Maestri, Episodio I: Pier Paolo Pasolini.
Inauguriamo oggi la rubrica Maestri, che ogni settimana si arricchirà di un nuovo episodio. Non potevamo che partire da Pier Paolo Pasolini, un uomo libero, dalla lucidità straordinaria, che a differenza di tanti altri intellettuali del suo periodo non aveva paura di confrontarsi con le rappresentazioni della “cultura bassa”; anzi ne era magneticamente e nostalgicamente attratto, alla ricerca di un mondo perduto che si andava sgretolando ad un ritmo incessante, schiacciato dal totalitarismo della società dei consumi.
Vi proponiamo oggi una splendida intervista apparsa sul Guerin Sportivo del 5 Novembre 1975, che raffigura proprio in copertina lo scrittore con la maglia del Bologna mentre si allaccia gli scarpini: essa apparve sul Guerino tre giorni dopo il ritrovamento del corpo di Pasolini ad Ostia, in uno storico numero della celebre rivista che rappresentò un vero e proprio azzardo, ma che ha ancora l’onore e il merito di testimoniare le ultime riflessioni del poeta. L’intervista fu realizzata da Claudio Sabattini, a proposito di intellettuali prestati allo sport, e ne abbiamo ritrovato il testo anche nel libro di Valerio Curcio “Il calcio secondo Pasolini” (Alberti editore, 2018).
Si dice calciatore e si va subito al successo, al guadagno. La regola del gioco, tuttavia, può essere troppo dura: in fondo, il giovane che diventa un idolo si trova in un contesto innaturale in cui non sempre il dare e l’avere risultano in pareggio a fine carriera. Qualcuno ha detto che un calciatore è come un clown: spogliato dei suoi abiti sgargianti è una persona tristissima.
Trovo un po’ sentimentale questo problema. Potremmo proporlo come tema di una canzonetta. Del resto non mi pare che questi giovanotti trovino così traumatizzante il successo. Anzi sembrano trovarlo molto naturale e quasi dovuto. Direi che lo tecnicizzano subito. E ciò li rende impenetrabili. L’alato Antognoni è una sfinge. Chi si “scopre” sono di solito o i genitori o gli amici o i padroni dei bar.
Riva e Rivera: due campioni, due personaggi, due uomini profondamente differenti. Riva è taciturno e riesce quasi sempre antipatico. E per di più è innamorato di una donna sposata con un altro. Fa simpatia solamente nella sventura. Rivera, invece, viene coccolato, preso ad esempio, è il tipico self-made man italiano. Parla con l’erre francese e non bestemmia. Riva e Rivera, dunque, come le due facce del nostro calcio.
Riva è un uomo molto simpatico. Lo capisco dalla rabbia che mi fa: che è la rabbia che fanno gli amici. Parlo della rabbia dovuta alla sua rinuncia, alla sua fuga, alla sua assenza. lo penso che ci si debba spendere fino all’ultimo, e che quindi si debba anche sbagliare. Ma Riva è un “naturale” amico: e perciò dico questo cercando di capire le sue ragioni, soprattutto quelle più inconsapevoli, con cui è inutile discutere se non per passione. Di Rivera non capisco nulla, l’ho sempre considerato un grande giocatore, ma quando ho visto a Mantova la partita Milan-Cagliari mi sono reso conto che, al contrario di Riva, ha fatto benissimo a ritirarsi. Adesso, però, vuol tornare in campo e in Consiglio. Metta in pratica la seconda ipotesi. Penso che ormai possa fare solo il Presidente.
Pasolini Padre Eligio: ovvero, la Chiesa batte nuove strade. Il suo è un personaggio per molti versi inconcepibile. Di lui si dice che non esiste cosa che non abbia fatto. Adesso ha preso Rivera sotto la sua tonaca protettrice e gli cura le pubbliche relazioni. Ecco, può coesistere il binomio padre Eligio-calcio?
Padre Eligio (almeno pubblicamente) è un uomo così volgare che mi riesce impossibile parlare di lui.
La Nazionale, Bernardini e Bearzot: le critiche si sono sprecate. Bernardini chiede tempo e pace, i tifosi vogliono risultati e subito. La Finlandia non fa testo, la Polonia – invece – ha dato il via ad una polemica feroce fatta di falso ottimismo, Facchetti (prima di Varsavia) ha detto che una Nazionale decente in questi anni la si è vista contro I’URSS. Per il resto, tutto da rifare.
Ha ragione Facchetti: la partita contro I’URSS è stata la migliore che la Nazionle italiana abbia giocato in trasferta in questi anni. Meglio anche di Varsavia. Le mancava solo l’ultimo passaggio verticale verso la porta avversaria. O, perlomeno, le mancava chi fosse così autorevole da farselo fare. Savoldi era la prima volta che giocava: i suoi compagni non sapevano che bisogna passargli palloni in profondità a mezza altezza da girare, piegati, di testa; oppure ciabattate sempre in profondità su cui entrare un po’ pazzescamente in scivolata. Ci ha provato ultimamente Pulici, ma ha fatto cilecca. Non gli sono arrivati neanche dei palloni casuali che egli potesse raggiungere, con le spalle alla porta avversaria, da girare alla cieca, secondo il suo particolare, enigmatico opportunismo.
Chinaglia in quella Nazionale era perfettamente inutile: una mezza punta goffa e delirante, che in tal ruolo non vale neanche un decimo di quello che vale il delizioso, lampeggiante Bettega. E per di più Chinaglia non fa altro che mettere il malumore agli altri: e tutti sanno che si gioca bene solo quando si è di buon umore. Mi viene il sospetto che Bernardini facesse giocare Chinaglia per ragioni non sportive. Speravo molto che Chinaglia se lo prendesse il Cosmos (e magari Cosa Nostra). L’altro punto nero è Graziani, che, come Pulici, è bravissimo a fare dei gollacci a delle squadre di media o bassa classifica, come si dice, del campionato italiano. Ma oltre a tale bravura non va. Tuttavia una frase di Bernardini, riportata, spero fedelmente, da un giornale mi ha illuminato: “Auguro al mio successore di trovare un nuovo Riva”. È infatti proprio un nuovo Riva che manca alla Nazionale: ossia, manca la possibilità di giocare verticalmente, (perché non dico “Riva” ma un “nuovo Riva”).
Non è colpa di Bernardini (o di Bearzot?) se questo “nuovo Riva” effettivamente non c’è. Per tutto il resto mi sembra che Bernardini abbia fatto un ottimo lavoro. La partita contro la Finlandia non significa nulla. È stata una trappola, un vicolo cieco. È riuscito a giocar male anche Rocca, che ha fatto fughe da oratorio. Si è comunque salvato (proprio per questa sua naturalezza), ma si è bruciato un altro bravissimo giocatore come Gentile. Riproposto a Varsavia, ha risentito di questa mancata fiducia ed è risultato forse il peggiore degli italiani. È difficilissimo dire perché la partita con la Finlandia non può avere rilevanza. E non mi avventuro in un’analisi retorica. Però è così. I “piedi buoni” restano “piedi buoni” malgrado la Finlandia. E Cordova contro la Polonia (a Roma ovviamente) ha avuto dei piedi deliziosi, sia ben chiaro. In conclusione devo ammettere che ci sono delle buone ragioni per non avere sfiducia in Bernardini.
Egli ha dato alla Nazionale una velocità doppia a quella della Nazionale precedente (anche se non raggiunge certo neppure quella della Finlandia … ) e, soprattutto, ci ha fatto tornare vincitori (o quasi) da una trasferta in casa di Lato, Deyna e Gadocha. E con i tempi che corrono, questo pareggio è un exploit mondiale. Questa velocità ha creato, un nuovo, grande giocatore: Capello. Quando, secondo il mito del gioco all’italiana Meazza – Rivera, Capello andava al trotto o al piccolo trotto, era un buon giocatore e basta. Adesso che è costretto a correre, e anche tanto, è diventato appunto un grande. Perché egli sa fare rifiniture in velocità (mentre un tempo le rifiniture erano naturaliter blande). Il segreto del gioco moderno, sul piano individuale, è l’esattezza massima alla massima velocità: correre come pazzi ed essere nello stesso tempo stilisti. Ciò è successo a Capello: e poteva succedergli solo nel contesto bernardiniano.
Il pallone come sedativo antidolorifico: ovvero, con una partita passa tutto. Succede nell’America Latina, succede anche da noi. In fondo, al povero basta poco e un pallone è l’ideale per sognare.
Che lo sport (i “circenses”) sia “oppio del popolo”, si sa. Perché ripeterlo, se non c’è alternativa? O d’altra parte tale oppio è anche terapeutico. Non credo ci sia psicanalista che lo sconsiglierebbe. Le due ore di tifo (aggressività e fraternità) allo stadio, sono liberatorie: anche se rispetto a una morale politica, o a una politica moralistica, sono qualunquistiche ed evasive.
Dopo la donna-madre, la donna-rumante, la donna-mille usi, la donna gioca pure al pallone. E giura che non è finita. Allora?
Che le donne giochino a pallone è uno sgradevole mimetismo un po’ scimmiesco. Esse sono negate al calcio come Benvenuti o Monzon.
Da Il pallone come terapia di Claudio Sabattini, intervista a Pier Paolo Pasolini (il Guerin Sportivo, N. 45, 5 Novembre 1975).