Calcio
12 Luglio 2022

La partita a Scopone sul tetto del mondo

Pertini, Bearzot, Zoff, Causio: la storia d'Italia in una foto.

Quattro uomini combattono sul tavolo di faggio fino all’ultima carta. Due pipe. Pezzi unici, da collezione. Ardono tabacco pregiato. Le nubi del loro fumo fanno a cazzotti. Gli occhi dei giocatori più giovani, uno con capelli da Woodstock, l’altro dallo stile impeccabile, cercano di annichilire quelli degli avversari più maturi. Sviolinata di nervi. Sembra una taverna di paese, invece è il cielo del Mediterraneo. Una scena di Amici Miei, forse. Sembra il cicaleccio dell’umile vita, invece è il DC-9 dell’Alitalia, aereo di Stato. In lontananza Paradise di Phoebe Cates s’impasta ai dialetti friulano, genovese, salentino.


DINO


L’Italia sbarca nel cuore della Galizia, a Vigo. All’Estadio Balaídos si giocano le tre partite del primo girone eliminatorio. La pressione mediatica è insostenibile: lo scandalo Totonero ha fatto perdere fiducia nei calciatori, visti come mercenari che vendono le partite. Dino è il capitano chiamato a fare da parafulmini. Friulano di poche e discrete parole. Uno di quelli che quando parla, te lo ricordi per sempre. Statuario, elegante tra i pali, una carriera di allori invidiabili nella Juventus di Trapattoni. C’è un piccolo particolare: ha quarant’anni.

Le tre partite della prima fase degli azzurri sono un’agonia: 0-0 con la Polonia, 1-1 con il Perù, 1-1 con il Camerun. Il capitano perde la voce in campo. Batte i pugni nello spogliatoio.

L’Italia merita di andare fuori, ma viene ripescata per la seconda fase con soli tre punti. Nel successivo girone gli azzurri devono vedersela con l’Argentina di Maradona e il Brasile del trio scintillante Zico-Falcao-Sócrates. Addio sogni di gloria. Ma Dino ha un’idea. Stabilisce con la guida tecnica e la Federazione il primo silenzio stampa della storia del calcio. Barcellona è vicina. L’Estadio Sarriá pronto a ribollire. Il capitano crede nell’impresa mai compiuta prima: battere argentini e brasiliani in un Mondiale. Dalla sua porta finalmente una gioia irrefrenabile: l’Italia supera 2-1 Maradona! Adesso si comincia a fare sul serio, ma nello spogliatoio le inquietudini aleggiano sul mister. 


ENZO


Nel mondo del calcio lo conoscono come Il Vecio. La sua pipa gli dona boccate amare, quelle d’esistenza agra del suo microscopico paesino nel Friuli. Barlumi di saggezza popolare prestata alla panca. A 55 anni più che un allenatore è un padre con bastone e carota per i calciatori. Vuole trasmettergli stile sobrio, etica nicomachea, rispetto per la gente. Il Totonero gli toglie il sonno. Un dilemma lo dilania poco prima del Mondiale. Uno dei suoi ragazzi è stato squalificato.

La sua carriera è distrutta, si chiama Paolo Rossi.

L’attaccante è caduto nella rete di due figure all’apparenza comuni, ma al buio, burattinai del calcioscommesse: il fruttivendolo Massimo Cruciani e il ristoratore Alvaro Trinca, proprietario de La Lampara, il luogo oscuro nel quale i calciatori vendevano le partite e organizzavano combine coi compagni di squadra. Rossi viene condannato a due anni di squalifica dalla magistratura per un accordo in Avellino-Perugia, valso un 2-2 ricchissimo per gli scommettitori al tramonto del dicembre del 1979.

Per dare un posto all’uomo sulla bocca di tutti Enzo dovrebbe lasciare a casa il capocannoniere del campionato, l’implacabile Roberto Pruzzo. Si fa forza: lo porta. Il Rossi della prima fase non è esaltante, tutt’altro. Enzo non demorde. Come un padre amorevole gli parla, toccando la sua anima. Crede in lui: è l’unico. È la fiammata che serve nell’inverno di Rossi. Paolo si sente rigenerato. Gli promette di non mollare. Arriva il giorno di Italia-Brasile: l’Estadio Sarriá attende una recita degna di Eschilo e Sofocle. In un pomeriggio di torride folate, sotto gli occhi miliardi di esseri umani collegati da ogni angolo del globo, si forgia la leggenda di Pablito. Dalla panchina del mister si assiste a un evento raro: tripletta del suo più grande rischio a uno dei Brasile più forti di sempre. Paolo, gracile e minuto, è il titano del 3-2.



Un déjà vu. Di nuovo la Polonia, stavolta in semifinale. L’opportunità di polverizzare lo scialbo inizio, dando un’ultima pennellata di azzurro sulle critiche. La Catalogna ha un nuovo re straniero: Rossi infila due volte i polacchi. Adesso è il capocannoniere del Mondiale con cinque marcature e guarda con orgoglio alla finale contro la Germania, nella capitale, a Madrid, a casa del re sulla carta, Juan Carlos I.


SANDRO


Il Presidente della Repubblica italiana è in mezzo alle case sventrate dal terremoto in Irpinia. Ascolta le istanze delle famiglie che muoiono di fame. Lo Stato ritarda fatalmente gli aiuti. A 86 anni, i suoi collaboratori gli hanno sconsigliato di andare in quello scenario, potenzialmente deleterio per la sua salute. Ma lui non ci sta: in mezzo a uomini, donne e bambini che hanno perso tutto sa come dare l’abbraccio solidale di un intero Paese. Non si ferma. Decide di andare a Madrid per manifestare la vicinanza alla Nazionale tanto vituperata. La memoria in Italia dura quanto il percorso di una sigaretta: quella squadra adesso la amano tutti (o quasi).

Sandro è tra gli eleganti viali della capitale spagnola. Vede uomini, donne e ragazzi indossare la maglia azzurra. Il popolo ispanico si è schierato al fianco degli uomini di Bearzot ed è pronto a sostenerli nell’ultimo atto. Mentre l’auto blindata lo porta dai calciatori, recita dei versi di Federico García Lorca, Mia viva morte, amore delle viscere. Il Presidente incontra tutto il gruppo della Nazionale, compreso lo staff e le maestranze, poco prima della palpitante finale contro i nemici di sempre, i tedeschi. Vuole motivare ogni singolo elemento della spedizione, trasmettendo amore viscerale verso la patria, unica, bistrattata, da difendere.

Vuole spingere tutti verso l’eroismo possibile. Racconta le sue avventure da partigiano durante la Seconda Guerra Mondiale.

La fuga verso la Francia in motoscafo insieme Filippo Turati e Italo Oxilia per sfuggire al fuoco fascista.  L’organizzazione del gruppo battagliero Nuova Libertà, pronto a fronteggiare camicIe nere e nazisti. Il ritorno clandestino in Italia, l’arresto, la soffocante detenzione nel carcere di Turi al fianco di Antonio Gramsci. La mirabolante evasione, le battaglie senza esclusione di colpi contro i tedeschi. Proprio loro, da affrontare al Bernabeu. La liberazione d’Italia del 25 aprile 1945 e la sua ruggente voce via radio a proclamare lo sciopero generale.


FRANCO


Palesa occhi di brace durante i ricordi del Presidente. Funambolica ala della Lecce che sogna low cost. Peccato abbia 32 anni e sia ritenuto un vecchietto buono solo per cementare il gruppo. Grazie al proprio portamento viene soprannominato Il Barone. Per lui il Mondiale è una questione d’onore, da inseguire, impugnare e tenere stretto al petto.

Spogliatoio. Italia-Germania. Finale della dodicesima edizione della Coppa del Mondo. Mentre si veste, l’orgoglioso Franco ripensa alla sua infanzia. Un quadretto invaso di luce penetrante, chiarissima, che si riflette sulla pietra leccese, nelle ore di fatica insieme al padre Oronzo come venditore ambulante di bombole di gas. Guida con abilità un ape-car, evitando ostacoli come difensori sul manto verde. Sale le ordinazioni con sforzi sovraumani sui palazzi cinquecenteschi della sua città. Ma lui vuole solo giocare a calcio. L’inizio della sua esemplare storia per gli emigranti del Sud verso il Nord è nelle giovanili del Lecce. Si guadagna la Juventus nel ciclo di vittorie di Trapattoni. Superati i trenta, Boniperti lo beffa. Non lo vuole nessuno, solo l’Udinese, squadra di provincia. Ma durante un allenamento sulle Alpi Carniche, un signore distinto, dall’inconfondibile accento lo aspetta all’uscita dal campo.

È Enzo che gli sussurra poche parole, in grado di farlo rinascere: «Comportate ben che porto anca tì al mondiale».

Dopo il primo tempo a reti bianche e un rigore fallito da Cabrini, lo sguardo di Franco è malinconico. Vorrebbe entrare in campo, dare il proprio contributo. Il secondo tempo non tornano sul terreno di gioco degli uomini: sono dei leoni vestiti di cielo. Rossi, Tardelli, Altobelli! 3-0! Sandro alza le braccia dalla tribuna. Enzo è un ritratto di irrefrenabile felicità in panchina. La Germania accorcia le distanze con Breitner. Serve spezzare il ritmo. Occorre una figura esperta per gestire i minuti finale. Enzo si volta verso Franco: «Vecio, scaldati!». L’ala è incredula. Il momento sognato per tutta la vita è arrivato. Solo una manciata di minuti. Bastano per dare senso a un’esistenza intera. Franco entra al posto di Altobelli. A Lecce, davanti a un TV color, il padre Oronzo si gusta il momento. Una lacrima scende sul viso, bagnando d’immenso le rughe.

Il direttore di gara Arnaldo Coelho fischia tre volte. Campioni del mondo! Campioni del mondo! Campioni del mondo! Grida varcando dalle reti RAI ogni centimetro d’Italia Nando Martellini. In Irpinia, al centro di una strada di cocci e speranze perdute, decine di famiglie si inebriano del momento davanti a un vecchio televisore improvvisato. Tutto finisce. Si torna sul DC-9 dell’Alitalia, mentre Causio esegue la ballata ciucca, la mossa a sorpresa per vincere lo scopone. Un’istantanea ferma il battito dei quattro protagonisti: un’immagine lunga quarant’anni, che non finirà mai.  

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