Ritratti
10 Giugno 2023

Peppino Prisco, primo ufficiale dell'Inter

Vita, morte e miracoli di un grande nerazzurro.

Cosa vuol dire, per un tifoso, elevare la propria passione al punto di farne più di un lavoro, introiettandola al punto che oltre vent’anni dalla propria morte gli ultras cantano ancora per lui, i più anziani si commuovono, i più giovani s’incuriosiscono? Il personaggio in questione offre le risposte a tali quesiti, risposte provenienti dal cuore e dall’animo di una persona che manca terribilmente, all’Inter, al calcio italiano, a una certa Italia, che, seppur passionale, rifugge la strillata volgarità dei media moderni.

Giuseppe Prisco, detto Peppino, nasce nel 1922 a Milano in Corso Buenos Aires 66, da padre napoletano e madre milanese. Alla nascita la mamma ha già 26 anni, si considerano genitori anziani in un’epoca in cui i figli si hanno giovanissimi. Il padre è avvocato, esponente di una famiglia partenopea che annovera tra le sue file anche l’arcivescovo di Napoli ai primi del ‘900, e nonostante le pressioni di amici, colleghi, famigliari non si iscrive al Partito Fascista. Massone, sconsiglierà al figlio di seguire le sue orme, indicazione che sarà seguita alla lettera.

Peppino cresce circondato dall’amore dei genitori, lievemente viziato, ma i pochissimi ceffoni che prende se li ricorda, come quando porta a casa la pagella del primo trimestre in quarta ginnasio. «Arriviamo a casa e tiro fuori quella pagella che aveva tutti i fasci nella parte alta. Mio padre la guardò e restò ammutolito. Tra i 3 e i 4 un solo 6, ma in condotta». Il ragazzo però è sveglio e riuscirà sempre a evitare bocciature con recuperi in extremis: meglio evitare problemi a scuola, ci sono cose più importanti. Tra le cose importanti, emerge presto l’amore per una squadra dalla maglia a righe verticali blu e nere.

«I grandi affetti, le grandi amicizie, nessuno sa mai quando sono nati. Il giorno esatto, l’ora giusta non si ricordano, quando stanno per nascere nessuno è lì pronto con il blocchetto degli appunti».

Peppino Prisco

E però: «Stagione 1929-30. La domenica venivano a trovare i miei genitori i loro carissimi amici Pasquale e Antonietta Bussola. Io li chiamavo zii, anche se non lo erano. Una domenica di primavera arrivarono con un pacchetto di dolci Alemagna. Mio padre si scandalizzò: ‘Ma come, siete ospiti nostri e portate voi i dolci!’ Ma loro: ‘Eh no, oggi bisogna festeggiare. L’Inter ha sconfitto il Milan nel derby e noi in tali occasioni facciamo sempre festa’».

Nessuno può immaginarlo, ma quel 13 aprile 1930 è destinato a cambiare la storia, quella di Peppino come dell’Inter. I Prisco non sono tifosi, ci pensa “zio” Pasquale a portare Peppino al preistorico campo di via Goldoni. Amore a prima vista, con oltre duemila persone che gremiscono la tribuna per ammirare la genesi dell’Inter di Meazza. Ma a Peppino piace anche giocare. E in via Podgora, sede dell’abitazione e dello studio di famiglia, si gioca per strada.

Lui è il “padrun de la bala”, e questo gli dà il diritto a formare le squadre. «Ero proprio bravo, dribblavo tutti. Nessun residente protestava, tranne il figlio di un certo capitano che aveva inventato un dentifricio. Ci insultava dicendoci ‘Andate a studiare! Finirete in galera!’ Io gli rispondevo ‘Ma pirla, va’ a lavorare!’ molti anni dopo questo signore comparve in tv a pubblicizzare la Pasta del Capitano inventata da suo padre. Quando l’ho visto mi è uscito ad alta voce dal cuore: ‘Ma pirla, va’ a lavorare!Mia moglie mi chiese se ero diventato matto».



L’Inter si sposta all’Arena e Peppino è un fedelissimo, uno che non si fa remore a fuggire dai popolari: «Pagando due lire, il prezzo ridotto per i balilla, entravo nei popolari di curva, poi scavalcando le recinzioni passavo nei popolari normali, poi scavalcavo ancora ed eccomi ai posti centrali». Va allo stadio con un gruppo di sodali dei quali per carisma e capacità affabulatoria è indiscusso capopopolo. Gira ai compagni “Il Calcio Illustrato” che il padre gli regala ogni martedì.

La domenica si parte da via Podgora, circolare destra fino all’attuale Piccolo Teatro, poi a piedi fino all’Arena. Salvo i pochi abbonati, i biglietti si comprano allo stadio prima della partita. Al ritorno, per conoscere i risultati delle altre partite si corre al bar Vittorio Emanuele in via Orefici, che al piano superiore ha una sala biliardo dove ogni tanto capitava Meazza. Cinquanta centesimi in mano al barista ed eccoti servito un panino con il cotechino e un foglietto con i risultati. Gli anziani (dai trent’anni in su), commentano il camponato, e le osservazioni di quei navigati analisti per Peppino e i suoi amici sono l’autentica esegesi di quel che avevano appena visto.

Uno scorcio della Milano di una volta

Il primo vero scudetto che vince da tifoso è quello del ’38. Lui ha iniziato a fare le prime trasferte in corriera, a Modena, Bergamo, con il pranzo al sacco. L’Inter deve giocare a Bari l’ultima decisiva partita di campionato. Ottiene dai suoi il permesso di andare. Un sabato sera di maggio sale sul treno, il giorno dopo due gol di Frossi danno lo scudetto all’Inter. Peppino sul treno di ritorno è pazzo di gioia: «Ero molto felice, anche se non ho mai mangiato: non c’era il vagone ristorante e mi sono fatto due notti di viaggio in seconda classe dato che il vagone letto era fuori budget. Alle otto e mezza di lunedì mattina ero sul mio banco al Berchet».

La sua vita, come quella di tutti gli italiani, viene stravolta dagli eventi bellici. Gli studi di giurisprudenza devono aspettare, c’è una tragedia da affrontare assieme al mitico corpo degli alpini. La missione si chiama Operazione Barbarossa, la destinazione le gelide steppe russe. «Sono partito per il fronte russo il 17 agosto 1942, dopo la scuola allievi ufficiali alpini prima ad Aosta e poi a Bassano del Grappa. Divisione Julia, battaglione L’Aquila: eravamo 1600 alpini, 53 ufficiali, 380 muli. Siamo tornati in 159 alpini, 3 ufficiali e 12 muli, compreso Fusco, l’orgoglio di tutto il battaglione».

Ha vent’anni, è un sottotenente che deve comandare alpini più anziani, e si porta via un pallone. Viene imbastita una partita sulla steppa, ma il pallone purtroppo si rompe subito.

«Ho scritto subito ai miei genitori che me ne mandassero un’altro, ma dopo cinquant’anni sono ancora in attesa». Sul Don arriva la neve. Il 10 dicembre Peppino fa 21 anni diventando maggiorenne. Per regalo i russi scatenano l’offensiva, l’Operazione Saturno. Il suo battaglione viene caricato sugli autocarri per aiutare le divisioni Ravenna e Cosseria, verso il centro della tragedia, la zona di Selenyi-Jar. Il bollettino della Wehrmacht del 29 dicembre esalta il valore della Julia, l’unica citazione di truppe non tedesche in tutta la seconda guerra mondiale. Si spara, si gela.

L’uniforme di Peppino Prisco, al comando della divisione Julia, nella caserma di Prampero (Udine)

La posta non arriva, il cibo raramente e sempre ghiacciato. Per bere, si succhia la neve. Il 17 gennaio l’ordine di ricongiungersi a nord con la Tridentina e avviarsi, a corpo d’armata alpino riunito, sulle strade della ritirata. Dal Don a Shebekhino, dal 17 al 31 gennaio, 380 chilometri a piedi. Ma, oltre a freddo e fame, ci sono anche i russi. Gli alpini, per uscire dalla sacca, combattono undici battaglie, vincendole tutte. Il 26 gennaio, a Nikolajewka, l’ultimo grande sfondamento. A casa Prisco quel giorno sarà per decenni festeggiato più del Natale.

È finita, capisce che la tragedia è alle spalle quando usciti dalla sacca si trova a chiedersi «Madonna, chissà cosa avrà fatto l’Inter?».

A Brest-Litovsk, nel marzo ’43, durante la disinfestazione prima del ritorno a casa, vede un alpino con la Gazzetta in mano e la baratta per un librone Mondadori. Se ne pente subito: “L’Inter perde a Bologna e va al secondo posto”. Ci rimane male, ma vergognandosi un po’ si rende subito conto di quanto sia un vero privilegiato a potersi dispiacere. Oltre un terzo dei 300.000 soldati italiani dell’Armir non rivedrà la patria. 

«Si parla tanto della criminalità di Hitler, però la guerra era preparata nei minimi particolari. I tedeschi erano ben difesi dal freddo e anche durante la ritirata avevano il rancio caldo almeno una volta al giorno. Per noi italiani invece non c’era niente. Certo, non abbiamo avuto i campi di sterminio, ma anche questa disorganizzazione è stata una forma di criminalità». Dopo la guerra c’è da ricostruire una Nazione, e Peppino riprende i libri in mano laureandosi in giurisprudenza e divenendo avvocato. Ormai ha due fedi incrollabili: il corpo degli alpini (non si perderà mai nessuna adunata) e l’Inter, amore che adesso può coltivare con più costanza.

Peppino Prisco alpini
In primo piano l’Inter, sullo sfondo gli alpini. Il quadro degli alpini alla sua destra, dipinto da Giorgio Muggiani (l’inventore del logo dell’Inter) concilia le due fedi. Foto da Valdarno24

Va in trasferta, e spesso dopo le partite si formano capannelli di tifosi che discutono della Beneamata. Peppino è sempre in mezzo, e nota che un signore alto e allampanato sorride osservandolo discutere con tanta foga. È il ragioniere Aleardo Pasinetti, braccio destro del presidente dell’Inter Carlo Masseroni. «Ma perché non diventa socio dell’Inter?».

Peppino non se lo fa ripetere. L’ambiente societario è diviso, ma lui ci sa fare e, con abilità diplomatiche e proposte di riforme statutarie, riesce pian piano a ricomporre gli interessi. Il 21 ottobre del 1950 entra nel consiglio di amministrazione dell’Inter e ci rimarrà fino alla fine, per altri 51 anni: adesso Peppino è un tifoso da tribuna d’onore. Negli anni ’50 mette su famiglia e diventa uno degli avvocati più rampanti di Milano, l’Inter aggiunge in bacheca due scudetti, ma soprattutto viene rilevata da un ricchissimo petroliere di grandi ambizioni, Angelo Moratti.

I primi anni sono difficili, poi Moratti ha due intuizioni che cambiano il corso delle cose.

Ingaggia il giovane direttore sportivo dal Mantova, Italo Allodi, e convince a suon di milioni Helenio Herrera a sedersi sulla panchina nerazzurra. Si capisce subito che quello strano apolide guidato da grinta, mistica autoconvinzione, venalità, è la persona giusta. Al motto di taca la bala arriva lo scudetto del ’63, che offre all’Inter la sua prima partecipazione alla Coppa dei Campioni. Peppino è promosso vicepresidente, con il compito di accompagnare la squadra nelle trasferte europee. E in un crescendo rossiniano si arriva al 27 maggio, 1964.

Davanti ai nerazzurri, al Prater di Vienna, il leggendario Real Madrid di Puskàs, Gento, Di Stéfano. «C’erano almeno ventimila interisti, così tanti che persino le prostitute avevano aumentato le tariffe». Mazzola e Milani confezionano un trionfo storico. Al ritorno capitan Picchi esce dall’aereo brandendo la Coppa Campioni, accanto a lui, un raggiante Prisco saluta la folla. È l’inizio della Grande Inter, che vince tutto. Dal ’63 al ’66 arrivano tre scudetti, due Coppe dei Campioni, due Coppe Intercontinentali. E pazienza per uno scudetto e una Coppa Campioni lasciati rispettivamente a Bologna e Celtic.

Un’immagine indelebile per i tifosi nerazzurri

Nel ’68 Peppino diventa presidente dell’ordine degli avvocati di Milano, lo rimarrà per 14 anni, e Moratti cede l’Inter a Fraizzoli. Nel ’71 arriva lo scudetto, e nella seguente Coppa Campioni Prisco scende in campo in modo determinante per la sua amata squadra. Borussia Mönchengladbach-Inter. Verso il 30′ del primo tempo, sul 2 a 1, una lattina di Coca Cola colpisce la testa di Boninsegna, che sviene ed esce in barella. Si continua a giocare ma l’Inter non c’è più, perde 7-1. Dopo il fischio finale si apre un caso diplomatico, assieme a un’altra partita che si gioca nelle aule di tribunale con la Uefa. E qua l’Inter ha un fuoriclasse che scalpita di entrare in campo.

«Il giorno del processo la Gazzetta era uscita con venti pareri tecnici, tutti avevano previsto che l’Inter avrebbe perso. Invece al termine del processo di primo grado stabilirono che la gara veniva annullata».

Una grande vittoria che rappresenta un passo in avanti per l’immagine pubblica di Prisco, sempre più capopopolo di tutti gli interisti. Il ritorno diventa l’andata, e a San Siro l’Inter vince. Poi, nel secondo round: «Si giocò all’olimpico di Berlino. Ci andai con la sciarpa tricolore. Dall’anello superiore al posto dove stavo io con Artemio Franchi buttavano giù un sacco di mozziconi di sigaretta accesi. Andò tutto bene: la partita finì zero a zero e passammo il turno». L’Inter arriverà sino in finale, per arrendersi all’Ajax di Cruijff.

Gli anni ’70 passano senza grandi emozioni, a inizio anni ‘80 però Prisco, ormai uno degli uomini tra i più potenti di Milano, nel cda di Rizzoli e Banco Ambrosiano, deve sopportare il processo sul crac della potente banca legata al Vaticano. In primo grado prende otto anni, in appello sarà assolto, il procuratore capo Borrelli lo riabiliterà pubblicamente, giudicandolo “una persona profondamente onesta e per bene”. Il caso però impone le dimissioni da presidente dell’ordine degli avvocati. Nel 1983 Pellegrini subentra a un devastato Fraizzoli, e dopo ingenti investimenti nel 1989 arriva lo scudetto dei record.

Prisco intuisce che le cose nel mondo del calcio stanno cambiando, che non c’è più spazio per sentimenti e gestioni familiari, è tutto un enorme business intrecciato con la politica. Esprime considerazioni alle quali qualsiasi dirigente sportivo odierno non sopravvivrebbe: «Mi piacerebbe moltissimo vedere una partita in mezzo ai boys, mi si assicura che si vivono emozioni eccezionali, ma mi è impedito sia dall’età che dal ruolo dirigenziale, mi accontento di gioire per loro, a patto si comportino bene. Poi non tutti gli striscioni sono cattivi, una volta contro il Napoli comparve lo striscione “Inter Club Cristina Sinagra” (madre di un figlio illegittimo di Maradona), mi divertii moltissimo».



Altre considerazioni, trent’anni dopo, sono sinistramente profetiche: «La politica nel calcio ha raggiunto forme sempre più estese. Non che prima non ci fosse. Ma era più riservata. Invece adesso hanno capito che lo sport trasmette popolarità, qualche volta a buon mercato. E poi lo stravolgimento delle regole. È vero che cambia tutto e tutto deve cambiare. Ma sono terrorizzato, perché nel calcio un secolo fa hanno azzeccato queste diciassette regole-base, ci troviamo bene, e se lo rivoluzioniamo, rischiamo di distruggerlo.

Si comincia a parlare di spettacolarizzazione: hanno già detto che bisogna allargare le porte per fare più gol, poi magari introdurranno i tie-break come nel tennis, poi per le esigenze televisive americane penseranno all’idea di spezzare il gioco in quattro tempi di 25 minuti».

Peppino Pirsco

E ancora: «Faccio un paragone con gli scacchi. Le regole esistono da tempo immemorabile, ed è un gioco universale, che si pratica in tutto il mondo. In Russia mi portai un libro di problemi scacchistici, meno l’ultima pagina con le soluzioni, strappata per non cedere in tentazione. Giocando riuscii a comunicare con ragazzini sovietici che a scuola avevano lo studio degli scacchi obbligatorio. In ciò ci si capiva e trovai molto positivo questo fatto. Vorrei che il calcio resti una cosa certa con le regole certe: così è davvero un linguaggio sportivo planetario».

L’arrivo delle televisioni e di Berlusconi al timone del Milan, con conseguenti successi planetari, irrita Peppino, che capisce che l’Inter di Pellegrini non ha la forza economica né politica per reggere il passo del Milan e della Juventus del suo amico Gianni Agnelli. Perciò si mette in testa un’idea folle quanto geniale: riportare l’Inter alla famiglia che la rese grande. Massimo Moratti ricorda così quel lontano 1995: «Non posso dimenticare il giorno in cui, uscendo di casa, lo trovai fermo all’angolo ad aspettarmi: in dieci minuti mi spiegò che l’Inter attraversava un brutto momento, che bisognava immediatamente intervenire, ma aggiungendo che avrei dovuto farlo io.

In quei pochi minuti riuscì a raccontarmi tutto e a convincermi che avrei potuto fare qualcosa. Prisco fece tutto affinché la trattativa iniziasse e finisse come desiderava, organizzò gli incontri. Io mi trovavo in quelle classiche situazioni in cui c’è di mezzo un amico a cui fatichi a dire di no. Manca la sua intelligenza, ma anche la sua discrezione. Ti lanciava dei messaggi estemporanei che coglievi perché aveva la capacità di attecchire con poche parole. Ma se oggi lo trovassi all’angolo ad aspettare, cambierei marciapiede».



Un giovanissimo Zanetti, appena sbarcato in Italia, è stupito dal tripudio con cui Prisco viene accolto in ogni occasione dai tifosi. «Ma tu quanti anni hai giocato nell’Inter?» chiede l’argentino. Peppino, sorridendo: «Purtroppo non mi è stato possibile, alla tua età ero impegnato sul fronte russo». L’arrivo di Ronaldo una gioia che rimanda ad emozioni antiche, l’unico ad andare vicino all’antico idolo Meazza, di cui conserva sul comodino una foto incorniciata in mezzo a quelle dei suoi genitori. L’ultima grande gioia la Coppa Uefa 98, festeggiata assieme ai tifosi sugli Champs-Élysées.

Negli anni ’90 impazzano i salotti televisivi a base di calcio e belle donne, e Peppino diventa una delle star di Controcampo, ostentando la sua ironica verve politicamente scorretta. «Vorrei essere un dittatore che favorisce sconciamente l’Inter. Il mio vero sogno sarebbe arbitrare un derby: sarei bravissimo a fischiare quattro o cinque falli contro l’Inter a metà campo, facendo segno di no e minacciando l’estrazione del cartellino per poi dare subito un rigore appena uno dell’Inter cade nell’area rossonera. Il culmine sarebbe vincere un derby con un gol contemporaneamente di mano, in fuorigioco e a tempo scaduto».

Gliela si legge in faccia a Peppino, pure nella rivalità e nello sfotto più accesi, quella genuinità del calcio (e degli uomini) di una volta

La ferocia delle sue battute antimilaniste è storia nota. Figlia di un campanilismo autentico, remoto, sociale, un antagonismo che «Nasce quando si è della stessa città, si è in due, e le fortune dell’uno sono le sfortune dell’altro. Nasce sui banchi di scuola, anche se i compagni milanisti erano tutt’altro che antipatici». Un modo di vivere le proprie passioni in modo viscerale e totalizzante, da chi è capitato per sbaglio in tribuna d’onore, affumicando i malcapitati vicini di posto con le esalazioni dei suoi sigari.

«Se vado allo stadio, entro in trance. Un’ora prima della partita penso soltanto a quell’avvenimento, mi pulisco la mente».

Peppino Prisco

«Se mi metto a sentire la radiolina con gli altri incontri, lo faccio solo per non agitarmi troppo. È vero che non sono più nei popolari di curva come un balilla per due lire, sono in tribuna d’onore e purtroppo il mio tifo non è cambiato. Mentre gli altri si impongono una calma, un rigore che non corrispondono al sentimento interiore, io urlo, mi agito, esplodo, mi arrabbio. Arrivo a fine partita che talvolta mi sento più stanco degli stessi giocatori, perché si manifesta tutto lo stress che sento dentro.

E quando le cose vanno male, torno qui da solo, in questo studio immenso, in una stanza dove non si sente lo squillo del telefono, e crollo, dormo pesantemente per un’ora come se avessi preso un potentissimo sonnifero. Ma guarda che siamo tutti così. Se non trovi l’ambito della trasgressione, quello nel quale puoi dar sfogo alla carica di emozionalità e magari di frustrazione che ti porti dentro, poi non ritrovi la calma e la lucidità per far bene il tuo lavoro e trattare un po’ meglio le persone che ti stanno intorno e che ti vogliono bene».

Avrebbe voluto 48 ore di tempo prima di morire per organizzare le ultime cose, e anche per fare la tessera al Milan, così «se ne va uno di loro». Non le ha avute. Due giorni dopo il suo ottantesimo compleanno, il 12 dicembre 2001, un infarto lo riportò accanto i suoi commilitoni lasciati in Russia. La Curva Nord al primo derby seguente gli dedicò una coreografia: “il mio saluto eterno a voi, vermi dell’inferno”.

Peppino prisco coreografia

Non è un caso se in “C’è solo l’Inter”, l’inno che avvolge il Meazza prima e dopo le partite dei nerazzurri, non viene citato nessun giocatore, ma solo lo storico vicepresidente. La strofa che recita, citandolo, che “la Serie A è il nostro DNA”, viene sempre scandita con passione da tutto lo stadio. Sono ormai vent’anni che Prisco non c’è più, chissà cosa avrebbe detto del 5 maggio, dei derby di Champions del 2003, di Calciopoli, dei cinque scudetti di fila, del triplete, dei lugubri anni ’10, della risalita, di un’inaspettata finale  di Champions conquistata ai danni dei nemici più sfottuti. Si sarebbe divertito.

La grandezza di personaggi del genere si ricava dal senso di appartenenza, dal fatto che loro sono dalla tua parte e ti ricordano che hai scelto bene, nobilitando la scelta di campo che hai fatto da bambino, avvolgendola nel mito perenne. Verranno i trionfi, verranno i fallimenti. Ma ogni fede ha i suoi profeti, che la ispirano, la guidano, la rinsaldano. Profeti che rendono più dolce la vittoria e più sopportabile la sconfitta, perché, comunque vada, sai che loro sono al tuo fianco, e questo basta.

Peppino Prisco è stato, è, sarà, l’eterno guardiano di un credo che accomuna milioni di persone, legando le generazioni che si avvicendano in questa fede elitaria, fascinosa, disperata, arguta, volubile, spericolata. Una fede riassunta al meglio in poche parole nell’ultima intervista, proprio due giorni prima di morire.

«Una volta un suo collega mi ha detto: lei ha servito cinque presidenti dell’Inter. No, ho risposto, non è esatto: io ho cercato di servire sempre, e soltanto, l’Inter».

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