Pablito, suerte, andá!. Sono le parole sussurrate in un bacio fraterno dal Muñeco Gallardo in un’umida notte di fine maggio 2015. Dalle panche del Monumental il delirio estatico che si leva alla mezzora della ripresa ha poco a che vedere con la vittoria, di misura, che il River Plate sta archiviando contro il Rosario Central. Si celebra il ritorno di uno dei figli più amati, rimasto troppo tempo lontano da casa. Bastano pochi secondi a incendiare il popolo della Banda: i tocchi felpati nascondono la qualità di sempre e, sebbene comprensibilmente compassato per le 35 primavere sulle spalle, è ancora lui.
Pablo César Aimar è di nuovo un giocatore del River Plate. Iniziare dalla mèta ha il naturale vantaggio di poter calibrare meglio la portata del viaggio; quello che delinea spesso i confini di storie che, plasmate dal magico contesto sociale latino, restituisce personaggi ammantati di un fascino misterioso, semi-mitici. Ma ci sono anche vicende eccezionali nella propria normalità, entusiasmanti in quanto straordinariamente umane. È questo il caso di un ragazzino di Rio Cuarto, cuore geografico dell’Argentina, noto al mondo come El Payaso.
Pablo Aimar è stato antidivo per eccellenza: persona schiva e modesta, quindi giocatore talentuoso che ha accecato il popolo del calcio non con i riflessi brillantinati dei capelli, bensì con le proprie giocate.
Normale e semplice anche nella sua debolezza adolescenziale, quando il distacco dalla famiglia e dagli amici per inseguire il sogno Millonario è, per sua stessa ammissione, “la sfida umana più grande”, nemmeno comparabile alla traversata atlantica che avrebbe consegnato Aimar al calcio europeo. A Buenos Aires, il talento precoce del quattordicenne Pablito viene alimentato dagli esempi illuminanti degli interpreti straordinari de La Maquinita, una squadra fantastica, così simile alla formazione che seppe stregare il mondo negli anni ’40.
Cresciuto all’ombra del talento di Enzo Francescoli e Ariel Ortega, il ragazzino dai capelli arruffati ne diventa degno erede, dispensando gioie al popolo del Millo e completando con il ‘gemello’ Saviola, il Muñeco Gallardo, il giovane D’Alessandro e l’amico rivale di sempre Riquelme una vera e propria età dell’oro per la trequarti a tinte albiceleste. In quei primi anni di grande calcio, al quale si affaccia appena sedicenne, Aimar mette in mostra fin da subito l’abilità del tutto peculiare di esaltare i propri bombardieri, aprendo gli spazi con verticalizzazioni geniali e giocate fuori dall’ordinario.
La classe cristallina dell’enganche, insieme a una gioia innata nei confronti del gioco, lo rendono una figura positiva e amata dai tifosi del calcio latino, sicuri di avere sotto agli occhi un diamante grezzo, da svezzare alla prova del vecchio continente.
Dopo i successi con El Más Grande, e congedatosi dalla Banda con la metamorfosi da Payaso a Mago, a gennaio del 2001 Pablo Aimar giunge alla corte spagnola dell’Hombre Vertical, quell’ Héctor Raúl Cúper connazionale e fresco finalista di Champions (edizione 2000, vs Real Madrid), che presto si ripeterà grazie anche all’apporto di Aimar nel secondo semestre (2001, vs Bayern Monaco). Ma è l’anno seguente, con l’avvento dell’allenatore madrileño Rafa Benitez, che El Payaso riesce ad affermarsi nel calcio europeo, sfruttando le qualità innate di lettura del gioco come un grilletto per armare l’attacco dei pipistrelli: Aimar regala a Los Che i più grandi successi della loro storia, oltre al vanto, mai banale, di aver rotto l’egemonia dittatoriale dell’asse Madrid – Barcellona.
Con l’allenatore spagnolo tocca il picco del suo calcio, in uno straordinario combinato disposto di gioia e qualità che strega anche El Loco Bielsa, il quale lo preferisce niente meno che a Riquelme per la spedizione asiatica del 2002. Aimar riesce addirittura a far entusiasmare lo stesso Pibe Maradona, che dichiara in uno dei suoi slanci:
“Es mi digno sucesor”.
Aimar è normale, troppo normale, anche nel fisico. Quello di un ragazzo qualunque, senza i muscoli ipertrofici del professionismo moderno, troppo fragili per le continue sollecitazioni di un calcio supersonico. Troppo esili le caviglie tre volte operate nel corso della carriera, e mai realmente recuperate. Gli ultimi anni di Valencia, disastrati dalla mancanza di una guida degna post Benitez (nel frattempo emigrato in terra d’Albione a ingrassare la bacheca dei Reds), sono stati un lento martirio per i fragili muscoli del Payaso.
Incapace di dare continuità alle sue prestazioni, ma soprattutto privato della gioia naturale del suo calcio, a 28 anni, nel pieno della maturità, sembra un pallido ricordo dello straordinario calciatore ammirato pochi anni prima al Mestalla. Decide di ripartire “dal basso”, ignorando i richiami d’amore del suo ex-allenatore che lo avrebbe voluto come ideale interlocutore del neo-acquisto Fernando Torres sulla Merseyside. Spiazzando tutti, preferisce invece unirsi alla colonia argentina cresciuta a Zaragoza, convinto di poter ritrovare continuità e le giocate degne del suo calcio nel Real dei fratelli Milito. Sarà un biennio in chiaroscuro, e solo oltrepassato il confine lusitano riuscirà a ricucire con il suo talento.
Con le aquile del Benfica, in un calcio meno frenetico, in un lustro colmo di successi raccoglie l’eredità de Ô MaestroRui Costa e mostra ai palati fini del Da Luz quelle architetture del suo gioco, decadenti ma maestose, immagine e somiglianza del tessuto urbano di Lisbona. Le geometrie del calcio di Aimar ricordano infatti gli edifici in stile manuelino della capitale portoghese, impreziositi di curve mai banali, trame elaborate frutto di una visione dello spazio superiore. La sua è una dote innata nell’esaltare i compagni, senza per questo mai scadere nell’inutilità del virtuosismo barocco.
Quasi 140 assist in poco più di 600 partite è il numero eclatante di una carriera a servizio della qualità, enganche purissimo e interprete di un ruolo mai banale. Riferimento per molti, idolo indiscusso di un giovane ragazzo rosarino che qualche anno dopo sarebbe asceso all’Olimpo del calcio mondiale.
Il 31 Maggio 2015 i minuti scorrono veloci come una cometa nel cielo di Baires. Si fatica quasi a giocare, e nelle orecchie rimbombano i cori per il Payaso. Pablo Aimar non avrebbe potuto immaginare che quei 15 minuti contro il Central sarebbero stati gli ultimi di una carriera senza lieto fine. Le caviglie, ancora una volta, si ribellano al talento e ne strozzano l’ultimo canto di gloria, beffardamente poco prima che il suo River Plate riporti a Nuñez la terza Libertadores. Ma anche in un turbine di emozione, emerge la sensibilità (intesa come intelligenza) di una persona ontologicamente semplice.
A fine partita è il Pablo di sempre, emozionato, ma non commosso: è lucido. Nelle rituali interviste a bordo campo, chi non è stato banale con il pallone non vuole esserlo nemmeno con le parole: «non volevo che i miei figli sentissero dire che il loro papà aveva giocato al Monumental, avevo davvero bisogno che lo vedessero con i loro occhi. Ora sono entrambi qui, questo mi basta, mi rende felice». Quasi avesse previsto la sorte avversa aggiunge:
“so che tutto questo non durerà per sempre, c’è una fine per tutto e va bene così, ora mi godo questo momento”.
Aimar si è quindi ritirato nel silenzio di timidi dichiarazione, con serenità e leggerezza. Avrebbe forse meritato una passerella all’altezza del suo talento, ma ha preferito uscire di scena in punta di piedi, così come ci era entrato. Il suo circo ci ha sinceramente appassionato, emozionato, la sua magia ci ha stregato e soprattutto ci ha fatto divertire: in fondo, è proprio questo che un bravo Payaso deve saper fare.