Palestra Italia, uno dei club più antichi e affascinanti del Sudamerica.
Prendete un pennarello. Prendetelo verde. Prendete la cartina di San Paolo e unite i puntini come in un gioco di enigmistica. Create il perimetro, gli angoli della testimonianza. Toccate l’Edifício Itália, l’Edifício Matarazzo, il Museo d’Arte moderna, gli storici quartieri di Mooca e del Brás, le oltre diecimila pizzerie.
Toccate soprattutto il luogo dove, più di ogni altro, si respira aria di Italia nonostante le migliaia di chilometri di distanza: Palestra Italia. Un complesso sportivo, situato nel quartiere Perdizes, un’oasi di tranquillità che rasserena dall’incessante frenesia della città. Al termine del disegno verrà fuori il Palmeiras. Fermiamoci qui però, per il momento. Riavvolgiamo il nastro ripartendo da un punto preciso e dall’uomo del destino.
Nel 1997 Caetano Veloso cantava “Livro” e in Brasile si pagava in “Reais”. C’era un omaccione grande e grosso nella stanza dei bottoni del Palmeiras con lo sguardo perso nel vuoto. Sudava, e non per il generoso sole paulista o per una ballerina di samba davanti a lui. Si chiamava Mustafa Contursi e si stava scervellando perchè a tutti i costi voleva portare il Verdão sul tetto del Sudamerica. Contursi aveva origini italico-siriane e divenne presidente nel 1993, dopo una vita in seno al club, portandosi in dote un discreto contratto con la Parmalat. Fatalità o bravura a vent’anni esatti dalla vittoria del campionato del 1973, alla Palestra Italia ritornò il titolo brasiliano, bissato l’anno successivo.
Otto volte campioni. Un record.
L’obiettivo dichiarato assunse le forme di quella coppa dedicata ai liberatori delle nazioni latino americane: Simón Bolívar, José de San Martín, Antonio José de Sucre, Bernardo O’Higgins, José Miguel Carrera e José Gervasio Artigas. L’allenatore Vanderlei Luxemburgo se ne era andato al Santos e ne serviva un altro, possibilmente ancora più bravo. Dove trovarlo? in Giappone. Si, però lui era comunque brasiliano, di Passo Fundo, giù ai confini con l’Argentina, nello stato di Rio Grande do Sul, fatto di pampa e gauchos a cavallo. Di nome fa Luiz Felipe Scolari, due baffi che si stagliano sulla scena al pari di un generale delle guerre d’indipendenza.
Scorbutico, intransigente, ma sapiente quanto serve. Giocherà a calcio seguendo le orme del padre Benjamin. Lo chiameranno “perna de pau”, che tradotto sta per gamba di legno: in pratica gli avversari troveranno qualcosa di estremamente duro nei contrasti con lui. Al termine della carriera agonistica Scolari diventerà allenatore affermandosi soprattutto in patria con il Gremio di Porto Alegre. A quel punto deciderà di mettersi da parte un buon fondo pensione andando in Giappone al Júbilo Iwata, solo che il richiamo del calcio vero lo riporterà indietro e gli farà dire di sì al Palmeiras.
Palmeiras è sapore italiano, di nord est italiano.
Ma la storia imporrà uno strappo con le origini. Per 28 anni si era chiamato genuinamente Palestra Italia, frutto sbocciato dalla bulimia calcistica di quattro immigrati dello stivale dopo l’entusiasmo provocato da una tournée estiva di Torino e Pro Vercelli. Era l’agosto del 1914 e i loro nomi Luigi Cervo, Luigi Marzo, Vincenzo Ragognetti e Ezequiel Simone. Qualche mese dopo in via Josè de Barros la festa di presentazione: è un sabato, si balla ma non troppo. Dall’Europa incominciarono ad arrivare notizie di mobilitazione armata, di trincee e di parenti che si arruolavano per strappare all’aquila asburgica le terre irridente.
In ogni caso l’avventura sportiva iniziò in un campo affittato nel quartiere Vila Mariana e il 13 maggio del 1915 arriverà il debutto in campionato. La croce Savoia sulla divisa blu, e dentro vanno: Fabrini, Grimaldi, Rico, Fabio II, Bianco, De Biase, Gobbato, Valle II, Vescovini, Bernardini e Cestri. Nel 1920 la Palestra Italia vincerà il titolo statale, poi un altra guerra. Nel 1942 il Brasile entrerà nel secondo conflitto mondiale a fianco degli Alleati e il Governo di Getúlio Vargas proibì a tutte le associazioni i circoli e le fondazioni del Paese l’uso di qualsiasi riferimento alle nazioni dell’Asse: l’Italia è fra quelle.
Ovviamente anche Palestra Italia rientrava in queste disposizioni. La direzione del club tentennò per mesi prima di decidere il nuovo nome. Alla fine fu scelto “Palestra de São Paulo”. Tuttavia le autorità non resteranno convinte. Vuoi che le leggi non si discutono, vuoi che la guerra ormai aveva già preso una certa piega e quindi legiferare contro i sicuri sconfitti pareva più facile; il nome Palestra evocava la Nazione italiana e volenti o nolentila società dovrà cambiare nuovamente nome, pena la cancellazione e la confisca del suo patrimonio, stadio compreso.
Pronti ad avventarsi sul cadavere come avvoltoi i vicini del São Paulo Futebol Clube. Durante una convulsa riunione notturna, sarà un certo Mario Minervino a proporre il nuovo appellativo mettendo a verbale una frase che diventerà storica:
“Se proprio non vogliono che sia “Palestra”, ci chiameremo Palmeiras: nati per essere campioni”.
Per fugare ogni dubbio sul fatto che la squadra fosse autenticamente brasiliana, pochi giorni più tardi il Palmeiras entrò polemicamente in campo facendosi accompagnare da un ufficiale dell’Esercito (tale colonnello Adalberto Mendes) e sorreggendo una gigantesca bandiera verde-oro. Ironia del destino quel 14 settembre 1943 mancava una settimana esatta a Palestra Italia-São Paulo. Ne risultò una partita epica. Il risultato finale fu di 3 a 1 per il Palmeiras dopo che, al 19′ del secondo tempo, i giocatori del São Paulo abbandonarono il campo nel momento in cui gli alvoverdes si apprestavano a battere un calcio di rigore.
Il Palestra Italia era morto campione e il Palmeiras era rinato campione.
Una ventina d’anni dopo, da quelle parti passerà una stella cometa che ha illuminato per sedici lustri la venuta del “divino”: Ademir da Guia. Forse il più grande di tutti, un centrocampista estroso ma non eccentrico, proletario, vicino alla gente, uscito dagli esiti di un manoscritto di Marx. Mise a segnò 153 reti nel corso della sua carriera nell’Alviverde, in cui però mancherà il suggello continentale.
A quello ci penserà Scolari, insieme ad un altro idolo storico del club: Evair Aparecido Paulino, El matador di Crisolia. Allora rieccoci perché nel 1999 il letto di rose su cui amoreggiare con la Libertadores era pronto. Le partite verso la finale raggiungeranno gradi di misticismo tali da santificare tutte le tipologie di uomini: onesti, virtuosi, ladri e figli di buona donna. Brillerà soprattutto la stellinaMarcos, il portiere che diventerà subito San Marco. C’erano Francisco Arce e Junior Baiano, quest’ultimo talmente bravo da diventare capocannoniere della squadra. C’erano gli assisti di Junior, la fisicità di Cleber, l’ecletticità dell’altro Junior, “Roque”. C’è pure il diavolo biondo Paulo Nunes, il capitano César Sampaio, Alexandro de Souza detto Alex, l’esperienza di Zinho e la freddezza sotto porta del già citato Evair.
La finale, quella di ritorno, non sarà adatta ai deboli di cuore. Il primo match giocato in Colombia contro il Deportivo Calì terminò 1-0 per i padroni di casa grazie al centro di Victor Bonilla. Qui non valgono le reti in trasferta. E sarà una fortuna poiché, a San Paolo, il Palmeiras piegherà solamente 2-1 gli avversari. Goal di Evair, pari di Zapata, sogni apparsi, sfumati e nuovamente nitidi con il nuovo vantaggio firmato Oseas e spalti in febbrile attesa del responso dei tiri dal dischetto.
E dopo l’errore di Zinho e i tre centri consecutivi del Deportivo, nessuno avrebbe sperato nel capovolgimento di quella che incominciava a profilarsi come un amara conclusione. “Marcos, Marcos”, fu l’ultimo disperato grido della folla dagli occhi già umidi che rimbombò pesante nello stadio immobile. Quell’urlo afferrò l’anelito di gloria, e Marcos Roberto Silveira Reis parerà i rigori di Bedoya e Zapata mentre Rogeriò e Euller daranno il vantaggio al Palmeiras che diventerà così campione d’America.
“Quando surge o alviverde imponente
No gramado em que a luta o aguarda,
Sabe bem o que vem pela frente.”