estate. La formazione pugliese è stata promossa in serie A, e don Oronzo sembra la persona giusta nel posto giusto. L’entusiasmo è alle stelle e la campagna abbonamenti va a gonfie vele. 14 settembre 1969, prima giornata di serie A. Il Bari ospita la Roma. “Mago” e “antimago”, ça va sans dire. Eh sì, ancora loro. Più di quarantamila spettatori gremiscono lo stadio “Della Vittoria”. C’è il record d’incasso. Il match è preceduto da sfottò e frasi a effetto fra i due rivali. La partita è a senso unico e, spinti dall’entusiastico incitamento dei tifosi, i calciatori del Bari si superano sconfiggendo i giallorossi per 1-0, grazie a una rete realizzata da Canè su rigore.
Ancora una volta il protagonista cede all’antagonista, proprio come nel prequel del gennaio del 1965, ricordate? Allora Foggia, ora Bari. Sempre la Puglia, nel destino. Location ideale per l’ultima scena. Sì, perché la nostra storia può finire qui. Anzi no. Perché sei anni dopo la conclusione della carriera di un Oronzo (dopo Bari, ci sarà la Fiorentina, la Lucchese, l’Avellino, il Termini e infine il Crotone, dove concluderà la carriera al termine della stagione 1977/78), inizia quella di un altro Oronzo.
Nell’ottobre del 1984 esce al cinema un film diretto da Sergio Martino. Si intitola “L’allenatore nel pallone”. A interpretarlo, Lino Banfi. Il comico di Andria veste i panni di Oronzo Canà, un eccentrico allenatore pugliese conosciuto come “Il Vate della Daunia”, chiamato ad allenare la Longobarda. La sua tattica è semplice: “Mentre i cinque della difesa vanno avanti, i cinque attaccanti retrocedono e così viceversa, e durante questa confusione le squadre avversarie non ci capiscono più niente”. Un pensiero che sembra quasi un proverbio. Non vi ricorda qualcuno?
Giornalista: “Pensa di avere fatto una magia, oggi, battendo i Campioni del mondo dell’Inter?”
Oronzo Pugliese sorride, fruga nelle tasche della giacca, in quelle dei calzoni, si guarda le mani e torna a sorridere. “La bacchetta magica l’ho dimenticata a casa”, dice.
Liberamente tratto da “Oronzo Pugliese”, di Giovanni Cataleta.