Birre, rabbia, fame, stanchezza. E la gioia finale.
Io e il mio socio abbiamo subito notato che l’Ichnusa delle 6.30, al terminal del Marco Polo, aveva un sapore diverso dal solito: più maltato, pareva quasi un’Adelscott. Avevamo già bevuto un paio di Bud in macchina, 40 minuti prima. Il protocollo da trasferta europea esige un costante rifornimento di carburante, e un viaggio per Porto che prevede uno scalo a Parigi e il giorno dopo a Lione non è uno scherzo. In aereo accanto a noi troviamo un raccapricciante gruppetto composto da madre di mezza età al primo volo con due figli al seguito, davanti una loro amica che rifletteva:
«beh, andare e tornare in giornata da Parigi come facciamo noi non è mica male, alla fine ho visto che si poteva fare, costa così poco…»
davanti a tanta idiozia mi scorre un brivido sulla colonna vertebrale, e per non sentire altre cazzate cerco di dormire condannando le mie cervicali alla mannaia del boia travestito da sedile del signor EasyJet. Al De Gaulle altre due birre. Si iniziano a vedere i primi interisti, al bancone conosciamo alcuni tizi di Trieste sulla cinquantina. Uno è amico di Denis Godeas, il suo compare ha tatuato sul polpaccio i trofei coppa Uefa ’94, Coppa Italia e Champions 2010, tutte finali cui era presente. Invidia.
Il volo fila in perfetto orario, arriviamo a Porto all’una e mezza. Molti gli adesivi neroblu in aeroporto. Prendiamo la metro in superficie per raggiungere la città, passiamo davanti numerose catapecchie in mezzo al verde, hanno un’aria di incurante sciatteria mitigata da uno scenario para bucolico. Arriviamo davanti all’albergo a quattro stelle designato per il ritiro biglietti. I tifosi aspettano in coda nel parcheggio, la fila è immensa. C’è anche tale Andrea Baccan, meglio noto come Pucci, comico dal passato ultras e a giudicare dai numerosi selfie ancora piuttosto in voga tra i tifosi nerazzurri.
La coda è davvero lunga, c’è chi ha passato un’ora e mezza prima di mettere la mano sui biglietti.
Ripensando alla facilità con cui li prendemmo a Liverpool c’è quasi da bestemmiare, e iniziamo a capire che la giornata sarebbe stata più complessa del previsto. Decidiamo di far sbollire la coda, e dopo aver preso altre sei birre in un alimentari là accanto e delle caramelle gommose che saranno l’unica cosa che masticherò fino alle due di notte, riprendiamo la metro per andare all’Airbnb. Di Porto conosco essenzialmente tre cose: il celebre vino omonimo, mia antica passione di gioventù, la squadra di calcio e Sara Sampaio. La città in sé però non è male, quasi venti gradi e tanto sole, e inizia a salirmi una certa rabbia perché capisco che non riuscirò né a pranzare né a farmi un paio d’ore a bere birre seduto al sole.
La rabbia mi porta a bere, perciò a sudare. Il nostro Airbnb è a due passi da Avenida dos Aliados, una piazza nel centro di Porto che la Nord ha designato come ritrovo per il corteo. C’è un po’ di tensione preventiva, i portoghesi a Milano hanno menato due tizi di un Inter Club, segno che non distinguono tra ultras e civili, e inoltre circa mille interisti hanno biglietti per settori del do Dragao diversi da quello riservato agli ospiti, e anche se la cosa sembra risolta con l’allestimento di una zona attigua al nostro settore, c’è più di qualche dubbio a riguardo: dubbi che saranno purtroppo confermati.
Davanti casa becchiamo due col biglietto per la tribuna «eh, bel casino, se non ci fanno entrare ci tocca vederla in un bar magari e non posso neanche esultare, vengono fuori più casini che non allo stadio…» «ragazzi tranquilli, state con la curva e vedrete che in qualche modo si risolve» «eh speriamo bene dai ci vediamo dentro». Prendiamo un taxi per tornare all’albergo dei biglietti, il tassista tifa Porto ma simpatizza anche Inter per via di Mourinho e allora mette a tutto volume canzoni varie, da Pazza Inter ai cori della Nord, non rispettando precedenze, semafori rossi, facendo il pelo a bici auto pedoni: un vero tassista, insomma.
In albergo c’è un po’ meno coda, ma passa quasi un’ora prima di mettere la mani su una busta con il nome del club che contiene due biglietti non nominali per il settore ospiti. Altro taxi e raggiungiamo il ritrovo della curva. Sono le cinque, e Avenida dos Aliados è stracolma. È un tripudio di birre, cori, bandiere. C’è anche chi trova il momento per degustare sostanze di vario genere. Ore 17.10 parte il corteo. Siamo molti e compatti, c’è gente di qualsiasi genere, dall’ultras più navigato agli anziani e famiglie con bambini. Cori vari e battimani, quando sfiliamo sotto uffici e hotel di lusso insultando Porto e i suoi abitanti la gente sorride a metà tra il divertito e lo schifato.
Il do Dragão è a 40 minuti di camminata, ma ci arrestiamo davanti la stazione della metro e le cose peggiorano. La calca è opprimente, la polizia schierata davanti l’entrata scagliona gli ingressi. Siamo circa duemila, si va per le lunghe e gli animi si scaldano. Io e il mio socio, pur essendo stati nel primo troncone del corteo, dobbiamo aspettare. Guadagniamo una posizione che dovrebbe garantirci il passaggio, ma invece si apre un piccolo varco alla nostra destra.
Me ne accorgo appena in tempo ma non riesco a intrufolarmi, a differenza di un tizio che riconosco come il mio vicino di posto nella trasferta di Cremona. Quel consumato cinquantenne, faccia caravaggesca, pizzetto e capelli lunghi, salta con agilità da furetto in mezzo a due poliziotti proprio quando la celere sta per chiudere il varco. Schiva una manganellata saltellando come un goblin verso il vagone urlando insulti e bestemmie ai poliziotti accompagnando con gestacci vari. Niente da fare, restiamo ancora un po’ nella calca.
Intorno alle 18.15 si apre un varco centrale, e riusciamo a passare. Nella ressa spingo la persona davanti a me verso un poliziotto. Correndo verso il vagone vedo con la coda dell’occhio che viene raggiunto da una manganellata, ma riesce a correre via. Mi dispiace per lui, ma la cosa più importante è essere sul vagone, che parte alla volta dello stadio tra cori assordanti. Il clima è avvelenato, cantiamo a squarciagola battendo le mani sui vetri della metro, insultando i portoghesi ad ogni fermata. Arriviamo davanti al do Dragão alle 18.30 in punto. Capiamo subito che qualcosa non va.
C’è una fila enorme che si snoda per tutto il tunnel che conduce all’ampia scalinata che porta al pre filtraggio. Ci saranno circa duemila persone, e continuano ad aumentare. Cercando inutilmente di dribblare un’enorme pozza di piscio ristagnante incrocio una faccia nota della curva che, con la dedizione di un missionario gesuita, prova a risolvere i problemi di alcune persone con i biglietti per la tribuna. Nel tunnel, complice il tramonto, c’è una luce particolare, esaltata dalle pareti di piastrelle verdine che ci stringono a migliaia nella speranza di poter raggiungere e salire quella scalinata.
È una situazione che diventa via via sempre più opprimente e pericolosa.
Di tanto in tanto partono cori spontanei, come un accorato “portoghese nomade”. Viene acceso anche un fumogeno rosso, le cui esalazioni si mischiano a quelle di alcuni spinelli. Si avanza a centimetri, intorno alle 19 riusciamo a guadagnare l’inizio delle scale. Siamo nella parte a ridosso del muro, il che non so se è un bene o un male in caso di effetto Hillsborough. C’è chi, non riuscendo a trattenersi, urina sul muro. Man mano che, pianissimo, si avanza, arriva sempre più gente. «Non ce la facciamo. Entriamo a partita iniziata» dico sconsolato. Il mio socio è più ottimista di me. Arriviamo quasi alla fine della scala, fuori si è fatto buio.
Dal muretto alla mia sinistra s’intravedono le teste di alcune persone appollaiate in cima al cordolo, che vengono subito insultate in quanto ritenute portoghesi. Purtroppo invece sono interisti a cui è stato vietato l’ingresso. Giunti davanti al cordone di poliziotti e stewart dobbiamo esibire il biglietto. Se c’è scritto “visitante”, ovvero settore ospiti, possiamo procedere verso l’ingresso del settore. Altrimenti, con la marzialità di una SS addetta a smistare i detenuti, si viene fatti accomodare in un area transennata poco oltre la scalinata, guardati a vista dalla polizia. Noi abbiamo il biglietto giusto e oltrepassiamo il gruppone di disperati.
Appena prima del tornello passo accanto a un tizio dell’Inter addetto a risolvere quel genere di problemi, che alle urla disperate della gente bloccata risponde con un laconico «eh io ho fatto tutto il possibile». Gli ringhio addosso che il suo possibile non è abbastanza, segue una raffica di bestemmie che aiuta a passare il tornello nonostante le diffidenze tra lo scanner e il mio biglietto. Passata la seconda arrivo all’ingresso del settore, ma prima di entrare mi sporgo evedo il gruppone sotto sequestro. Non pensavo fossero così tanti, per documentare lo scempio scatto una foto che inoltro a un po’ di persone e che, dopo essere pubblicata da Contrasti, scoprirò essere stata ripresa da Fanpage ed Eurosport – ci avessero citato, tra l’altro.
Alle 19.30, a due ore dalla fine del corteo, entriamo nel settore ospiti. Siamo tutti a dir poco incazzati, eppure non ci rendiamo del tutto conto di quanto siamo stati fortunati. Continua ad arrivare gente, la maggior parte ha il biglietto per il settore ospiti, altri sono fortunati imbucati da altri settori. Nei giorni seguenti verranno fuori le cose più assurde: gente col biglietto per il settore ospiti che è rimasta fuori, chi è riuscito a varcare i cancelli fingendosi inglese. Le finalità del Porto erano chiare: trattarci come peggio non si poteva e lasciare fuori più gente possibile.
Il do Dragão è uno stadio splendido, il settore ospiti è in cima a una tribuna circondato da una rete nera che crea un effetto gabbia del tutto in linea con la pessima atmosfera generale. Da dietro la curva opposta a quella dei Dragoes noto con orrore che c’è un manipolo di gente ferma ai cancelli. Per loro possiamo solo pregare. Per i ragazzi in campo, però, oltre alle preghiere serve un tifo sontuoso. Noi siamo là per quello e non deludiamo. Sono in un’ottima posizione, a metà del settore ospiti, nelle prime file. La partita inizia e il copione è subito chiaro. Intorno alla mezz’ora si fa strada in me una via di mezzo tra la convinzione e la speranza: “finisce 0-0”.
Non ho il coraggio di dirlo a voce alta, fatico a dirlo anche me stesso. Il tifo sale di volume, ad andare per la maggiore è un nuovo coro che nei momenti topici viene ripetuto come un mantra. «Peeeeer quella gente che/aaaaaama sooltaaanto tee/Internazionale devi vincereeee». Sulla fine del primo tempo dietro di noi arriva una coppia bresciana, rimbalzata dalla tribuna. Lui si direbbe una persona a modo, un giovane quadro dirigenziale, lei una bella neo quarantenne divisa tra palestra lavoro d’ufficio e cene con amiche. E persone a modo lo saranno certamente nella vita, ma sugli spalti, inviperiti dalla situazione generale, sono forse i più rancorosi di quello spicchio di stadio, non lesinando insulti di nessun tipo ai giocatori del Porto.
Durante il secondo tempo è dura. Non faccio un pasto vero da oltre 24 ore, ho bevuto solo birre nelle ultime 15. La testa inizia a scoppiare, e urlare a squarciagola non aiuta. Prego con tutto il cuore che si chiuda nei 90 minuti, perché in caso di supplementari rischierei l’ictus. Alla ripresa, sulla nostra destra sale in cattedra uno dei capi della Nord a dirigere l’orchestra con maestria degna di Abbado e il livello del tifo aumenta ulteriormente. La seconda metà del secondo tempo è sofferenza vera, ma sembra proprio che qualcuno lassù abbia detto quarti di coppa. Accompagniamo i salvataggi di Dumfries e i pali e le traverse del Porto e le parate di Onana urlando sempre di più.
Ci guardiamo tra noi, ci sono solo facce stravolte e arrabbiate, quando s’incontra lo sguardo di qualcun altro si canta con ancor più convinzione.
C’è una connessione silenziosa con Beppe Bergomi nella tribuna davanti. «Tienilaaaaa tienila lìììì Romee…no cazzooo! Falcialoo! Falcialooo!! Oooohhh, è finitaa!! Fischia bastardooooo fischiaaaaa!!» e alla fine il triplice fischio arriva sul serio. Per due o tre secondi nel settore ospiti si rifiata dopo un liberatorio urlo al cielo. Poi si riprende a cantare, a ringraziare i ragazzi e con ancor più foga a sbeffeggiare i portoghesi. L’ultimo loro regalo di giornata è tenerci per un’altra ora nella gabbia. La sfruttiamo per conoscere i fondatori di alcuni primordiali Inter Club che rammentavano con commossa nostalgia «quella finale di Coppa Campioni del ’72 a Rotterdam, poi andammo col pullman ad Amsterdam a comprare videocassette porno e poi in Svizzera per acquistare orologi».
Metro e via a casa. Ci stendiamo mezz’ora, poi usciamo a cercare del cibo ma ben tre posti ci rimbalzano avendo appena chiuso la cucina. Ci facciamo una birra in Praça Ribeira ammirando l’iconico ponte Luiz I e le luci della città che si riflettono sulle placide acque del Duero. Prendiamo un taxi e andiamo al McDonald, l’ultima spiaggia: ci infiliamo dentro e addentiamo i nostri meritatissimi panini. La giornata è finita, l’Inter è ai quarti di Champions e noi abbiamo messo nel cuore un’altro grande ricordo.
La mattina dopo ci svegliamo alle 8.30 per girare un minimo Porto prima di partire. Arriviamo a un bar per fare colazione, accanto a noi c’è Tancredi Palmeri per la rassegna stampa di Sportitalia, iPhone su un treppiede per la diretta, spremuta caffè e brioche. Sfoglia giornali portoghesi raccontando quel che i locali dicono della partita. «Tanc, ma qualcuno ha scritto della vergogna di come ci hanno trattato?» «solo uno ragazzi, giusto un trafiletto».
Facciamo due passi e arriviamo davanti la cattedrale che domina la collina a ridosso del Duero, dalla quale si ammira un gran panorama. Un mendicante, ce ne sono tanti a Porto, ci chiede insistentemente in italiano qualche moneta. Scendiamo per le strette e ripide stradine in pietra. Prendiamo la prima birra di giornata e l’ultima in Portogallo, la beviamo al sole davanti al bar della sera prima. Missione compiuta, ora si torna a casa.
Il taxi ci lascia in aeroporto, appena apriamo le porte troviamo Pucci seduto su una panchina con un paio di amici. Ci sediamo sulla panchina accanto per rifiatare prima del volo. Pucci e sodali iniziano un antico gioco di strada, puntando tranche da venti l’una lanciando monete sul marciapiede in una sorta di gara di bocce. In coda all’imbarco troviamo Caressa, che appare invecchiato, e Bergomi, con il quale ci facciamo una foto. Prima di salire a bordo scrollando i feed di Instagram scopriamo che una bandiera dei Super Dragoes è passata nelle mani della Nord, e una sensazione di appagata giustizia ci accompagna fino a Lione.
Appena atterrati raggiungiamo l’iconica stazione progettata da Calatrava e ci infiliamo nel tram che ci porterà in centro. La differenza tra la periferia della seconda città francese e quella di Porto è notevole, a livello etnico ed estetico. Arriviamo in place Bellecour, quarta piazza più grande di Francia, e ci imbattiamo nella manifestazione di protesta contro la riforma delle pensioni. A manifestare c’è l’intera galassia della sinistra francese.
Camioncini muniti di enormi casse sparano canzoni a ripetizione, la gente ha l’aria di divertirsi un mondo tra balli, fumogeni, slogan, spinelli. La statua di Luigi XIV, protetta da un quadrato divisorio, osserva perplessa i manifestanti sotto di sé. Dalla spalla del re pende uno striscione con scritto “Macron roi de l’inaction”. Non c’è che dire, in Francia hanno talento e passione plurisecolari per questo genere di cose.
Oltrepassiamo il ponte sull’imponente Rodano e ci sediamo in un bar dal nome italiano per un paio di birre, servite da un cameriere sui sessanta calvo e sdentato con la felpa del Napoli. Dopo aver attraversato un quartiere che non avrebbe sfigurato a Tunisi o Algeri torniamo in stazione. Davanti a noi, sul tram, un manager lombardo sui cinquanta dall’aria trendy mangia le sue pesche tagliate a pezzi in un vasetto di plastica e si sfoga al telefono «devo cambiare, tornare in Italia, riappropriarmi delle mie radici, e tu come stai, viaggi molto?» alterna inglese e francese in altre due chiamate, e io mi chiedo quanto tempo fa si è condannato all’apolidismo.
È giunto il momento di tornare a casa, non prima di assaggiare un’ultima birra nel bell’aeroporto lionese commentando i video dell’escursione dei langravi di Francoforte in terra partenopea. Poco prima delle 22.30, dal finestrino alla mia destram scorgo la laguna veneta. Un’altra trasferta andata, un’altra tacca sul cursus honorum. La stanchezza è immensa, l’orgoglio di aver girato da vincitori mezza Europa lo è anche di più. Arrivato a casa faccio una doccia e corro a letto. Appena metto la testa sul cuscino capisco che non avrà grandi difficoltà ad addormentarmi. L’ultimo pensiero che attraversa il mio circuito neuronale prima del riposo sono due semplici parole. “Alla prossima”.