I capolavori, siano essi letterari, musicali o, perché no, sportivi, sono resi tali dal fatto di saper generare nei propri “spettatori” emozioni viscerali e variegate, che si rinnovano al di là del trascorrere del tempo. Ventinove anni fa la Coppa dei Campioni di basket, l’attuale Eurolega, è stata teatro di una vicenda con tutte le caratteristiche per essere ricordata come l’impresa immortale della pallacanestro, nonostante oggi sia forse ignota ai più.
Tutto ha inizio con un giocatore jugoslavo che, nella calda estate del 1991, si sta preparando con il massimo impegno per rappresentare la propria nazione agli Europei di Roma dopo un paio d’anni di inattività. A complicare le cose c’è che lo stop dell’atleta non è dovuto ad un infortunio, o a un allenatore che non gli ha concesso spazio nelle rotazioni; questi ha passato invece un anno in carcere, scontando una pena per un incidente stradale che ha provocato la morte di una persona. Dopo traumi del genere, soltanto pensare di scendere in campo per giocarsi un Europeo è di per sé incredibile, e questa scena potrebbe benissimo già rappresentare un lieto fine. In realtà la vicenda è soltanto il prologo di una storia ancora più grande.
“Tutti pensarono che avevo appena commesso l’errore più grande della mia vita”
Zelimir Obradovic
Il giocatore in questione si chiama Zelimir Obradovic e, a pochi giorni dall’inizio della competizione, riceve un’inaspettata telefonata da Dragan Kicanovic, vice-presidente del K.K. Partizan, la squadra dove ha militato nelle ultime sei stagioni. Il dirigente è un uomo di basket, come solo la “Terra degli Slavi del Sud” sa partorire, e al telefono gli chiede con grande urgenza di raggiungerlo a Belgrado: ha una proposta irripetibile. Quando, con il benestare del coach della nazionale, Obradovic arriva finalmente nel suo ufficio, l’offerta è assurda sul serio: la dirigenza gli vuole assegnare il ruolo di capo allenatore della prima squadra.
Obradovic ha 31 anni ed è tutt’altro che un giocatore finito; di quella Nazionale Jugoslava è addirittura il capitano e soprattutto non ha alcuna esperienza da allenatore, al di là di qualche seduta come coach delle giovanili proprio del Partizan. Ad ogni modo, il presidente ha intenzione di affiancargli una leggenda delle panchine jugoslave, Aza Nikolic, che con la sua esperienza potrà essere una spalla sapiente all’esuberante e talentuoso esordiente coach. Le ragioni rimangono ancora oggi ignote, ma Obradovic accetta; evidentemente proprio queste sono le proposte talmente assurde da non poter essere rifiutate.
Il neocoach Obradovic (il primo in piedi a sinistra) si gode una rosa tanto giovane quanto talentuosa (twitter).
Il roster del Partizan della stagione 1991/1992 ha due giovani stelle, Aleksandar Djordjevic e Predrag “Sasha” Danilovic, ormai ex compagni di squadra e nazionale del loro nuovo allenatore. Il gruppo è costruito sulla linea verde, come da tradizione balcanica, con un solo giocatore sopra i 30 anni e soprattutto nessun americano, scelta inaudita per una squadra che disputa la Coppa dei Campioni. La romantica follia di questa vicenda però assume tinte ben più amare dopo poco: nell’estate del 1991 la Croazia si ribella al potere centrale di Belgrado, innescando una guerra civile che dilanierà la Repubblica Federale Jugoslava fino alla sua disintegrazione.
Vista la situazione, la FIBA impedisce al Partizan giocare le partite casalinghe a Belgrado, intimando al club di trovare una sede alternativa. È un compito doloroso: il Partizan è una religione per la sua gente, sin da quando il Club venne fondato al termine della Seconda Guerra Mondiale da un gruppo di partigiani, che si incontravano per fare sport nei campetti del centro della capitale serba.
Lo striscione che celebra il Partizan de Fuenlabrada e la strana alleanza. (Facebook)
Quasi per caso, un amico fa notare ad Obradovic come ci sia una cittadina alla periferia di Madrid che non ha una squadra residente, ma un bellissimo palazzo dello sport. La decisione è presa immediatamente, alla prima visita di Fuenlabrada, folle e irrazionale proprio come la scelta del Coach avvenuta poco tempo prima: sarà il “Pabellon Municipal Fernando Martin” la casa del Partizan per la stagione a venire.
I giocatori provano da subito grande affetto per il luogo che li ha accolti, ricambiati dalla gente del posto che si affeziona agli strani esuli; il palazzo è gremito e la squadra è sostenuta come se fosse sempre stata lì. A suggellare concretamente questo sentimento reciproco, sugli spalti viene esposto lo storico striscione che recita, con una calligrafia grezza e genuina, “Partizan De Fuenlabrada”, insieme alle bandiere jugoslava e spagnola.
“Per imparare qualche parola di Spagnolo andavamo spesso a giocare alla sala Bingo, vinsi anche 800.000 Pesetas”
Zoran Stevanovic
A migliaia di chilometri da casa, con la guerra civile che imperversa e minaccia famiglie ed amici, i bianconeri disputano una Coppa dei Campioni sorprendente: nonostante un attrito sempre più forte tra le due stelle, Djordjevic e Danilovic, nel girone il Partizan si qualifica quarto; nella fase a playoff deve affrontare la prima classificata dell’altro gruppo, ovvero la temibile Virtus Bologna di Brunamonti e coach Ettore Messina. La FIBA, alla luce di un momento di un tregua nel conflitto, concede al Partizan di giocare gara 1 a Belgrado dove, come ci si può immaginare, è una netta vittoria davanti ad un pubblico in visibilio, tra cui c’è perfino qualche tifoso arrivato da Fuenlabrada.
Il Partizan riesce a vincere la serie, realizzando il sogno di qualificarsi tra le prime quattro d’Europa e volare ad Istanbul per le Final Four. In semifinale l’avversario è un’altra italiana, cioè l’Olimpia Milano di Mike d’Antoni, Darryl Dawkins e Antonello Riva. Il primo tempo si chiude con i meneghini in vantaggio, in una partita nervosa e a basso punteggio.
Ma al rientro dagli spogliatoi i giocatori del Partizan hanno il volto di chi è nato e cresciuto esclusivamente per giocare queste partite, allora, con due ultimi quarti strepitosi da 51 punti complessivi, la squadra serba stacca il biglietto per l’ultimo atto della competizione. Allora il 16 aprile, alla palla a due si fronteggiano due inaspettate finaliste: Joventud Badalona contro Partizan Belgrado, o se vogliamo “de Fuenlabrada” almeno una stagione.
“Eravamo così giovani! facevamo fatica a capire e pensare a quello che stavamo veramente facendo”
Predrag “Sasha” Danilovic
La partita è tesa ed equilibrata come tante finali, in cui spesso le difese prevalgono sugli attacchi. Sono le due azioni finali a consacrare questa sfida agli annali del basket, scrivendo un capitolo di epica sportiva. Con una penetrazione forzata in area, Jofresa segna un canestro tanto sporco quanto fondamentale: la squadra spagnola rompe la parità e si porta sul 70 a 68.
Adesso mancano poco più di 12 secondi e, con Danilovic fuori per cinque falli, ci sono pochi dubbi su chi si prenderà l’ultimo tiro per i serbi. Djordjevic riceve sulla rimessa, percorre tutto il lato destro del campo con la cognizione dello spazio di chi in quei 28 metri ci ha passato buona parte della sua vita. Passa di fronte alla panchina di Badalona: l’allenatore Lolo Sainz, gli assistenti e tutti i giocatori sono piegati sulle gambe come se stessero difendendo insieme ai compagni in campo.
A due secondi dalla quarta sirena Djordjevic si arresta fuori dalla linea dei tre punti: come perno punta il piede sinistro e, girandosi in aria verso la stessa direzione, tira. È un arco dalla parabola lenta, un tentativo troppo improvvisato per far credere che la scelta, per quanto coraggiosa, possa essere ripagata con i tre punti.
“Quel tiro ha cambiato la vita di tutti noi”
Zelimir Obradovic
Mentre la palla a spicchi descrive la sua orbita, il playmaker ha il tempo di domandarsi se sarebbe stato più saggio optare per un passaggio in transizione, oppure un tentativo di entrare in area per segnare i due punti della parità, magari cercando un fallo ed i tiri liberi. La palla, però, entra. Non brucia la retina, ma ci si avvolge dentro disegnando una spirale quasi al rallentatore, come a voler lasciare il tempo a tutta Istanbul di capire quello che sta davvero succedendo.
Tre punti. Mancano due secondi e, dopo la rimessa, la preghiera della Joventud da metà campo non ha speranze: è finita, il Partizan è campione d’Europa. Con un allenatore esordiente, senza americani in squadra e avendo giocato una sola partita nella propria città in tutta la stagione. L’impresa è compiuta, il capolavoro immortale.