Ritratti
03 Marzo 2020

Oscar Washington Tabarez, filosofo e guerriero

El camino es la recompensa.

Qualificazioni per i mondiali di Russia 2018, girone sudamericano. È l’11 novembre e a Montevideo si affrontano Uruguay ed Ecuador. I padroni di casa vincono per 2 a 1, ma ad attirare l’attenzione di tifosi e media poco prima dell’incontro è un uomo a bordo di un “carrito”, carrozzina elettrica con la quale scorrazza il campo. Non è la prima volta che Oscar Washington Tabarez, tecnico dell’Uruguay, si presenta così agli occhi delle telecamere: è di qualche mese fa l’indiscrezione, mai confermata dal diretto interessato, secondo la quale l’allenatore sarebbe stato colpito dalla sindrome di Guillain-Barré, malattia autoimmune che attacca gli arti inferiori e superiori rendendo difficile la deambulazione.

Il calcio è vita per questo gentiluomo nato a Montevideo nel 1947: ex difensore centrale di discreto livello, frequenta l’università immaginando una tranquilla carriera da insegnante salvo decidere, fin dai primi anni Ottanta, di alternare alla didattica nelle scuole quella nei campi di calcio. Una continuità tra le aule delle zone più degradate di Montevideo e il football che gli vale da subito il titolo di “Maestro”. La carriera di Tabarez è conseguenza dello stile dell’uomo. Pochi effetti speciali, ma riflessione, studio, modestia. E poi quella trasposizione, che piace tanto in Sudamerica, di concetti mutuati da filosofia e politica al calcio. Gioco a zona e Galeano, Vargas Llosa o Vaz Ferreira.

Roba da intellettuali del pallone: «Il calcio è di destra, noi allenatori di sinistra siamo vittime della legge del risultato: è la legge del risultato a rendere conservatore il calcio», dice Tabarez, «ed essere progressisti significa superare la gabbia del risultato. A sinistra c’è quella che io definisco l’Utopia: lavorare per un progetto e cercare di realizzarlo andando oltre le sconfitte». Eduardo Galeano, perseguitato politico, autore, negli anni Settanta di libri come “Las venas abiertas de America Latina, uno che durante le partite di calcio metteva sull’uscio di casa un cartello con su scritto «Cerrado per fútbol» – mica come gli spocchiosi intellettuali della colta Europa – conferma:

«L’Utopia è all’orizzonte. Mi avvicino di due passi, lei si allontana di due passi. Cammino per dieci passi e l’orizzonte si sposta dieci passi più in là. Per quanto io cammini, non la raggiungerò mai. A cosa serve l’Utopia? Serve proprio a questo: a camminare».

Tabarez dichiara di votare il Frente amplio, coalizione progressista uruguayana, sinistra sì, ma sinistra di popolo, all’interno della quale, negli anni, sono confluiti alcuni vecchi rappresentanti dei Tupamaros come l’ex presidente Mujica: una storia difficile, quella recente dell’Uruguay, caratterizzata da una violenta dittatura di stampo militare simile a quelle che hanno segnato l’America Latina negli anni Settanta e Ottanta. Nel 1987, Tabarez vince la Copa Libertadores con il Penarol, celebre squadrone uruguagio, che in quell’anno si fregerà del suo ultimo trofeo internazionale.

Per il Maestro un passaggio, transitorio, in Colombia, alla guida del Deportivo Calì, poi il biennio 1988-90 alla Celeste, capitanata dal principe Francescoli, e l’esperienza in Argentina al Boca, con cui vince l’Apertura del 1992. Infine l’arrivo in Europa: prima al Cagliari di Cellino e poi al Milan di Berlusconi. Personaggi lontani anni luce dall’uruguaiano gentile. Nel primo caso l’avventura si conclude dopo un anno: Tabarez porta il Cagliari di Oliveira, Muzzi e Dely Valdes al decimo posto in classifica, sfiorando la qualificazione in Uefa. A sorprendere è una soluzione tattica inedita: una sorta di 5-2-3 nel quale gli esterni d’attacco – Muzzi e Oliveira, di fatto due attaccanti puri – accorciano per non lasciare soli Bisoli e Berretta, i due guerrieri di centrocampo, tutta grinta e corsa, apprezzatissimi dal pubblico cagliaritano.

Tabarez Rincon
Oscar Washington Tabarez e tutta la stima di Tomas Rincon
 

Nonostante la buona annata, Tabarez è chiaramente attratto dalla grande opportunità rappresentata dal Milan: una squadra a metà anni Novanta ancora stellare, ma forse alla fine di un ciclo. Nella stagione 1996-97 ci sono Roberto Baggio, Weah, Boban, addirittura Savicevic. Franco Baresi è al suo ultimo anno. Al consueto 4-4-2 lineare, ereditato da Capello, nel quale la fantasia degli interpreti viene piegata, sulle fasce o in attacco, alla rigidità del modulo, Tabarez opta per un più sudamericano centrocampo a rombo nel quale i fantasisti del Milan potrebbero teoricamente esaltarsi. La formula anticipa, di tanti, troppi, anni, soluzioni tattiche che avranno successo con Ancelotti e i vari Rui Costa, Kakà, Seedorf, Pirlo: siamo nel 1996, un calcio nel quale nessuno sa cosa farsene dei numeri dieci o degli stessi registi.

Davanti alla difesa dettano legge i mediani abili in interdizione, i cosiddetti “recuperatori di palloni”: gente come Boban, Savicevic, Baggio, Zola, Di Canio è costretta a precari lavori di ricucitura sulle fasce o a traslocare all’estero. Quando Tabarez passa al Milan ci sono quindi tutti i presupposti per un fiasco. I cosiddetti senatori non lo aiutano: si vocifera di un Baggio nervoso, di un Savicevic svogliato e di un ambiente scettico sulle reali capacità dell’uruguayano. D’altronde Berlusconi aveva accolto così il tecnico di Montevideo:

«Tabarez, chi è costui? Forse un cantante di Sanremo?».

“Troppo signore”, “troppo morbido”, “troppo educato” per dirigere un gruppo di giocatori abituati alle asprezze di Sacchi e Capello. Il Maestro viene cacciato dal Milan all’undicesima giornata dopo una sconfitta contro il Piacenza di Pasquale Luiso, il toro di Sora, uno che così sintetizzerà il proprio stile di gioco: «se mi lanciano in area una lavatrice, io mi butto e la colpisco di testa».

La rovesciata di Pasquale Luiso mette la parola fine alla carriera rossonera del Maestro

Come può l’Uruguay, un Paese di tre milioni di abitanti, tornare ai fasti del suo passato calcistico? Questa è una delle domande che devono essersi fatti i dirigenti della locale Asociación de Fútbol quando, nel 2006, scelgono nuovamente Tabarez alla guida della Celeste. Non basta più la “garra charrua”, la proverbiale grinta uruguagia, per fare risultati in campo internazionale: per replicare almeno l’ultimo remoto quarto posto di Mexico ’70 ci vuole qualcosa di diverso.

Il Maestro accetta la sfida; non un semplice lavoro da selezionatore, Tabarez non lo è mai stato, ma un progetto che comprenda tutte le nazionali dalle giovanili fino alla maggiore: investimenti in capitale umano, compresa la crescita di giovani problematici ma talentuosi, e infrastrutture. I risultati arrivano: una semifinale, persa ai rigori con il Brasile, nella Copa America 2007 e soprattutto i mondiali sudafricani del 2010: l’Uruguay supera ai rigori il Ghana con un cucchiaio del loco Abreu e approda in semifinale contro l’Olanda di Robben e Van Persie. Ma è la Copa America del 2011 a incoronare l’Uruguay Rey de America, come rappresentativa che più volte ha vinto il campionato sudamericano: il Paraguay, arrivato alla finale vincendo tutte le partite ai rigori, viene schiantato con un sonoro 3-0.

Compie oggi 73 anni il miglior allenatore uruguayano in circolazione, il tecnico con maggiori presenze in assoluto con una nazionale: Dopo aver raggiunto, ad ottobre del 2019, le 200 panchine con la Celeste, l’obiettivo non è segreto: Qatar 2022. Per continuare a sognare. «El camino es la recompensa», direbbe Tabarez. A piedi o col carrito, poco importa, il carisma di un Maestro non dipende da simili dettagli.

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