«Non designa forse la parola tèchne una qualità o uno stato della mente?» Così Platone interroga i suoi interlocutori nel “Cratilo”. Tutte le arti e i mestieri antichi avevano questo in comune: richiedevano che l’artigiano sviluppasse un’abilità, una disposizione mentale e tecnica finalizzata ad usare strumenti e materiali.» *
A distanza di secoli, in un garage sulla Via Aurelia di Roma, due ragazzi guidati da una passione viscerale per il surf hanno fatto proprio questo termine. «Tutto ciò che so fare con le mani me lo ha insegnato mio nonno. Fin da piccolo mi ha mostrato come usare qualsiasi tipo di utensile. E’ grazie a lui che ho assimilato le conoscenze base da artigiano per iniziare a lavorare sulle tavole.»Riccardo Orrù, classe 1992, ci racconta le origini della sua avventura lasciandosi guidare dai ricordi. Con le gambe a penzoloni, seduto sulla struttura in legno all’interno della quale si diverte a modellare le sue creature, prosegue, «La tavola uscita da questo laboratorio a cui sono più affezionato è proprio quella a cui stavo lavorando quando nonno è venuto a mancare, la mia bric, da bricconcello, come era solito chiamarmi.» Il sorriso che avvolge il suo volto vale più di altre mille parole. Al fianco di Riccardo siede Federico Ciampini, classe 1993, che scherzosamente tiene subito a definirsi «Un semplice garzone di bottega.» Federico ha iniziato da poco a prendere dimestichezza con le tecniche di shaping. Rispetto al compagno di surfate è un novellino e quindi finora si è occupato solamente di riparazioni e piccoli lavori di dettaglio.
Insieme formano una realtà chiamata West End Surfboards.
«E’ nato tutto per gioco 3 anni fa. Inizialmente facevamo le tavole solo per noi. Dopo un anno di esperienza però tra i nostri amici ha preso piede un passaparola che ci ha portati ad aprire le porte del garage. Ora la nostra produzione ammonta a circa 8 tavole l’anno, tutte rigorosamente personalizzate e shapate a mano», spiega Riccardo che sottolinea come alla base della filosofia che anima il suo piccolo lab ci sia «La volontà di migliorare senza l’aiuto di alcun macchinario, anche a costo di dover ricominciare da capo la lavorazione buttando delle tavole.» Ma chi è stato il grande ispiratore di questo sogno? «Si tratta di Matt Kazuma, un signore che vive dall’altra parte del mondo, alle Hawaii. Lavora a mano le tavole da 30 anni senza aver mai utilizzato macchine a controllo numerico. E’ il migliore in assoluto. Vederlo all’opera tramite i video che carica su Instagram ci sprona quotidianamente a migliorare. Sarebbe bello un giorno poter partecipare agli stage che organizza nel suo laboratorio.» Il caldo romano di inizio estate si appiccica prepotentemente alla pelle mentre chiacchieriamo assorti, con i rumori degli scooter e delle macchine che escono dai box a farci da sottofondo. «In Italia, specialmente nel Lazio, è diverso. In questo ambiente ognuno tiene i segreti del mestiere per sé: non c’è condivisione. All’estero c’è confronto sia sulle tecniche di shaping che sulla stessa creazione di utensili volti a migliorare la performance di lavorazione. Una vera e propria comunità che qui ci sogniamo!» L’amarezza nelle parole di Riccardo è palpabile.
Ci incuriosisce poi sapere qual è l’iter di progettazione di una tavola da surf, il giovane mastro bottegaio allora si aggiusta la visiera del cappello all’indietro e prende fiato. «Innanzitutto bisogna partire dalla persona. Chi si rivolge a noi deve essere sincero al cento per cento, e la nostra bravura nella primissima fase sta proprio nel riuscire a capire se la persona stia dicendo la verità o meno rispetto alle sue qualità da surfista. Poi da lì bisogna capire che tipo di onde vuole cavalcare e in base a quello decidere il modello di tavola da adottare. Quindi si procede nel decidere la forma e la larghezza del nose (la punta ndr), la larghezza del tail (la parte inferiore ndr), come è disposto il baricentro della tavola e poi in base a questo si iniziano a studiare le misure», nel frattempo si accende una sigaretta, segue una breve pausa per poi riprendere. «Chiaramente ci sono delle caratteristiche che valgono per tutte le tavole. I rail (i lati ndr) ad esempio sono fatti con la stessa tecnica più o meno. Senz’altro i rail di una shortboard dovranno essere più affilati e taglienti di un fish o una tavola rétro ma comunque la base è quella, cambia soltanto la rifinitura.» Inizia a girare una bottiglia d’acqua tra le mani dei presenti, quantomai necessaria. «Considerate tutte queste variabili, l’obiettivo è quello di designarli una tavola a pennello. E’ un po’ lo stesso ragionamento che si adotta con le camicie su misura per intenderci. Finora ci siamo riusciti. Tutti quelli che sono usciti da qui sono rimasti soddisfatti.» Riccardo quindi aggiunge, «Ci manca ancora il test di un surfer dalle super qualità ma la tavola a cui stiamo lavorando in questo periodo arrichirà il quiver (parco tavole ndr) di un ragazzo davvero forte, che ha avuto modo di divertirsi su qualsiasi tipo di onda, e quindi finalmente avremo un riscontro anche ad alti livelli.»
Il passaggio successivo è d’obbligo, dalla progettazione si volta pagina per affrontare la lavorazione. «Una volta raccolte tutte le informazioni possibili, queste vanno trasferite sul computer per capire come distribuire il volume, le curve e i litri d’acqua sulla tavola. Fatto questo, si appende il progetto su carta nella stanzetta e si inizia a lavorare il blocco vergine di polistirolo fino ad arrivare allo spessore richiesto. Nel progetto, la tavola è divisa in sezioni, in quanto chiaramente questa è caratterizzata da più spessori oltre che da una particolare inclinazione e curvatura. È come fare un ritratto, con una pialla al posto del pennello.» Ci sono però dei punti più delicati a cui fare attenzione puntualizza Riccardo, «I rail sono le parti fondamentali di una tavola, in quanto connettono il surfista all’onda quando sta a parete. Senza dubbio il processo di rifinitura dei rail è quello più estenuante in quanto bisogna controllare di continuo la lavorazione. E’ qui che si vede quanto è affinata la sensibilità dello shaper.»
Ci appare evidente come il processo di creazione di una tavola sia lungo e tortuoso. «Una volta fatti i rail, bisogna ricontrollare le misurazioni e solo dopo si passa alla laminazione. Va quindi srotolato sul polistirolo un panno di fibra di vetroresina composita e una volta laminate le due parti, il passo che porta alla sovrapposizione del panno, pazientemente bisogna attendere che la tavola si asciughi.» Entriamo dunque nell’ultima fase di lavorazione. «Arrivati a questo punto, va posta sulla tavola una resina dalla funzione protettiva e impermeabilizzante. Una volta asciugatasi definitivamente, la tavola va carteggiata e dopo aver fatto i buchetti per il leash e le pinne è pronta per essere consegnata nelle mani del cliente. In tutto questo però è passato praticamente un mese.»
Ascoltato con grande attenzione il racconto dell’intero processo, realizziamo quanto impegno certosino ci sia dietro a questo lavoro: competenze, sensibilità e passione vanno a formare l’imprescindibile bagaglio di uno shaper. Riccardo e Federico tengono però a precisare, «Abbiamo ancora un sacco da imparare. Continueremo a mettere l’anima in quello che facciamo spinti dalla voglia di surfare e far surfare con tavole che rasentino la perfezione.» Prima di lasciare i ragazzi alle loro mansioni, gli chiediamo un parere sulle prospettive della scena italiana. «Se vivessimo solo di questo, moriremmo di fame. L’artigianato è l’essenza della nostra nazione eppure risulta essere un settore inesorabilmente in declino, su tutti i livelli. Se acquistassimo consapevolezza delle nostre potenzialità potremmo diventare un’eccellenza mondiale anche nella manifattura delle tavole da surf, ne siamo straconvinti.»
Ora è davvero arrivato il momento di salutarci. Un pomeriggio di fatica e sudore attende i membri della Wes, poi un volo per andare a far festa ad Ibiza. Bottegai sì, ma del terzo millennio.