Come reagirebbe il pubblico calcistico alla vista di un arbitro senza capelli? Se lo chiedono alcuni dirigenti dell’AIA alla metà degli anni ‘80, nell’epoca in cui la rasatura non si è ancora consegnata alle mode. Un esperimento sociale in piena regola. La partita scelta per il test è Latina-Spes del campionato Interregionale (attuale Serie D). Dirige un arbitro calvo, per la prima volta: Pierluigi Collina della sezione di Bologna. Una grave alopecia gli ha strappato i capelli ad appena 24 anni.
È iniziato tutto una mattina come tante: i primi capelli rimasti sul cuscino, poi la caduta immediata e improvvisa. In due settimane Pierluigi non ha più capelli né peluria sul corpo. In quello stesso periodo uno dei suoi migliori amici sta seguendo un ciclo di chemio. Si crea un intreccio: la testa spoglia li unisce in un dolore impari, accompagnandoli nelle rispettive battaglie. Il suo amico non ce la farà: «Una situazione che mi ha fatto capire il valore delle cose».
Torniamo al test di Latina: «Non ricordo le partite di Champions ma questa la ricordo perfettamente», dirà Collina in una recente intervista a Sky. L’alopecia ha rischiato di compromettere una carriera arbitrale destinata a calcare vette olimpiche. «Pensare che il mio futuro potesse dipendere da un aspetto tricotico e non da una qualità in campo per me era un’assurdità», ricorda. La partita va come deve andare, i tifosi del Latina sorvolano l’aspetto fisico del direttore di gara. Esperimento miseramente fallito:
“Erano interessati più ai miei fischi che ad altro, li ringrazierò per sempre”.
Pierluigi Collina ha costruito la propria immagine al di là delle apparenze. «Ad un ragazzo che ha il mio stesso problema direi che la testa è bella anche senza capelli». Anzi, la sua pelata splendente come una sfera di cristallo tirata a lucido è diventata icona, emblema di fermezza, classe, decisione, successo. Bolognese doc, laurea con 110 e lode in Economia e Commercio, appassionato di basket e tifoso della Fortitudo. Le informazioni biografiche di Collina descrivono un uomo brillante, colto, capace di trasmettere le proprie competenze anche al di fuori del mondo del pallone.
Inizia ad arbitrare a 17 anni quasi per gioco, iscrivendosi alla sezione dell’AIA di Bologna. Lo nota il presidente Piero Piani, che farà di Pierluigi il suo figlio prediletto. Poi sopraggiungono l’alopecia e la testa spoglia. Per qualcuno diventa un problema: Collina viene fermato per qualche mese prima della partita Latina. Da lì spicca il volo.
Dai campi dilettantistici arriva il grande salto nel professionismo. La rincorsa alla Serie A termina il 15 dicembre 1991: Hellas Verona-Ascoli 1-0. Subito un cartellino rosso sventolato in faccia a Massimo Piscedda dell’Ascoli. Negli spogliatoi il designatore Paolo Casarin definisce “incoraggiante” il debutto di Collina, sottolineando la “disinvoltura tecnica” con la quale il fischietto bolognese ha diretto la sua prima partita in A. Collina aggiunge (all’epoca gli arbitri potevano rilasciare interviste dopo le partite):
«Dispiaciuto per l’espulsione all’esordio? Beh, Piscedda ha capito subito il gesto che ha fatto. Ha accettato di buon grado».
Altro che disinvoltura: personalità da vendere.
La voce ‘Pierluigi Collina’ è presente addirittura sul dizionario Treccani. Si legge: “Si è fatto notare per un temperamento deciso e carismatico”. Le brillanti direzioni arbitrali lo portano a sorvolare il palcoscenico nazionale. La sua immagine si trasforma ben presto in un’icona: Collina è più di arbitro. Non è solamente il ventitreesimo uomo a calcare l’erba del campo, ma molto di più: rappresenta una parte integrante del gioco, è uno degli attori protagonisti della partita. Il suo ruolo trascende dal mero giudice di gara e si proietta in una nuova dimensione.
Personalità, carisma e, ovviamente, quel sano cinismo necessario a fare di un arbitro un grande arbitro. Collina è stato inserito dal Times nella classifica dei 50 calciatori più cattivi nella storia del calcio. Pur essendo un arbitro
“entra in classifica – si legge – per l’aria da Nosferatu e lo sguardo inquietante”.
I suoi occhi cristallini scrutano meticolosamente ogni azione di gioco e relegano i calciatori a uno stato di quasi ‘sottomissione’ dinanzi all’autorità. Nessun estremismo da sceriffo o giustiziere. Collina è freddo, inflessibile, glaciale come il colore dei suoi occhi.
Due, tra i tanti, gli episodi che hanno edificato il mito e che permettono di comprendere al meglio la personalità di Collina. Il primo: Olanda-Repubblica Ceca, campionati europei del 2000. A metà campo contrasto tra Davids e Repka. Collina ammonisce il giocatore ceco, che si fionda a brutto muso sul collega olandese. Collina subentra nella zuffa spintonando per due volte Repka prima di urlargli contro “vai via!” con gli occhi e la bocca spalancati in un’espressione che ad alcuni tabloid britannici ha ricordato il celebre Urlo di Edvard Munch.
Momenti passati alla storia del football
La seconda perla della collezione arriva da un Inter-Juventus del 1997. I nerazzurri vanno in vantaggio con Ganz ma il fischietto annulla tutto dopo un conciliabolo con il guardalinee. Nessuno sa per quale motivo abbia fischiato. Dalla panchina dell’Inter piovono le proteste: Collina si porta davanti a Roy Hodgson e Giacinto Facchetti e, con naturalezza e freddezza disarmante, spiega le proprie ragioni. Il dialogo si conclude con una elegante stretta di mano tra Collina e Hodgson. A fine partita la moviola sentenzia: fuorigioco di Ganz di oltre due metri. L’aveva visto soltanto Collina.
Una personalità così spiccata da oltrepassare la linea di confine tra arbitro e calciatore. A testimonianza di ciò, oltre ai riconoscimenti’ della stampa mondiale, Collina è apparso persino sulla copertina del videogioco Pro Evolution Soccer nel 2003 e 2004. In PES 3 campeggia col fischietto in bocca mentre indica presumibilmente il dischetto del rigore: in un semplice gesto traspare tutto il suo cinismo. L’anno seguente condivide la scena niente meno che con Thierry Henry e Francesco Totti. Collina è questo: l’immagine di un calcio che si consegna alla modernità.
L’errore più grande che gli viene rimproverato è soltanto presunto. 14 maggio 2000, ultima giornata di campionato. Collina dirige Perugia-Juventus.
Il suo rapporto con l’errore è di quelli che si definiscono costruttivi. «Solo guardandoti allo specchio e capendo perché hai commesso un errore puoi crescere». Collina sembra imparare, non sbagliare. Anche se di errori, dice, ne ha commessi parecchi. L’errore più grande che gli viene rimproverato è soltanto presunto. 14 maggio 2000, ultima giornata di campionato. Collina dirige Perugia-Juventus, con i bianconeri in lizza per lo Scudetto insieme alla Lazio, contemporaneamente impegnata all’Olimpico contro la Reggina.
A Perugia viene giù un vero e proprio diluvio. Il campo del Renato Curi è un acquitrino. Dopo il primo tempo Collina sospende la partita per 71 interminabili minuti. Per qualche minuto viene interrotta anche la partita della Lazio, poi si gioca: i biancocelesti di Eriksson regolano i calabresi con un secco 3-0. Dopo un lunga tira e molla Collina fischia l’inizio del secondo tempo. Su un terreno torrenziale un gol di Calori regala il titolo alla Lazio e condanna i bianconeri. Le polemiche non si placano: quella partita, a detta di molti, non avrebbe dovuto giocarsi.
Le malelingue su quel finale thrilling di campionato vengono alimentate dalla futura confessione di Collina riguardo una sua simpatia giovanile per la Lazio tricolore del 1974. Si appassionò alla banda Maestrelli e stravedeva per Wilson: “Ho iniziato a giocare a calcio nel ruolo di libero, per questo mi piaceva molto”.
Per Collina quella di Perugia rappresenta l’unica falla in un sistema straordinariamente efficace. È stata proprio la sua statura da gigante ad aver attutito, meglio di chiunque altro, il colpo inferto dal pomeriggio del Curi. Quelle polemiche avrebbero lacerato chiunque ma non lui, non Collina; la sua arte prediletta è senz’altro quella della decisione.
“Coraggio di decidere, di prendere decisioni difficili, importanti, così importanti da mettere l’arbitro in condizioni di farsi notare, di diventare un protagonista, non il protagonista della partita”.
Un coraggio che si sposa inevitabilmente con la saggezza e la fermezza di un uomo destinato al successo. L’altro ingrediente magico è la saggezza, «nel senso che (un arbitro) non può permettersi di riflettere troppo prima di decidere», dice in un’intervista a La Gazzetta dello Sport. Se nella vita di tutti i giorni è impulsività, per l’arbitro è un pregio.
Qualità immateriali rapportare ai risultati sul campo. Come si quantifica il palmares di un arbitro? Dalle partite dirette, naturalmente. Collina non si è fatto mancare proprio nulla: finale olimpica ad Atlanta ‘96, finale di Champions League ‘99 e, dulcis in fundo, la finalissima della Coppa del Mondo 2002 a Yokohama, in un Brasile-Germania deciso da un’altra pelata celebre del calcio a cavallo tra i due secoli: quella di Ronaldo.
Sotto il cielo nipponico due i fenomeni in campo: Luis Nazario da Lima con la maglia verdeoro, Collina col fischietto in bocca. Trionferanno entrambi: Ronaldo solleverà al cielo la quinta coppa brasiliana, Collina certificherà lo status di migliore al mondo al termine di una direzione esemplare. Se mai ce ne fosse stato bisogno.
L’icona Collina continua a rappresentare un fattore di successo anche dopo il ritiro dal calcio. Capo della Commissione Arbitrale della UEFA prima dell’approdo alla guida della Commissione FIFA. Fautore del VAR, Collina ha preso per mano la classe arbitrale accompagnandola in una delicata fase di transizione in cui la sovranità del direttore di gara viene condivisa (e non sostituita, a detta sua) con l’ausilio della tecnologia.
Il decalogo di Collina verte su principi inderogabili. A scapito del talento che, come per ogni calciatore, arriva da lontano.
Con l’implementazione del VAR nel calcio Collina ha completato il percorso avviato anni prima, quando, prima e meglio di chiunque altro, ha condotto la figura dell’arbitro verso nuovi orizzonti. Preparazione, studio approfondito di squadre e giocatori, profonda conoscenza delle regole, capacità decisionale da manager di una multinazionale.
Il decalogo di Collina verte su principi inderogabili. A scapito del talento che, come per ogni calciatore, arriva da lontano. Per Collina è sbocciato in uno strano e assolato pomeriggio pontino, quando un arbitro senza capelli ha dimostrato al mondo che si può andare oltre. E arrivare molto lontano. Perché, come dice lui, “una testa è bella anche senza capelli”.
Firma nobile del giornalismo italiano (e non solo sportivo), Roberto Beccantini è il giornalista-tifoso più imparziale che conosciamo. Tifoso dai tempi di Sivori, per via dei calzettoni abbassati e del genio fumantino; imparziale, perché – sue parole – sincero col lettore.