Quasi quasi verrebbe voglia di seguire il suo consiglio e bere con lui una aranciata. Sì che il tempo controluce se ne andrebbe, ma chissà quanti anedotti l’Avvocato avrebbe da raccontare. Paolo Conte ha da poco girato la boa delle 85 primavere, ma se ne sta lì al piano come se l’orologio si fosse fermato a vent’anni addietro. Personaggio unico, è proprio il caso di dirlo, del panorama musicale nazionale. Un italiano novecentesco, cresciuto seguendo le passioni del padre, in una sorta di rituale passaggio di consegne. Laurea in Giurisprudenza per continuare la carriera nello studio di notaio del genitore. Quello stesso papà che lo cresce a libri e jazz, negli anni in cui il solo pronunciar quella parola è proibito. I dischi ascoltati di nascosto, tra la curiosità e una sottile voglia di ribellione.
Lui, chansionnier più che cantautore, eppure mai impegnato negli anni in cui ostentarlo ti certificava, in maniera automatica, la patente di “artista dalla parte giusta”.
Controcorrente senza esserlo. Meglio ancora, oltrepassando la puerile diatriba tra il parteggiare per l’una o per l’altra fazione. La musica al di sopra di tutto. Di mondo senza essere mondano. Amato a Parigi come fosse un connazionale, senza essersi mai mosso dalla sua Asti, a metà strada tra la caotica Torino e le dolci colline del Roero. Di geni del suo calibro, di quelli che hanno spalancato le porte della canzone nostrana al jazz dei grandissimi a stelle e strisce, ne nasce uno ogni secolo, quando Nostro Signore decide di essere benevolo. Di nicchia e nazionalpopolare al tempo stesso. Talmente tanto da essere stato tra i migliori, se non il migliore, a raccontare su spartito una passione sportiva dell’Italia del Ventesimo Secolo.
Quale disciplina, al di là del calcio, ha raffigurato in maniera perfetta l’amore viscerale dei nostri connazionali verso la competizione? Il ciclismo. Un elenco di nomi e di imprese per i quali le pagine di un magazine non basterebbero. Ma non sono necessarie all’Avvocato Paolo Conte per creare una sorta di acquerello musicale, dentro il quale narrare l’epica delle due ruote con la leggerezza di piano e saxofono. Riuscendo a viaggiare indietro nel tempo, pescando tra le contrade della sua città natale. A Trincere, per la precisione.
Il Diavolo Rosso.Giovanni Gerbi. Primo, vero, simbolo della “bicicletta”.Scaltro e competitivo. Vincente e scorretto. Fughe per il trionfo e chiodi buttati a terra per lasciare a piedi gli inseguitori. E poi, quel soprannome che lo marchia a fuoco come un demone. Tutta colpa di una felpa di color rosso acceso indossata durante una corsa. Sfreccia dinnanzi a un parroco poco avvezzo ai pedali, tanto da appioppargli quel nickname da romanzo di cappa e spada. Conte si mette al pianoforte, chiude gli occhi e si immagina il Piemonte di inizio secolo. Tra campi e vigneti, il sole a volte nascosto tra sottili nebbioline, altre così forte da spaccare le pietre delle mulattiere di provincia. L’incedere lento dei contadini a cui fa da contraltare il chiasso della piazza di paese, tra caffè e mercati.
Nel mezzo, il nostro che pedala tra bambine “che partoriranno uomini grossi come alberi” e il gracchiare delle rane sul ciglio delle risaie.
Prima ancora di un inno a un vecchio pirata del ciclismo dei pionieri, pare un dipinto della sua terra natìa. Gente dalla scorza dura. La schiena curva tra i prati dispersi tra le cascine e poche parole. In dialetto, quello autentico. Lontano dall’essere “imbastardito” dagli echi di una Novara troppo vicina a Milano o dagli alessandrini che sentono forte l’attrazione della ligure Superba. Dentro quel quadro vi “disegna” Gerbi, che corre e non si ferma, come se stesse scappando non solo da quel prete spaventato in processione, ma forse da se stesso. Che fosse trainato da un sidecar o che fossero davvero pedalate del suo sacco, importa poco.
Si correva per la gloria più che per il denaro. Spesso con regole ottuse, che non permettevano di sostituire una gomma forata o la possibilità di cambiare indumenti in corsa. Si partiva prima dell’alba e si arrivava verso il tramonto. E il maglione di lana doveva rimanere dov’era, pena la squalifica. In questo contesto, l’astuzia gioca un ruolo fondamentale, ma Gerbi sapeva come maneggiarla. E Paolo Conte la racconta, senza giudicarlo, senza vergognarsi. Come fosse uno di quei ragazzi che lo aspetta al bar per bere quella benedetta aranciata, mentre il Diavolo Rosso si inerpica tra le viuzze di qualche paesino attorcigliato tra Monferrato e Langhe.
Paolo Conte all’opera
Gerbi faceva parte di un mondo antico, fatto di agguati da parte di inferociti tifosi e tappe infinite tra vecchi sentieri di montagna battuti, al massimo, da qualche mulo da soma. Ma l’epica del pedale prende il sopravvento negli anni immediatamente successivi alla fine del Secondo conflitto mondiale. Attraverso il paesaggio di un’Italia devastata, tra rovine e povertà, si fanno strada i grandi assi che fanno sognare un popolo che si nutre di pane e sport. Dalla polvere delle macerie causate dalle bombe sbucano in due. Non sono due atleti qualsiasi. Sono l’essenza stessa del concetto di rivalità sportiva nello Stivale. Fausto Coppi e Gino Bartali.
Diversi in tutto, con in comune il solo obiettivo di arrivare primi al traguardo.
Ginettaccio diventa il soggetto di un brano di Un gelato al limon del 1979. Brano già interpreato da Bruno Lauzi, ma che l’astigiano trasforma in un popolarissimo motivetto. E se Gerbi era, in tutto e per tutto,“il diavolo”, Gino da Ponte a Ema veste i panni del cattolico pio. L’Acqua Santa fatta a persona. Devoto alla Chiesa, ma dalla lingua lunga. L’uomo immagine, si direbbe oggi, per l’elettorato democristiano che si appresta alla prima, lunga campagna elettorale della neonata repubblica. Eppure, poiché è anch’egli un personaggio inimitabile, riesce ad ergersi, secondo racconto popolare, a salvatore della Patria trionfando nel Tour del 1948. Nei giorni in cui il segretario del PCI, Togliatti, lotta tra la vita e la morte a causa della pistolettata di uno studente.
Il Tour. L’Italia sconfitta e lacerata. Una generazione che sogna con poche lire in tasca. Gli sportivi visti non come eroi classici, ma semplici atleti del quotidiano. Conte sale sul palco e con le sue note ci trasporta Oltralpe, accovacciati tra le pietre del Col del’Izoard a tifare per il Gino nazionale. Sofferente e scanzonato. La parlata svelta come il pedale che aumenta i giri. Lo sguardo scavato, ma beffardo di quel trentaquattrenne che si lascia indietro di mezze ore gli idoli locali. E allora sì, “i francesi che si incazzano” e che a cantarlo sia un’artista di casa da quelle parti rende bene l’idea. Così benvoluto da potersi permettere il lusso di schernirli. Il più transalpino degli italiani, che condensa in poco meno di tre minuti le gesta sportive in terra di Francia di quel toscanaccio con “quel naso triste da italiano allegro”. Un altro affresco ciclistico – musicale da consegnare agli archivi.
Colpi di tastiera che formano figure e situazioni, dando vita a un ritmo che appare come un sali e scendi, tra i torridi Pirenei e le nevose Alpi Cozie. Non serve immaginarselo, Bartali. Si vede subito dalle prime note, come se uscisse dal pianoforte in fuga dal pelotòn, con i suoi gregari che lo spingono all’impresa. Vai Gino, che con te il Paese rialzala testa! E poi, volete mettere che goduria farla proprio a loro? Nel giardino di casa che aveva già conquistato una decade prima, “da quella curva spunterà” il sogno tricolore sottoforma di un campione.
E ora, non solo si incazzano, i cugini amati – odiati, ma “ci rispettano” pure. Vocabolo tutt’altro che scontato, al tramonto di un confilitto che ci aveva marchiato come inaffidabile nazione da operetta. Una storia degna di un patriottismo dai toni trionfalistici. Un’epopea di riscatto e rinascita e invece, tra un “zazzazaraz” e una birra sorseggiata sui bordi di un paracarro, appare quasi un’allegra rimpatriata tra amici. Bartali che scatta e Conte che loaspetta al traguardo. Il sudore che solca le rughe del trionfatore, mentre i baffoni del nostro chanssonier si inerpicano in un sorriso nemmeno tanto velato.
E pensare che, nonostante nel suo sterminato repertorio l’omaggio appaia quasi en passant (in “Sudamerica”), Paolo Conte avrebbe da dire la sua anche sul “pallone”.
Cuore rossonero. Galeotto fu un Juve-Milan 1-7. L’astro nascente Boniperti da una parte, il trio Gre-No-Li dall’altra. Schiaffino, il più forte di tutti. L’Inghilterra di Mortensen ammirata dal vivo al “Comunale”. Quella volta al “Moccagatta” di Alessandria con la moglie Egle. Rocco e Bearzot. La passionaccia per Il processo firmato Gianni Mura e Gigi Garanzini, quello tutto vino rosso e panini al salame. Davvero singolare osservare che il football attraversi in silenzio la sua discografia.
Perché, in fin dei conti, prima dell’estenuante poporopopò griffato The White Stripes, è innegabile pensare che l’inno ufficioso della Nazionale sia stato quel motivetto portato al successo da un Adriano Celentano in stato di grazia. Si intitolava Azzurro. Lo aveva scritto nel 1968, in co-abitazione con Vito Pallavicini, un giovane laureato piemontese che collaborava con il mitico Clan. Sognava di portare il jazz tra i vitigni del Barbera e le risaie vercellesi. Si chiamava Paolo Conte.