Eroe della controcultura, fino ai patti col sistema.
Nell’industria del calcio moderno, in cui la tendenza imperante è quella di considerare il gioco come puro show da dare in pasto al tifoso-consumatore, il ruolo dei suoi attori – i calciatori – è sempre più spesso limitato al mero terreno di gioco. Il calciatore è solo colui che permette alla giostra di continuare a girare, viene pagato profumatamente per farlo e perciò non è ammesso che la sua individualità emerga fuori dai binari imposti dal sistema. Il caso del contratto di Neymar con il PSG (con una clausola da sei milioni annui per sorridere ai tifosi e non parlare di politica), è solo la punta dell’iceberg: sono tanti gli atleti che si sono fatti passivamente fagocitare, storditi dal successo e dai social network.
In questo contesto, la figura di Paul Breitner, detto Rot Paul (Paul il Rosso) sembra distante anni luce dal prototipo del calciatore moderno. La sua carriera intrisa di antinomie e contraddizioni, sinceramente idiosincratica nei confronti del sistema, è un elogio alla libertà, al diritto di essere ciò che si vuole. Anche – e soprattutto – se si è uno dei calciatori più forti al mondo.
Il nuovo eroe della controcultura tedesca
Quando il New York Times lo definisce “il nuovo eroe della controcultura tedesca” è il 1972, Paul Breitner ha appena 21 anni ed è uno dei più interessanti prospetti emergenti in circolazione. Il suo aspetto bizzarro e anticonformista – lo sguardo glaciale, i vistosi baffi e una capigliatura che gli garantirà per anni il soprannome “Der Afro” – lo rende inconfondibile. Bavarese di nascita, a 19 anni è già titolare al Bayern Monaco di Muller e Beckenbauer, con i quali vincerà tre Meisterschale e una Coppa Campioni: esordisce da libero, poi si impone come terzino sinistro, ruolo in cui troverà fortuna anche in Nazionale. Dinamicità, tiro da fuori, intelligenza tattica, forza, carisma: Breitner è un giocatore da calcio totale, sa fare quasi tutto dentro al campo da gioco. Ma è soprattutto quello che fa – e dice – fuori a fargli meritare l’epiteto del Times.
Paul Breitner ha uno spirito naturalmente sovversivo. In casa ha un poster di Che Guevara e uno di Mao, è seguace di Ho Chi Minh e legge Marx, si fa fotografare spesso con il Libretto Rosso in mano, si schiera apertamente contro il nazionalismo nel calcio, e alla domanda su quale fosse il suo più grande desiderio risponde “la sconfitta degli Stati Uniti d’America in Vietnam”: materiale sufficiente per trasformarlo in un’icona della sinistra rivoluzionaria e sessantottina.
«Quando ero giovane era logico per me occuparmi di fenomeni come il comunismo, Che Guevara o Mao. Erano i problemi che discutevo con i miei compagni all’università. Occuparmi di filosofia e di politica era importante per me. Ero solo un giovane che cercava la sua strada di uomo».
Paul Breitner
Essere dichiaratamente comunista nella Germania Ovest degli anni ’70 è già di per sé un atto audace, considerato che il Partito Comunista è fuori legge da 15 anni. È roba da Germania Est. E il fatto che Breitner provenga da un mondo, quello del calcio professionistico, che a suo stesso dire è “il capitalismo nella sua forma più pura”, lo converte in una contraddizione vivente. Contraddizioni che divamperanno qualche anno più tardi, nel 1974.
“L’abissino”
Dopo aver trionfato al Mondiale casalingo trasformando con freddezza il rigore del momentaneo pareggio in finale con l’Olanda, arriva una notizia bomba: Breitner ha firmato per il Real Madrid, voluto dall’allenatore serbo Miljanic. Sì, proprio il Madrid del Generalisimo Francisco Franco, la squadra simbolo della dittatura. La decisione solleva un polverone di critiche, sia per l’evidente incongruenza con le sue idee politiche, sia per la scelta di lasciare la Germania. «Arriva una telefonata e mi dicono: Vuoi venire al Real Madrid? Ho detto: questo è qualcuno che vuol farmi uno scherzo.. Chiedo a mia moglie e lei dice: proviamoci». Dirà poi.
Ma le polemiche non sembrano scalfire il suo animo antidogmatico. Appena arrivato, chiede al dirigente Lopez Serrano di farsi fare un quadro con una gigantografia di Mao. Nel 1975, poco prima della morte di Franco supporta uno sciopero nazionale – al tempo proibito – donando 500 mila pesetas alla Commissione Operaia (più un pallone firmato da tutti i calciatori merengue). Rimarrà tre stagioni in terra iberica, guadagnandosi il soprannome de l’”Abissinio”, vincendo due campionati e una Copa del Rey. Viene spostato a centrocampo a fianco del connazionale Gunter Netzer, diventando uno dei migliori interpreti del ruolo: Breitner è un leader naturale, e in mezzo al campo ha più spazio per far emergere le sue qualità tecniche, il suo tiro mortifero e la sua creatività.
Un tedesco atipico
Il carattere vulcanico e ribelle di Paul il Rosso non si sposa affatto con il senso della disciplina tipicamente tedesco. Già nel 1973, fotografato nudo nella piscina di un lussuoso hotel di Monaco dopo la vittoria della Bundesliga, rispondeva così dopo la salata multa ricevuta dalla dirigenza:
«Che società di merda..non sanno neanche festeggiare come si deve».
Simile è il rapporto con la Federazione, soprattutto per i continui dissidi con il CT Helmut Schön. Per Breitner giocare in Nazionale non è un privilegio, anzi dichiarerà più volte di non sentirsi nemmeno tedesco. Così, viene escluso dalle convocazioni per l’Europeo del 1976, e quando nello stesso anno il Real viene eliminato dal “suo” Bayern in semifinale di Coppa Campioni, la legge del contrappasso sembra trafiggerlo, insieme a fischi e critiche. Ma Paul il Rosso ha ancora qualche cartuccia da sparare.
Il ritorno in Germania arriva l’anno successivo, con la maglia gialla dell’ Eintracht Braunschweig, al tempo di proprietà dello stesso patron della Jägermaister. Un anno in provincia, che chiuderà con 15 reti prima di andarsene sbattendo la porta, al seguito ai prevedibili screzi con compagni di squadra e dirigenti. Ma il rientro in Bundesliga ne resuscita la popolarità, e potrebbe portarlo anche al Mondiale del 1978 in Argentina: sarà lo stesso Breitner questa volta a rifiutare, per boicottare volutamente lo spettacolo di propaganda imbastito dal generale Videla.
«La Germania è campione in carica e per questo ha una responsabilità speciale. La Selezione Nazionale non può lasciarsi usare come una marionetta. Gli sportivi, nonostante abbiano nello sport stesso la loro principale preoccupazione, non devono essere eunuchi politici».
Paul Breitner
La stagione successiva è di nuovo il Bayern Monaco a volerlo, orfano dei suoi campioni e impantanato a metà classifica. Un ritorno all’ovile per Paul, possibile solo grazie all’intermediazione dell’amico Uli Hoeness. Il ritorno in Baviera esalta l’indole offensiva di Der Afro, che sviluppa un’intesa naturale con l’altro astro nascente, Karl Heinz Rummenigge: in quattro stagioni e mezzo insieme arrivano due campionati, una coppa di Germania, una finale di Coppa Campioni, un Premio di Giocatore Tedesco dell’Anno ed un secondo posto al Pallone d’Oro, proprio dietro al Kalle. Nel 1981 torna anche in Nazionale, partecipando al Mundial spagnolo dell’anno seguente: sarà lui a insaccare il gol della bandiera contro l’Italia, diventando il terzo calciatore (dopo Pelè e Vavà, in seguito si aggiungerà Zidane) a marcare in due finali di una Coppa del Mondo. Sarà la sua ultima partita in Nazionale.
La contraddizione di esistere
Con il passare degli anni, la personalità dissidente e politicamente riottosa di Paul il Rosso viene lentamente corrosa. Infatti, non solo sembra cominciare ad apprezzare i privilegi che il capitalismo garantisce a chi è ricco e famoso, ma accetta di fare da testimonial per un’azienda di tabacco olandese, o per società come McDonald’s e Gilette, dalla quale riceve 150 mila marchi per tagliarsi la famigerata barba. «Nessuno è nella posizione di giudicarmi» dirà a Der Spiegel. «Sono solo solo un uomo che si assume la libertà di cambiare idea».
Sembra passato un secolo dal sessantotto. Breitner è giocoforza invecchiato, e con lui anche le ideologie che sbandierava con tanto fervore. Nel 1983 annuncia a sorpresa il suo ritiro, a soli 31 anni, quando è ancora uno dei migliori al mondo.
«Ne avevo fin sopra i capelli, non avevo più voglia. Stavo giocando il miglior calcio che potessi, per cui era il momento giusto per smettere. È stata la migliore decisione che ho preso nella mia vita».
Paul Breitner
Nel 1989 viene nominato CT della Nazionale appena riunita, ma per sole 17 ore prima che la Federazione tornasse sui suoi passi, ricordandosi del suo passato bizzoso. Continuerà però ad orbitare nel mondo del calcio, levigando progressivamente il suo animo spigoloso ed entrando addirittura nella stanza dei bottoni della tanto odiata dirigenza Bayern, prima come osservatore e poi come promotore. «Non esistono cose che non contengano contraddizioni; senza contraddizioni, non vi sarebbe l’universo» scriveva proprio Mao nel suo “Sulla contraddizione”.Chissà se questa frase non riecheggi ancora, quando pensa alla sua carriera, tra i meandri della memoria di Paul il Rosso.