Illustratore, grafico pubblicitario, narratore, sognatore e tifoso. Osvaldo Casanova è tutto questo e non per forza nel medesimo ordine. Ha deciso da qualche tempo di prestare i suoi pennelli al mondo dello sport, in particolare a quello del calcio. Una produzione invidiabile disseminata di cover per i magazine più autorevoli, sessioni di live painting ed esposizioni di caratura internazionale, tra cui quella ospitata nella sede della UEFA a Nyon per celebrare la Champions League o la più recente custodita dalla UEFA house a Londra in occasione degli europei, hanno definitivamente sancito la sua grandezza e proiettato come riferimento inevitabile per questo genere di arte.
Da Vicenza, e un’inossidabile devozione ai colori biancorossi della ‘sua’ Lanerossi, ha conquistato la ribalta grazie a uno stile geometrico e tagliente, colori vivaci, cristallizzati in pose dinamiche che affondano le radici in un’evidente ispirazione ai canoni futuristici di inizio Novecento. Immagini ‘pop’, dall’efficacia immediata, ma che non si nasconde nella banalità della semplice rappresentazione. Osvaldo disegna e racconta, suggerisce e pensa racchiudendo concetti nelle sue opere volta a raccontare e non solo a mostrare.
Siamo andati a Vicenza, protetti dagli stencil di Paolo Rossi disseminati per tutta la città, e in compagnia di qualche birra abbiamo parlato di arte, calcio, tradizioni, evoluzioni e miti. Abbiamo anche sparlato e forse ci siamo fatti conquistare dalle parole e dai luppoli, ma forse è proprio per questo che quello che leggerete sfugge ai criteri della banalità.
Cos’è arrivato prima nella vita di Osvaldo Casanova: il calcio o l’arte?
È una bella lotta, sai. Forse ho iniziato prima a disegnare, ma di molto poco. Io ho ricordi di me molto piccolo a guardare partite. Ricordo bene i Mondiali di Argentina ’78 ad esempio, eppure avevo solo 5 anni. Non mi ricordo ovviamente le i match in sé, i risultati, ma ho nitide le immagini, i flash di quella rassegna: rivedo questi argentini con i capelli lunghi, tutti ricci, le teste giganti. A casa mia si è guardato sempre molto calcio; mio papà era un grandissimo tifoso interista, ma vagamente doppiosciarpista: sosteneva Inter e Vicenza, ma alla prova del nove avrebbe tifato Inter, non credo avrebbe mai avuto dubbi.
Così sono cresciuto guardando le partite, e non solo sul divano. Mio papà mi ha portato da subito allo stadio, anche se non al Menti, ma a San Siro. All’inizio ero anche propenso a simpatizzare Inter, perché in fondo il tifo calcistico è terreno comune: quando stabilisci una forma di condivisione con qualcuno è normale che ti affezioni anche alla sua squadra. Il che non è propriamente tifo, è piuttosto una forma di empatia. Inutile negarlo, mio papà mi ha fatto sedere e mi ha detto «Vedi quelli bravi sono quelli a righe». Ma non aveva specificato il colore delle righe, quindi non credo di averlo tradito.
Quelle bianche e rosse della ‘Lane’. Come è entrato il Vicenza nella tua vita?
Tutt’ora ho simpatia per l’Inter, mi rimanda indietro con la memoria, quando vinceva sapevo che mio papà sarebbe stato felice, così in fondo spero sempre che vinca per riportare a galla quel ricordo. Alla fine è questo quel sentimento di empatia che non puoi eliminare dallo sport, così come dalle relazioni.
Ma al cuor non si comanda. Il tifo calcistico è un colpo di fulmine. Mi hanno portato dei compagni di scuola a Vicenza – io vivevo in provincia – e all’improvviso ho sentito una sensazione chiara, mi sono detto: “Questo è il mio posto”. Sono arrivato al Menti e ho subito pensato “Io voglio stare qua”. è stato come essere sbalzati dentro una comunità, un senso di appartenenza. È per questo che io non riuscirei mai a concepire di tifare una squadra che non sia della mia città, di cui io non posso sentire i respiri, i battiti, continui e ovunque. Qua è così. Ci sono quadretti e sciarpette ovunque, in ogni bar. Poi Vicenza è una città particolare, piccola, sei in costante contatto anche con i giocatori. Una realtà che rappresenta la mia dimensione di tifo.
Osvaldo Casanova firma un suo lavoro al Menti.
Quanto ha influito sul modo di interpretare la tua professione la frequentazione dello stadio, l’adesione alle sottoculture? Sono stati elementi che dallo stadio si sono spostate e sono diventate parte del tuo modo di essere?
Beh, molto non tanto dal punto di vista prettamente tecnico. Lo specifico, perché so che per alcuni è stato anche questo. Capita naturalmente di disegnare sciarpe, stendardi, materiale di ogni genere, ma per me il mondo della curva ha influito nel mio manifesto artistico. Io mi rendevo conto che la cosa più bella dello stadio era l’uguaglianza. In curva sei uguale a quello di fianco a te anche se non sai esattamente cosa faccia: potrebbe essere un avvocato o uno spacciatore, ma in quel momento lì sei uguale a tutti gli altri. E questo vuol dire che senza dubbio in quel microcosmo puoi trovare di tutto ‘in basso’, ma anche ‘in alto’. Questo da un lato appiattisce le differenze sociali, dall’altro emergono differenze culturali. È una massa completamente diversa che si muove.
Ricordo una volta mi aveva colpito un articolo apparso sulla Gazzetta dello Sport, che a proposito di una trasferta dell’Udinese ad Amsterdam commentava: “i tifosi vanno al museo“. Ho istintivamente pensato: «perché ci fai un articolo? Perché dovrebbe essere strano che dei tifosi vadano a vedere il museo di Van Gogh in trasferta?» Da lì ho preso la decisione che quella doveva essere la mia mission. Dimostrare che si può essere tifosi di calcio, anche accessissimi, e contemporaneamente sapere usare i congiuntivi, leggere dei libri, avere sensibilità artistica. In quel momento storico sembrava che chi andasse allo stadio fosse necessariamente un troglodita. Così ho iniziato ad avvicinarmi a realtà, come la vostra d’altronde, in cui vedevo gente che scriveva, disegnava, realizzava podcast, programmi radio, e lì si crea una rete di gente estremamente interessante. E poi scopri che hanno avuto il tuo stesso background: gente di curva, di trasferta, gente che ha preso l’acqua, che ha fatto le code fuori dagli stadi (anche quelli di merda).
Così realizzi che la cosa veramente affascinante del tifo calcistico è che i sentimenti sono sempre gli stessi, una cifra comune, una costruzione di un set sempre uguale: il tuo Pantheon di calciatori, le colonne del tifo, le trasferte da ricordare. Come se fossero tanti sistemi solari di un’unica galassia, ed è una rete che fa molto bene al calcio.
Lo stadio, nello specifico, ha influito per me soprattuto nel concetto di gruppo. Io adoro fare i lavori di gruppo, ad esempio. Non sono un solitario, gli illustratori spesso lo sono, io adoro lavorare con gli altri e addirittura il non plus ultra e poterlo fare su diversi piani disciplinari: l’eterogeneità è parte fondamentale del mio essere. Mi piace confrontarmi con persone, con professionalità diverse. E questo mi deriva necessariamente da quella formazione da stadio, di un gruppo che diventa famiglia.
Osvaldo Casanova nel suo studio, con una brushpen assorto nello studio dei personaggi.
Il calcio sta diventando gradualmente ma inevitabilmente un’icona pop del nostro tempo. Sembra che questo abbia reso il calcio più interessante agli occhi del mondo dell’arte. In passato c’è stata una forma di snobismo da parte dell’arte nei confronti dello sport. Eppure, le immagini pittoriche del V sec. a.C. rappresentavano spesso gli atleti delle Olimpiadi, all’epoca un fenomeno sociale di grande rilevanza (chi vinceva era un semidio) mentre noi abbiamo per tanto tempo considerato lo sport, il calcio nello specifico, come una sorta di feccia con la quale l’intellighenzia non doveva mai avere a che fare. È arrivato il momento di rompere questo tabù?
Sono assolutamente d’accordo con te, è arrivato il momento ed è arrivato già da tempo. È l’occasione per toglierci di dosso questo snobismo ed è parte del discorso di prima. Io ho sviluppato negli anni un fastidio fisico nei confronti di chi fa la smorfietta quando parli di calcio. Mi genera avversione. Ho fatto una serie di illustrazioni, pubblicati come post Instagram durante gli Europei, provocatori, proprio per esprimere in maniera sarcastica questo concetto: non sei migliore perché non guardi il calcio, anzi se senti il bisogno di dirlo sei uno sfigato. Un po’ come i fan del rugby dell’ultima ora (non i rugbisti) che continuano a perpetrare la retorica stanca del rugby come sport da signori, al contrario del calcio, e i ritornelli da bar: «uno sport da animali giocato da signori».
Ed è perfetto il riferimento culturale che ha fatto tu, perché lo sport è nato con valore sociale altissimo nell’antica Grecia, già a Roma meno. Rappresentavano non tanto lo sport come tale, quanto l’eroe che anche se lontano dalla battaglia portava con sé l’agone che i Greci tanto veneravano. Poi c’è stato un enorme passaggio a vuoto, si ricordano pochissime opere d’arte che trattano lo sport fino al Novecento, dove comunque ci sono pochissime testimonianze, gente come Saba prima e più recentemente le grandi firme che hanno aperto il campo alla letteratura sportiva, Galeano, Soriano, Dimitrijevic. Però sono pochissimi: se ci pensi, rispetto alla portata economica del calcio, pensare che ci siano state così poche opere d’arte (di ogni campo) è spiegabile solo con una forma di snobismo da parte dell’intellighenzia, come l’hai definita tu.
Sul fatto che il calcio moderno possa aiutare in questo processo, onestamente non lo so. Perché è vero che il calcio di oggi crea molte icone pop, ma la sensazione è che siano costruite, come se fossero calate dall’alto e un po’ vuote. Il fatto, vedi, è che l’icona pop nasce dal basso, non può diventare popolare perché viene calato dall’alto, capisci? Poi la mia è chiaramente una forzatura dettata da una visione prettamente ‘romantica’: ovviamente non si può negare che un Cristiano Ronaldo sia un’icona popolare. Neymar per è l’esempio dell’icona costruita a tavolino. Il Brasile vive nella leggenda del numero 10 e in assenza di talento sufficiente a supportare questo ruolo lo ha creato pur di averlo.
Leo Messi nell’interpretazione di Casanova.
Di fatto, sono icone che riescono ad affondare le radici nel terreno sociale, che è quello in cui si alimentano i miti, no?
Questo lo vedremo. Sicuramente non possono affondare nel mio terreno. Trovo anche un po’ ridicoli i tentativi di raccontare CR7 come come racconti George Best o Crujiff. Si vuole trovare un’epica laddove non esiste. È un cyborg, un Ivan Drago dove l’elemento dell’identificazione non esiste. A confronto mi sta simpatico Messi che, per carità, è anche lui sembra esserci stato imposto dall’alto, ma almeno ha dei limiti fisici innegabili. Sembra quasi goffo fuori dal campo, un Paperino dico io. Ho negli occhi quando va a ritirare il Pallone d’oro con la giacca tempestata di pailletes o quando prova a farsi biondo. Mi viene da dirgli: ma lascia perdere. L’impressione è che siccome il mito vende, proviamo a costruirne a più non posso. Un meccanismo che anche dal punto di vista del business è folle perché intasa il mercato e non vende più. E questo vale anche per le competizioni, Europei e Mondiali svolti sempre più spesso e con sempre più squadre, la Champions allargata, il tentativo patetico della Superlega. Ecco che sono contento che la Copa America almeno l’abbia decisa Di Maria che, secondo me, è il giocatore più sottovalutato del calcio argentino.
Avrai notato una tendenza, relativa alle maglie di calcio, di cercare di offrire un prodotto sempre diverso che stimola l’acquisto del tifoso. Una ricerca ossessiva di un carattere distintivo per rendere la maglia un oggetto a volte ‘di design’ (con collaborazioni varie) che però sviliscono i caratteri identitari della squadra. Ho l’occasione di avere davanti a me un profilo perfetto – una formazione da pubblicitario, un artista e infine tifoso – allora ti chiedo qual è secondo te il punto di equilibrio in tutto questo?
Apparentemente è molto semplice, ai miei occhi. Non tocchi la prima maglia, ti sfoghi sulla seconda e sulla terza. Così trovi il balance perfetto tra il mantenimento della tua identità e la necessità di offrire prodotti differenti e attraenti. A nessuno sarebbe mai venuto in menti di cambiare i vessilli del proprio esercito, allo stesso modo non cambi la tua prima maglia. Nella Firenze rinascimentale la fazione politica si definiva in base al colore. Ti immagini se li avessero cambiati per ragioni di marketing?
La prima maglia è eterna, deve rimanere sempre la stessa, per carità, si può variare, anzi quando sono sensati i riferimenti culturali mi piacciono moltissimo. Poi, come dicevamo prima, la ripetitività svuota, quindi se ogni anno forzi i riferimenti perde tutto il suo senso. Ecco così vengono fuori elementi un po’ ridicoli tipo la maglia di questa stagione del Bologna, la cui texture ricorda i mattoni della città: sembra il salvaschermo dei computer degli anni ’80! Come se non bastasse lo sponsor è ‘Facile Ristrutturare’, dai pensaci..
Poi, la seconda falla pure come vuoi, figurati noi siamo stati i primi ad avere le maglie colorate perché usavano i tessuti avanzati dalla Lanerossi e così avevamo le seconde maglie e quelle dei portieri di tutti i colori possibili. A me va benissimo, le sperimentazioni mi piacciono, mi divertono anche, però l’equilibrio deve essere questo, sfogati sulle altre, che mi frega.
Quella dell’inter è raccapricciante, il Bacrellona sta devastando la sua divisa da ormai quattro 5 stagioni, il PSG ha eliminato il palo centrale rosso, disegnato da Hechter negli anni ’70, ma con che autorità? Poi, attenzione: ovviamente ci si deve porre la domanda se questo però non funzioni per noi. Perché le reazioni sono diverse, e una buona parte si manifesta entuasiasta rispetto a questi lavori assurdi.
Non solo calcio: qui il manifesto per celebrare la mitica ‘Eroica’.
Nel tempo hai avuto modo di presentare molti lavori autorevoli, cover di magazine, mostre UEFA. Siamo arrivati al punto in cui forse l’arte visiva può addirittura aiutare la diffusione dello sport, invertendo il paradigma? Il racconto sportivo attraverso le immagini, in un mondo sempre più rapido che si sofferma poco oltre la forma, la forma per immagini rendere più accessibile il racconto sportivo?
Penso che questo lo possa fare in generale il racconto sportivo. Che poi io lo faccia disegnando, purtroppo e per fortuna mia, senza dubbio è più semplice, c’è una ricezione più immediata da parte del grande pubblico: la gente guarda molto più di quanto legga. Poi chiaro che se vuoi colpire le grandi masse lo stile deve essere molto semplice, figurativo. Ora va molto la street art, diventata da alternativa a mainstream, ma, esattamente come detto per gli eroi, chi cala dall’alto la street art, lo deve fare in modo che sia di facile fruizione e credibile. Persino il mio stile inizia già a essere complicato. Più facile avere un approccio più figurativo, c’è una forma riconoscibilità che avvicina, anche se a me piace meno. Ci vedo meno intervento concettuale, di stile, ma è un’arma che serve a diffondere non tanto il calcio in sé, che si diffonde in maniera autonoma, serve a raccontare storie di calcio, e questo secondo me è positivo.
È questo aiuta a rompere gli indugi di questa intellighenzia, comprendendo che intorno allo sport ci sia un processo di sisntesi intellettuale?
Sì, ma lo fai se racconti episodi ignoti, aspetti nuovi. Se fai vedere cose banali non sposta gli equilibri (come lo sfortunato slogan di un difensore qualche anno fa). Sono le storie che dischiudono le resistenze, ma devono attirare, cogliere nel segno, che sia per immagini o parole. La banalità al contrario non paga mai. La sfida è sempre rendere affascinante quello che la gente che ti ascolta crede che non lo sia. Se poi lo agganci hai vinto tu.
Abbiamo parlato diffusamente di icone e idoli. A proposito di questo tema, uno dei tuoi ultimi lavori è stata una splendida copertina realizzata per These Football Times su Roberto Baggio. Un personaggio che tra la verve della nostra nazionale e le diffuse produzioni mediatiche ha ritrovato peso sulla scena del nostro paese. Ci racconti il rapporto conflittuale di Baggio con la sua città, o meglio il rapporto conflittuale di Vicenza con il Divin Codino? E cosa significa per te?
Baggio è davvero l’ultima icona pop del calcio italiano, al momento. Nemmeno Totti si avvicina, o meglio lo è, ma circoscritto all’ambiente romano e romanista. Baggio ha una dimensione nazionale unica. Per me è semplicemente il giocatore italiano più forte di tutti i tempi, mi dicono che dovrei considerare in quest’ottica un certo Gianni Rivera, ma non l’ho mai visto giocare e in fondo aveva due ginocchia. La portata di Baggio va al di fuori del campo di gioco.
Io sono un favorevole a Baggio, ed è un tema che divide questa città. Io sono contento anche che sia vicentino e – cosa non scontata da queste parti – sono convinto che sia realmente vicentino. È un personaggio enorme, ricco di valori, di contraddizioni, uno di quelli che hanno mostrato tutto, ma dei quali si è capito ben poco. Non tutti la pensano così soprattutto in curva. È una vena scoperta, un ferita che brucia, immagino ci sia una sorta di sentimento da amante tradito. Il tifoso vorrebbe che tutti vedessero la squadra come la vede lui.
Roberto Baggio in uno degli ultimi lavori di Osvaldo Casanova per il magazine britannico These Football Times.
A Baggio si rimproverano tante cose, alimentate come sempre da una buona dose di leggende. La prima è quella di non aver mai espresso pubblicamente il suo amore per la Lane, e quando l’ha fatto l’ha sempre ricordata alla pari della Viola: da queste parti un peccato originale dal quale non lo si vuole redimere. È paradossalmente un’icona di unità a livello mondiale, a Vicenza è un’icona estremamente divisiva. Anche il fatto che abbia finito la sua carriera a Brescia e non qui: è una scena molto controversa. Personalmente, io trovo assolutamente logico che lui abbia un sentimento di amore-affetto nei confronti della Fiorentina. È una squadra che l’ha comprato senza un ginocchio, l’ha aspettato e lo ha lanciato nel grande calcio.
Anche a proposito della fine della sua carriera: sai, io sono convinto che se vuoi comprare uno come Roberto Baggio, senza un contratto, alzi il telefono e chiami il suo procuratore. Qua invece si è tentata una mossa avventata, condita da molta forma ma poca sostanza: si è mandato il suo allenatore delle giovanili a casa sua, ma comprensibilmente la trattativa non è mai decollata. Uno come Baggio non lo puoi approcciare così. Per quanto mi riguarda, all’epoca è stata fatta una scelta: quella di non puntare su un 34enne, ma su un giovane attaccante in comproprietà con l’Inter che era Kallon. Scelta ovviamente folle a posteriori, ma a posteriori sono bravi tutti.
È divisivo: è un carattere schivo, riservato, non è certo uno che si trova in piazza, al bar, non è uno che vive la città, anche perché tutto sommato da qui è andato via così giovane che la città non l’ha mai potuta vivere. Eppure è tornato a vivere qui, facendo la classica vita del vicentino di campagna, fatta di gesti semplici e una vita modesta. La cosa buffa qui è che l’icona totale e indiscutibile è Paolo Rossi, che non ha mai negato l’amore per la nostra maglia e la nostra città. La cosa che mi fa sorridere è che è stato un toscano puro, di quelli veraci, che hanno sempre avuto un approccio alla vita istrionico, così diverso dalla genti di qui, la gente come Baggio.
La Leggenda. Paolo Rossi con R blu sul petto è la vera icona di Vicenza.
Hai parlato di Paolo Rossi, non posso lasciarmi sfuggire l’occasione di sfruttare la tua sensibilità ed esperienza per capire cosa sia stato Pablito per la città, cosa è rimasto?
Tutto. Quel Vicenza è ancora il solo Vicenza. Nemmeno il Vicenza della Coppa Italia e poi la cavalcata in Coppa delle Coppe l’ha scalfito. Pensa che una volta parlando con Lopez – capitano di quel Vicenza – mi diceva, un po’ piccato: «Tutti parlano in città del Real Vicenza, ma il Real Vicenza non ha vinto niente! Noi abbiamo vinto, eppure la gente a memoria si ricorda la formazione del ’77-’78 come un mantra, mica la nostra». E Rossi era l’icona di quella squadra e quindi l’icona della città. Poi, come molti altri, ha deciso di fermarsi qui a vivere, è diventato davvero parte integrante del tessuto cittadino. E in fin dei conti, se mi astraggo dal mio essere tifoso riconosco la stessa parabola in Baggio e Pablito. Entrambi rendono omaggio alla squadra che li ha lanciati nel grande calcio, la Fiorentina per Roberto, il Vicenza per Paolo.
Rossi era un personaggio da favola, immacolato. Sin troppo perfetto. Quando è morto qui è stata davvero una tragedia cittadina, come se fosse morto un parente. La gente non ricordava nemmeno più le gesta sportive, ma gli episodi umani che lo avevano coinvolto, perché tutti qui abbiamo avuto un rapporto personale con Rossi, in un modo o in un altro.
Tutte le foto e le illustrazioni presenti nell’articolo sono di proprietà di Osvaldo Casanova, è vietata la loro riproduzione totale o parziale. Contrasti ringrazia Casanova per la concessione del loro utilizzo.
L’autore dell’intervista ringrazia invece Osvaldo per la disponibilità, le ‘ciacoe’ e le birre offerte, desideroso quanto prima di restituire il piacere.