Animato da un demone irrazionale ed estetico, viene oggi represso dalla tecnica.
Se l’arte comprende tutte le attività umane che portano a forme di espressione estetica, un linguaggio che integra studio della tecnica e abilità innate capaci di trasmettere emozioni, non si capisce perché questa sia così poco celebrata nell’automobilismo e nel motorsport in generale.
Ma non l’arte espressa dal design e dall’ingegneria di meravigliosi oggetti dotati di motore – come, per fare due esempi su tutti, la Ferrari 250 GTO o l’Alfa Romeo 33 stradale – il cui valore estetico è più che conclamato ai nostri giorni, tant’è che il mercato delle auto d’epoca segue pari pari le regole delle aste di opere. Bensì l’arte riconducibile al fattore umano determinante di questo spettacolo: il pilota che deve portare al limite lo strumento meccanico.
Se le gesta dei piloti non vengono dimensionate al loro valore più alto, quello cioè estetico ed artistico, si fa fatica a comprendere l’essenza dei motori e del motorsport. Si fa fatica, quindi, a interpretare le famigerate parole di Ayrton Senna, a capire il senso profondo del giro di qualifica che fece a Montecarlo nel GP dell’88, che è un vero e proprio manifesto del talento artistico applicato alla guida:
“Ero già in pole position, prima di mezzo secondo, poi di un secondo e andavo, andavo, andavo sempre più forte. In poco tempo ero due secondi più veloce di chiunque altro; stavo guidando istintivamente, ero in un’altra dimensione, in un tunnel, ben oltre la mia capacità razionale. In quel giorno mi sono detto: è il massimo che posso raggiungere, non c’è margine per qualcosa in più. Non ho mai più raggiunto quella sensazione da allora”.
Come se ci fosse stato un demone a guidarlo dal profondo. Una sensazione da lui provata e descritta anche quattro anni prima, sempre nel Principato, durante il Gran Premio dell’84 che segnò la sua carriera:
“Fu la prima esperienza diretta con Dio”.
Dunque “il filosofo” Senna, come spesso accade, ci fornisce le parole per declinare il momento della guida come momento supremo dell’intuizione divina e poetica, per dirla con Benedetto Croce, il momento catartico di purificazione. Il pilota nell’atto della guida diventa capolavoro come l’attore in scena a teatro. È così che può essere imbrigliato nell’apoteosi del proverbio popolare anglosassone “every car is a racing car”, perchè l’atto umano viene prima del mezzo meccanico. Gareggiare è dunque arte e sport nietzschiano assieme, piccolo ma enorme ludus umano, troppo umano, sovrumano.
Di questa prospettiva ne parla anche Carmelo Bene attraverso il filosofo Gilles Deleuze usando il tennis e il calcio come esempi, per spiegare come nello sport si possa celare qualcosa che va oltre la competizione e lo spettacolo:
“Un assist di Maradona è più interessante certamente di qualunque attimo di teatrante internazionale, va bene? O un colpo di Van Basten, o del Pelé di una volta! O di Edberg che, essendo il tennis, non può giocare al tennis e gioca addormentato in piedi come i cavalli. È straordinario”.
Come le gesta appena citate, così la guida di Nuvolari, di Jim Clark, di Sandro Munari, di Gilles Villeneuve, di Senna, di Colin McRae solo per citarne alcuni, fu arte prima di tutto. La scalata alla Pikes Peak di Ari Vatanen nel 1988, con la Peugeot 405 T16 danzante tra sterrati e strapiombi, è guida allo stato puro (e infatti ne fu fatto un corto cinematografico).
Oggi però il dominio della tecnica imbriglia l’arte del pilota, normalizzando lo spettacolo dei motori – il mantra ossimorico è “la sicurezza prima di tutto”. Sono apparse perfino delle auto da corsa senza pilota, guidate autonomamente da una centralina elettronica. L’unico vero risultato di questa tendenza è la distruzione silenziosa del motorsport, che sta perdendo la sua essenza artistica per adeguarsi all’utilitarismo contemporaneo.
L’immagine di copertina ritrae un quadro della collezione “Dinamica e motori” di Francesco Agnoletto