Ritratti
26 Ottobre 2023

Primo Carnera, l'eroe buono d'Italia

Alla scoperta dell'uomo più forte del mondo.

Il 29 giugno del 1967 moriva nella sua Sequals, laddove era nato il 25 ottobre del 1906, Primo Carnera, colui che fu definito “l’uomo più forte del mondo”. Figlio di Giovanna Mazzon e Isidoro Sante Carnera, operaio mosaicista, già la sua infanzia fu contrassegnata da misure fisiche straordinarie, anche conseguenza di una disfunzione all’ipofisi che evidenziava i tratti tipici dell’acromegalia, con ingrossamento del cranio e delle estremità del corpo.

A nove anni Primo era già alto 1,50; a sedici, 1,90; giunto alla maggiore età, raggiunse i 2,06 d’altezza per 126 kg di peso, cinquanta centimetri di circonferenza del collo e scarpe numero cinquantadue.

In tutta la zona pedemontana che circondava Sequals si diffusero voci e leggende su questo miracolo della natura, sulla sua incredibile forza unita ad una sorprendente bontà d’animo. E sì perché Primo, buono, lo era davvero, di quella bontà del cuore tipica delle persone semplici e genuine, sempre pronte ad aiutare il prossimo con improvvisi slanci di generosità. Dopo qualche anno di elementari Primo, che conosceva poche parole di italiano e si esprimeva solo in dialetto friulano, divenne garzone da un falegname, mentre nei momenti liberi si industriava in altri lavoretti per i quali riceveva in cambio generose razioni di latte e polenta, necessarie per placare la sua inestinguibile fame.

Gli anni dell’adolescenza furono segnati dall’estrema povertà, basti pensare che riuscì a possedere un paio di scarpe solo dopo averle sfilate a un soldato austriaco trovato morto. Finita la guerra emigrò quindi in Francia. È il 29 giugno 1920: una data, quella del 29 giugno, che scandì il tempo della sua vita. Carnera si aggregò alla comunità italiana di Le Mans, dove abitavano dei parenti, dopo aver dovuto lasciare il paesino, gli amici e, soprattutto, l’amatissima mamma, alla quale era legato da amore profondo.

Oltralpe lavorò come muratore ma la sua mole, che non passava certo inosservata, venne notata da Adolphe Ledudal, proprietario di una baracca di spettacoli ambulanti. Ledudal lo convinse ad unirsi alla sua fiera in cambio di vitto ed alloggio. Primo accettò. Qualsiasi cosa, pur di smettere di spaccare pietre dall’alba al tramonto. Nel luna-park Carnera si esibiva come uomo forzuto, colui che sfidava chi fra il pubblico era disposto a mettere a repentaglio l’incolumità fisica per duecento franchi. Un fenomeno da baraccone, sostanzialmente. O per dirla meglio un ‘artista del circo’.

Primo Carnera in posa

Con la fiera di Ledudal girò le città con il soprannome di Jean “Le Terrible”, e in quelle lunghe trasferte la sua unica compagnia era Fauquette, un bastardino con cui Primo passava tutto il tempo a disposizione. In una di queste esibizioni Carnera fu notato da Paul Jounée, “Le grand Paul”, un modesto mestierante del ring, che lo convinse ad abbandonare gli spettacoli da fiera. Jounèe segnalò l’italiano a Leon See, un ex pugile diventato manager. E il furbo See, intravedendo nel gigante italiano una potenziale fonte di investimento, decise di farne un pugile professionista, dando l’abbrivio alla folgorante carriera pugilistica di Carnera.

Le estenuanti sedute in palestra con See scolpirono il suo portentoso ma grezzo fisico, che ne uscì plasmato dopo i pesanti allenamenti in cui imparò i rudimenti della boxe. Arrivarono i primi incontri di una certa difficoltà con Franz Diener, Marcel Nilles e Jack Stanley, tutti battuti senza eccessivo sforzo. A Londra divenne una vedette dell’Alhambra, il famoso music hall. Con un compenso di mille sterline Carnera esibì se stesso per due settimane e si invaghì di Emilia, una cameriera di Soho per la quale perse letteralmente la testa, e che riuscirà a spillare all’ingenuo friulano 4000 sterline, inventandosi una promessa di matrimonio non mantenuta. Poi, finalmente, arrivò il momento di tentare l’avventura oltreoceano.

Carnera sbarcò a New York l’ultimo giorno dell’anno del 1929. Erano passati esattamente due mesi dal rovinoso crollo della borsa di Wall Street, che aveva mandato sul lastrico innumerevoli famiglie e creato milioni di disoccupati.

Sul suolo americano Leon See fece combutta con Bill “Broadway” Duffy, losco gestore di locali notturni, e Walter Friedman. Appartenevano entrambi al “Sindacato”, l’organizzazione criminale controllata dalla mafia ebraica e da “Cosa Nostra” di Lucky Luciano. Tutte le scommesse sportive passavano dalle loro mani. See, Duffy e Friedman “accomodarono” i primi incontri di Carnera, facilitandone l’ascesa. Tutto avvenne sempre all’insaputa del pugile friulano, che nella sua ingenuità, quasi infantile, si credeva invincibile. Arrivarono gli incontri con George Godfrey, Paolo Uzcudum e Jim Maloney, prima del match maledetto.

Il 10 febbraio 1933, nella sua corsa al titolo di sfidante del campionato del mondo dei pesi massimi, Carnera affrontò nella semifinale Ernie Schaaf, sconfiggendolo per ko alla tredicesima ripresa. Pochi mesi prima Schaaf aveva subito danni irreversibili al cervello dopo un selvaggio match con Max Baer, e non avrebbe dovuto avere l’autorizzazione a salire nuovamente sul ring. Dopo il ko inflittogli da Carnera Shaaf riprese conoscenza per pochi minuti in ospedale, per poi addormentarsi per sempre.

Le immagini dell’epoca documentarono la disperazione del pugile italiano che, dopo aver inferto il colpo del ko all’avversario, cercò di prestare i primi soccorsi al pugile tedesco nella paura di avergli procurato gravi lesioni. Ai funerali Carnera inviò una corona alta 1.80 composta da rose, violette e orchidee, accompagnata da un commovente biglietto. Il pugile friulano pensò a questo punto di non salire mai più su un quadrato. Fu confortato a lungo dagli amici ma, decisivo, fu un telegramma ricevuto da Lucy: era la madre di Schaaf, che lo incitava a proseguire la carriera comunicandogli simpatia e qualsiasi mancanza di rancore.

Quel incontro, letteralmente, maledetto

Poi finalmente, sempre il 29 giugno ma del 1933, arrivò la sua grande occasione, e il pugile friulano non se la lasciò sfuggire. Primo Carnera affrontò il detentore del titolo Jack Sharkey, il terribile pugile di origini lituane chiamato “il killer di Boston”, lo sconfisse per ko alla sesta ripresa, e si laureò campione del mondo dei pesi massimi, primo italiano nella storia del pugilato. Appena rientrato in camerino scrisse subito un telegramma alla madre: “Debbo tutto a te mamma”. E con spirito tutt’altro che individualista, dichiarò:

«Non ho voluto vincere per me ma per il Duce e per l’Italia».

Nell’immaginario collettivo di una nazione, Carnera diventò “l’uomo più forte del mondo”, l’idolo delle folle. E il fascismo mise il trimbro sull’eroe, eleggendolo a simbolo della propria propaganda. Il 22 ottobre di quello stesso anno venne organizzata una giornata-evento a Roma, nella quale Carnera difese il fresco titolo contro la vecchia conoscenza Uzcudum. Nello scenario di Piazza di Siena, stipata da più di sessantamila persone entusiaste, andò in scena una celebrazione del regime, che esaltò il suo eroe mostrando i muscoli a tutto il mondo. Sul palco d’onore, Benito Mussolini assistette alla vittoria del gigante friulano sullo spagnolo al termine di quindici combattute riprese.

Dopo il bagno di folla di piazza di Siena, ancora il ring. E, ancora una volta, il Madison di New York. Quella volta, il coraggio non bastò contro il provocatore Max Baer. Carnera fu atterrato per dieci volte, e per dieci volte si rialzò. L’undicesimo atterramento, però, gli risultò fatale. Era il 14 giugno 1934. Poi combattè a Buenos Aires, dove sconfisse l’idolo locale Vittorio Campolo. Ma ormai la sua carriera volgeva al declino e la sconfitta con l’astro nascente Joe Louis, il 25 giugno 1935, decretò, di fatto, la fine della sua avventura pugilistica.

Carnera con la cintura di campione del mondo dei pesi massimi, il primo italiano a riuscirci

Quindi arrivò Hollywood – Carnera interpretò diciassette film, da “Mr Broadway” del 1931, a “Ercole e la regina di Lidia”, del 1959 – il ritorno in Italia, la guerra e la paura, quella vera, però. Non sul ring ma in strada, in una fredda mattina del 1944, quando a causa dell’amicizia con Mussolini fu riconosciuto colpevole da un tribunale improvvisato e condotto davanti a un albero per essere fucilato. Venne salvato all’ultimo minuto dal capo dei partigiani, convinto dalla moglie del campione.

Poi, ancora l’America. E quella lotta, il catch, che gli risultò così congeniale e gli ricordò i tempi di Ledudal e del luna park. Carnera ebbe un’autentica rinascita nel catch, la lotta libera americana. Anche grazie all’avveduto aiuto della moglie, che gli fece da agente, riuscì a guadagnare quel denaro che i furbi manager dei tempi della boxe gli avevano quasi del tutto sottratto. Con il denaro messo da parte dal 1946 al 1960 potè infine realizzare il suo sogno: permettere ai figli Umberto e Maria Giovanna di studiare negli Stati Uniti.

«I pugni si danno, i pugni si prendono. Questa è la boxe, questa è la vita. E io nella vita ne ho preso tanti di pugni, veramente tanti…ma lo rifarei, perché tutti i pugni che ho preso sono serviti a far studiare i miei figli».

Primo Carnera

Carnera riuscì anche quindi ad aprire un ristorante, a Glandale, in California. Ma, soprattutto, diede dimostrazione della propria generosità con numerose donazioni per le opere di assistenza in Italia. Tornando al lato sportivo, anche il catch lo acclamò campione del mondo. Accadde il 18 febbraio 1957, a Melbourne, dove sconfisse l’idolo locale che si faceva chiamare “King Kong”.

Arrivarono poi le pubblicità e le comparsate televisive: famosa una sua partecipazione al programma condotto da Mario Riva, Il Musichiere, nell’insolita veste di cantante. Infine la malattia. Una cirrosi epatica implacabile. E la decisione di tornare in Italia, per morire nella sua Sequals. C’era un caldo afoso, quel giovedì 29 giugno (ritorna la data) 1967. Alle 10,47 il suono delle campane annunciò la morte di Primo Carnera. E non solo Sequals, ma un intero Paese pianse, la scomparsa dell’uomo più forte del mondo, ma ancor prima del suo Gigante buono.

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