Argentina-Francia è stata una metafora dell'esistenza.
Che cos’è l’esistenza? Da secoli, non c’è domanda più impellente per l’uomo e la sua storia. Filosofi, teologi, sociologi, psicologi, ingegneri: chiunque ha provato, da che ne abbiamo notizia scritta, a chiedersi qual è il senso delle cose che sono. Ma la domanda è posta in maniera sbagliata. Bisognerebbe chiedersi piuttosto quando ci rendiamo conto di esistere davvero: ecco, è negli eventi scioccanti e imprevedibili, rivelatori in quanto inspiegabili, che si manifesta all’uomo il senso della propria esistenza. Così è accaduto ieri sera nella finale più bella che la Coppa del Mondo abbia mai concesso allo sguardo degli uomini.
Gli dèi sono scesi in campo, realizzando in Lionel Messi – quasi inebetito da una vittoria tanto a lungo inseguita – un lampo di eternità, in Kylian Mbappé una profezia insieme futura e presente. Ma anche in Dibu Martinez l’umanità che è tanto folle da prendersi gioco del destino – che in quella parata di piede al 123° minuto di gioco si è compiuto una volta per tutte. Il calcio davvero è una metafora dell’esistenza, come hanno cantato Sartre, Galeano, Pasolini, Camus e compagnia giocante: l’arte di comprimere la storia universale in 90 minuti (stavolta 120, più rigori).
Una Francia cadaverica per 80’ aveva assistito inerme alla propria condanna a morte, non era proprio scesa in campo: calciatori confusi contro uomini determinati, quelli in magia albiceleste, che li avevano surclassati e annichiliti caratterialmente, fisicamente, tecnicamente; anche tatticamente. Un dominio paradossale, quasi inspiegabile, soprattutto in un ultimo atto sulla carta così equilibrato (di certo la condizione psico-fisica dei campioni del mondo non era delle migliori); ma una differenza evidente già al momento degli inni nazionali, quando gli occhi indemoniati dei sudamericani facevano da contraltare alle facce spente degli europei.
E allora le reti di Messi (dal dischetto) e Di Maria (azione più bella del mondiale) avevano dato l’illusione, così frequente presso i mortali, di avere tutto sotto controllo. Poi, la lezione del Signore.
80’, rigore Francia e 2-1 Mbappé. Palla al centro, è già tutto fuori controllo: 81’, 2-2 Mbappé con un gol preso in prestito dalle stelle. Un’azione in cui Messi, che finalmente era assurto a leader caratteriale e quindi pure tecnico dell’Argentina, perde palla su recupero di Coman per poi assistere alla rete di colui che vuole rubargli la coppa, la scena e lo scettro di migliore del mondo, con più di qualche diritto: una rete da talento puro e originario, laddove 9 giocatori su 10 nel famigerato calcio moderno avrebbero stoppato la palla per avere più controllo, e invece Kylian batte di collo esterno al volo senza pensarci due volte. Sembra una trama già vista: magari lo pensa anche lo stesso Messi, abituato a clamorose rimonte (dalla Roma al Liverpool) e, in quei momenti, a perdersi senza più ritrovarsi.
Lo shock è sufficiente a farci dubitare della stessa presunzione che aveva caratterizzato il finale di partita dell’Argentina: la partita è finita, l’esistenza è sancita. Ma esistere è resistere ai colpi del destino, negli eventi che stritolano le nostre certezze. Forse questo intendeva dire Eraclito quando parlava dell’impossibilità di bagnarsi due volte nello stesso fiume. La vita scorre, e la pratica schiaccia sempre le pretese della teoria. Supplementari, allora. L’Argentina al tappeto, la Francia che sul tappeto vola. Appunto, ecco l’esistenza che ti frega di nuovo: senza accorgercene, al minuto 108 arriva il 3-2 di Messi (altra azione meravigliosa) che stavolta non si nasconde più; viene a prendersi palla, dispensa assist, tira, segna, è nel vivo del gioco.
E la sua transizione a líder l’ha completata davvero.
D’accordo, ci siamo divertiti abbastanza. Ora basta, però, inizia ad essere troppo. L’uomo non imparerà mai. E una voce dal cielo sembra sussurrare: Kylian, alzati e cammina. 3-3, su calcio di rigore, al minuto 118. Rigore che lui stesso si procura, su un tiro che probabilmente si sarebbe insaccato poco sotto il sette. Come poteva concludersi, d’altra parte, una partita metafora dell’esistenza? Come poteva chiudersi la partita del secolo se non dagli undici metri, la più perfida e demoniaca lotteria sportiva? La più metaforica rappresentazione di come, per i mortali, l’illusione del controllo sia al final poco più che un’utopia. L’Argentina, diciamocelo chiaramente, l’avevamo data tutti per spacciata.
Solo un uomo poteva risollevarla: Emiliano Martinez, incarnazione del ruolo più perverso folle mentalmente instabile che esista nello sport, il portiere. E solo la follia, forza motrice della storia quando la logica e la ragione mostrano la propria impotenza, poteva decretare la fine di un simile dramma. Prendere o lasciare, noi ce lo prendiamo volentieri, anche e soprattutto nella sua teatralità. Lo aveva detto prima della partita, il Dibu: «vogliamo regalare a Messi il trionfo mondiale». Che è un po’ come dire: vogliamo regalare all’eletto l’elezione.
Certe frasi però non si spiegano: si vivono sulla pelle, sul sudore, nel sangue che ti scorre nelle vene e ti fa sentire vivo. Sul 3-3 Messi aveva dipinta sul volto un’espressione straziante. In quel momento eravamo tutti con lui, nell’attesa che si compisse ciò che si doveva compiere: un destino, non il destino. Il suo destino, che è quello di essere il calciatore più vincente, forte e completo della sua epoca, forse della storia del calcio; ma che non è quello di essere il più grande, perché il più grande, soprattutto in Argentina, rimarrà sempre Diego.
Un verdetto sancito dalla foto in cui il 10 dell’Argentina indossa il Bisht, mantello tradizionale del Golfo, vestitogli dall’emiro che in mondovisione ha dato l’ennesima prova del suo potere. Mantello metaforicamente nero, che ha coperto lo stemma della Selección e Lionel ha indossato un po’ spaesato, completamente focalizzato sul suo destino – quello di avere chiuso il cerchio della sua carriera – e sul suo sogno divenuto realtà – quello di festeggiare il trionfo con i compagni, e di alzare finalmente al cielo la Coppa più ambita. Con Diego, un capo politico che si è battuto contro i potenti della FIFA e non solo, l’emiro, probabilmente, non ci avrebbe neanche provato.
Ma Diego era altro, e forse serviva anche qui un’immagine per ricordarselo. Perché ognuno scrivesse la Storia a modo suo e compisse il suo destino.
È anche l’occasione per finirla con gli stucchevoli paragoni con cui andiamo avanti da giorni, da settimane, da anni. Smettiamola con quest’ansia di dover classificare sempre tutto, di stilare classifiche definitive, e abbandoniamoci invece all’Evento, alla Storia presa a pedate. Ieri il calcio ha parlato e noi potremo raccontare ai nostri figli e nipoti di quel 18 dicembre 2022, della nuova partita del secolo. Lo faranno soprattutto gli argentini, con i giocatori che dopo l’ultimo rigore non avevano neppure la forza di correre ad esultare ma sono stramazzati al suolo, accasciati, trasfigurati nel pianto, come se improvvisamente la grande forza che li aveva animati e posseduti fosse svanita. Al di là di ogni calcolo, di ogni possibile – e sciocca – pretesa di comprensione. Il calcio, come l’esistenza, non si comprende: si vive.