l'Italia è rimasta indietro anche nel motorsport.
“Senza soldi non si corre”. Questa è l’espressione tranchant più ricorrente per cassare le motivazioni della non rappresentanza italiana tra i piloti di F1. Un inesorabile rimando al denaro – origine e fine del tutto – a cui siamo abituati, ma che rimane semplicistico perché la realtà è più complessa. Il dato purtroppo rimane: nel 2022 nessuna bandiera italiana sventolerà al via della griglia di partenza più importante del mondo.
Certo, questo allarmismo potrebbe apparire ingiustificato, in fondo l’abbiamo avuto fino a poche settimane fa un pilota in Formula 1, Antonio Giovinazzi e certo la dominanza del denaro in questo sport fa parte dello status quo. Guardando ai dettagli e leggendo tra le righe, però, i segnali di una decadenza ci sono.
Al di là del suo valore tecnico, nelle poche stagioni che lo hanno visto al volante il pilota pugliese non ha mai avuto la reale possibilità di crescere, d’esprimersi al meglio e di trovare persone disposte a credere in lui, pur essendo in un “team italiano”. E ora si trova già ad avere un piede e mezzo fuori dal Circus. Perchè? Per vari motivi, pochi se non nessuno dei quali direttamente imputabili a sue responsabilità o al suo comportamento in pista o fuori. Semplicemente, Giovinazzi è entrato nel Circus, grazie a un accordo voluto da Sergio Marchionne, contando poco e se n’è andato perchè non contava più niente.
Perchè in F1 comandano i soldi e la politica – non la velocità – e l’Italia da corsa, se togliamo il marchio Ferrari, è debole se non inconsistente.
A sostituire Giovinazzi in Alfa Romeo è arrivato Guanyu Zhou, pilota dal profilo promettente e figlio di una nazione potente, in antitesi rispetto all’Italia, una pedina strategica importante non solo per il suo paese, ma anche per la visibilità che potrà dare ad Alfa sul mercato cinese, tra i più appetibili per i costruttori auto in piena eccitazione green (leggi elettrificazione della produzione). Sceglierlo significa anche rimpinguare le casse del team Sauber in un momento di difficoltà, visti i 30 milioni di euro di sponsor su cui il cinese può contare.
Argomenti che il piccolo, si fa per dire, Antonio semplicemente non poteva e non potrebbe offrire come nessun pilota con il passaporto italiano. Rimane la delusione del comportamento di Sauber nei confronti di Giovinazzi ma anche di Alfa Romeo (sebbene il marchio sia poco più di uno sticker da alternare dalla monoposto in pista ai modelli di serie) incapace di gestire la sponsorizzazione e il ritorno di una operazione del genere. Ma non è con codici morali e romantici che si possono analizzare questioni economico-stretegiche così complesse. Di sicuro adesso si apre la vita della seta per Alfa Romeo.
Secondo Mario Donnini su Autosprint, Giovinazzi è stato “eiettato fuori dalla F1 in modo non bello, non equo e non rispondente a criteri di meritocrazia e ai valori espressi in pista. E questo per lo sport italiano, per gli appassionati di casa nostra e per la stessa F1 tutta, è un danno immenso.”
Impossibile non essere d’accordo ma parlare di meritocrazia e di danno immenso per lo sport italiano ha ancora senso? In una disciplina che ha abbandonato la sua essenza per diventare sempre più simile al wrestling americano, i valori espressi in pista contano qualcosa? O meglio, a quali criteri corrisponde il merito nello sport dei motori? Se non si fissano bene questi concetti è facile andare perdere la bussola dell’analisi e rimanere sempre un passo indietro rispetto al contesto, un po’ come lo sceriffo Bell nel film “Non è un paese per vecchi”.
Seguendo una linea di ragionamento che fino a qualche anno fa sarebbe stata semplice, razionale e quasi banale, il merito nel motorsport è quello di essere i più veloci al volante e riuscire a dimostrarlo nelle categorie propedeutiche così da meritarsi un contratto nel professionismo. Ma quel che ieri era vero oggi non lo è più, come vuole il sacro progresso. E infatti non è più così. La conditio sine qua non – il merito – è avere a disposizione patrimoni personali, sponsor o altri asset, quantificabili in una montagna di denaro e una buona dose di raccomandazioni politiche. Questi sono i fattori determinanti, questo è il metro della nuova meritocrazia.
“E’ sempre stato così” è la risposta risolutoria che sta spopolando nel senso comune, ma anche questo semplicemente non è vero, o è vero solo in parte. Nel corso della sua storia il motorsport ha rappresentato come tante altre discipline un vero e proprio ascensore sociale, con il quale grazie alle proprie capacità, al proprio lavoro, al proprio merito si arrivava in alto. I soldi si facevano, non si portavano da casa, un ambiente liberale prima che classista. Non è più così e i motivi sono da ricercare nel mondo che cambia, nel bene o nel male, e in una cultura italiana che non ha saputo crescere, sintomo anche della posizione geopolitica del Belpaese.
Politicamente non si scopre certo oggi il nostro ruolo inconsistente, con la paternità del motorsport da sempre intestata a inglese e francesi, la mafia franco-anglosassone che non a caso ha sempre comandato tutti gli organi di governance del motorismo internazionale, con la fresca novità dell’arabo Mohammed Bin Sulayem che apre a un nuovo ordine internazionale.
I due attori nazionali che potevano godere di una certa potenza strategica stanno perdendo terreno negli ultimi anni: il primo, la Federazione (ACI) gestisce da anni con grande fatica la permanenza del GP di Monza nel calendario di Formula 1 e il grosso delle risorse sono usate per quel dossier, senza alcun investimento in un progetto serio e concreto per i giovani talenti senza valigia – tralasciando lo specchietto per le allodole ACI team Italia. Il secondo attore è Ferrari che da quando ha perso Montezemolo prima e Marchionne poi, sotto la gestione Binotto-Elkann sembra ai minimi storici, e non a caso sta ricorrendo alla figura di Jean Todt per recuperare terreno sul piano politico. Questa soluzione rimane un punto di domanda.
Nel frattempo, per un pilota orfano di costruttori, scuderie e federazione nazionale non rimane che l’iniziativa strettamente privata. Peccato che nel contesto globale esistano grosse barriere all’ingresso e asimmetrie economiche, a confonto delle quali il pilota privato italiano assomiglia molto al Sordi borghese di Mario Monicelli, piccolo piccolo. Magnati internazionali che possono contare strutturalmente su una ricchezza spropositata (zero virgola % della popolazione mondiale), Stati o aziende parastatali, come il Venezuela con la petrolifera PDVSA o il Messico con TelMex, alcuni figli d’arte, rendono il confronto al pari di un Davide contro Golia.
E’ nel rapporto tra investimenti, visione strategica e politica che l’Italia è rimasta indietro anche nel motorsport. Già di per sè in crisi profonda, non è più una nazione per piloti. La tendenza è un lento ma inesorabile decadimento strutturale della nostra smisurata cultura automobilistica, dell’artigianalità che ne è derivata, dello sviluppo umano e sociale che ha rappresentato. Anche qui, l’Italia non è più padrona del proprio destino e non riesce a guardare ad altro se non ai fasti del passato di cui è in un certo modo anche romantica prigioniera. Come lo sceriffo Bell nel film dei fratelli Coen: “Mi è sempre piaciuto sentir parlare di quelli dei vecchi tempi. Non ne ho mai perso l’occasione. Uno non può fare a meno di paragonarsi a loro, di chiedersi come avrebbero fatto loro al giorno d’oggi.”