Scambio di epistole digitali con Giuseppe Ranieri, autore Ultras.
Traendo spunto dal libro “Ultras-Parole e suone dalle curve” di cui è coautore, abbiamo rivolto alcune domande a Giuseppe Ranieri, classe ’86, laureato in Storia contemporanea a Padova e redattore di “sportpopolare.it“. Nel suo curriculum vitae però, spicca anche la direzione della fanzine della curva della sua città, in cui vanta una militanza quasi ventennale. Le risposte, schiette e dirette, presentano una verace istantanea del movimento Ultras nostrano, tanto complesso quanto variegato. Sebbene sia impossibile offrire una visione univoca di una realtà così eterogenea, sia a livello di differenti città, sia all’interno delle singole curve, dalle parole di Ranieri si possono cogliere i tratti distintivi della sottocultura che anima gli spiriti di migliaia di giovani lungo tutto lo Stivale, da oltre cinquant’anni.
Potresti brevemente commentare i cambiamenti più significativi avvenuti nel panorama italiano del tifo organizzato, in questi ultimi venti anni?
Guarda, non sono un amante delle generalizzazioni, anche perché ognuno ha inevitabilmente un osservatorio parziale e anzi penso che proprio quando si è cominciato a poter generalizzare in maniera compiuta quanto avveniva nelle curve nostrane, sia iniziato una sorta di declino o quantomeno di omologazione all’interno del movimento ultras.
Tuttavia è innegabile che l’ultimo ventennio abbia delle caratteristiche ben delineate a partire dall’abbattersi delle forme più estreme e illogiche di repressione, ma a parte questo, che talvolta è stato usato quasi con fine autoassolutorio da diverse piazze, poiché è sempre più facile dare la colpa ai fattori esterni tenendosi lontani dall’autocritica, ci sono anche altre novità importanti quali la progressiva estinzione dei gruppi storici e tradizionali a vantaggio di formazioni più “snelle” o comunque identificabili con più difficoltà – d’altronde è la stessa direzione verso cui corre la nostra società, vale a dire l’atomizzazione a scapito di ogni forma di discorso collettivo o comunque mutuale.
Anche i termini numerici sono mutati drasticamente e sebbene gli ultras, seppur decimati, siano rimasti ai loro posti, quello che manca spesso è l’apporto dei tifosi medi che non hanno la stessa propensione a fare sacrifici per seguire la squadra in giorni e orari poco agevoli, decisi dall’onnipotenza della TV. Si potrebbe dire che, almeno per quello che riguarda i contesti che non sono metropolitani, mentre prima tutti a loro modo si sentivano ultras, o comunque i gruppi erano un patrimonio cittadino, ora spesso e volentieri si registra uno scollamento tra gli ultras stessi, che assumono una figura di “avanguardia” quasi elitaria, ed il resto della tifoseria.
Questo è stato il periodo in cui è cominciato un percorso di auto-comprensione di tutte o quasi le curve italiane, (che sia stato fatto in maniera corretta o meno è un altro paio di maniche…) quello in cui si è sdoganato definitivamente il concetto aleatorio di “mentalità” che, mio modesto parere, ha senso solo se collegato all’azione, altrimenti diventa solo aria fritta ed un mero esercizio retorico per chi è in cerca di lodi; infatti probabilmente la ricerca della mentalità a tutti i costi ha prodotto diversi effetti collaterali, come ad esempio (ma non vorrei essere frainteso) la sovrarappresentazione dello scontro e la sua esasperazione.
Inoltre, visto che ormai anche l’estetica purtroppo ha il proprio peso, si può dire che anche da noi si è venuto a creare un vero e proprio look da stadio. Mi spiego meglio: mentre in passato i frequentatori delle curve portavano il loro stile anche allo stadio, adesso c’è uno stile di abbigliamento che è universalmente riconosciuto da curva e che conta su dei marchi ben precisi e che probabilmente ha contribuito in maniera decisiva a creare il grosso equivoco su quel casualismo troppo spesso scimmiottato in cui viviamo al giorno d’oggi.
Se adesso vedi un gruppetto di ragazzi con – per esempio – sciarpe aquascutum, cappelli burberry, giubbotti Stone Island e felpe Lyle & Scott, sai che al 99% sono ultras o presunti tali, ergo l’idea originaria di passare inosservati è andata a farsi benedire, ma qui si aprirebbe un altro discorso su “essere” e “apparire” che rischierebbe seriamente di finire in una sequela interminabili di frasi fatte.
La morte di Raciti e l’omicidio di Gabriele Sandri hanno segnato il 2007 come “annus horribilis”. È eccessivo affermare che i conseguenti provvedimenti legislativi abbiano partorito una “generazione post Ultras”?
Chi ha vissuto quel periodo militando in qualche gruppo, non penso dimenticherà mai il senso di smarrimento o di incertezza che si viveva allora; anch’io per un po’ ho pensato che fossimo davvero arrivati al capolinea e che probabilmente gli ultras non si sarebbero mai più ripresi. Fortunatamente mi sbagliavo! Mi è capitato più volte di paragonare gli ultras, soprattutto per quel che riguarda il periodo in questione, a una coda di lucertola: all’epoca era stata recisa, eppure continuava a muoversi e ad agitarsi, proprio come chi continuava a mandare avanti la baracca mentre aspettava di capire di che morte morire.
Ma, a un certo punto la coda alla lucertola ricresce, magari diversa, però ricresce, così come è successo nelle curve, in cui sicuramente le cose sono cambiate, ma non era affatto scontato che si sarebbe superato quello tsunami, eppure a distanza di oltre un decennio le cose vanno generalmente meglio; quindi non ti saprei dire se ci troviamo davvero difronte a una “generazione post Ultras”.
Sicuramente in tanti contesti, almeno alla base, è venuta su una nuova generazione cresciuta dall’inizio alla fine in questo contesto e continuare a fare paralleli col passato aureo spesso si rivela un esercizio autoreferenziale di scarsa utilità che alla fine non farebbe altro che legare ulteriormente le ali alle nuove generazioni, appesantite da paragoni improponibili con un passato che non tornerà mai tale e quale. Grossomodo ogni decennio (giusto per semplificare grossolanamente) ha avuto un ricambio generazionale avvenuto spesso e volentieri in maniera traumatica e con recriminazioni da parte delle generazioni che hanno dovuto cedere il passo per i più svariati motivi nei confronti dei “nuovi” di turno che puntualmente stravolgevano il messaggio originario, quindi anche da questo punto di vista nulla di nuovo, ma d’altronde questo succede più o meno in tutti i campi della vita.
Secondo l’autore e sociologo Valerio Marchi, da sempre le curve rappresentano una veritiera cartina tornasole dell’intera società. Che cosa ci raccontano i settori popolari riguardo la gioventù odierna?
Visti i dati che emergono ed i prezzi al di fuori di ogni logica, magari avessimo ancora dei settori popolari! A parte le battute, sicuramente le curve odierne pur rappresentando ancora, volenti o nolenti, una zona liberata e in cui può ancora esistere una scala di valori non sottomessa all’ideologia del “produci-consuma-crepa”, sono state investite in pieno dall’ “ideologia della fine delle ideologie” e, a parte poche oasi felici, hanno perso buona parte di quello slancio antisistemico che le ha sempre connotate, anche per via della ristrutturazione sociale in chiave neoliberista che stiamo vivendo e che pretende la normalizzazione di tutte le zone potenzialmente conflittuali come sono appunto le curve.
Non ho mai provato particolare simpatia per i “soloni” che pretendono di raccontare intere generazioni da un comodo piedistallo, ma ci sono dati di fatto incontrovertibili: l’avvento dei social network, la riduzione delle distanze, ha creato le condizioni per una potenziale massificazione e per la messa in discussione di ogni peculiarità o particolarità, rendendo definitivamente l’ultras una sottocultura tout-court appannaggio giusto degli “addetti ai lavori”.
Sulle nostre pagine digitali abbiamo denunciato la deriva criminale che si sta affermando sempre più nella condotta di alcune curve. Al di là delle infiltrazioni malavitose all’interno del “Sistema Italia”, quali sono le tue considerazioni sul tema?
Uno dei valori dell’ultras e anche della mia terra è l’omertà, pertanto preferisco non pronunciarmi nello specifico, non fosse altro che avendo avuto la possibilità di conoscere e confrontarmi con militanti di diverse curve – amiche e anche nemiche, provinciali e metropolitane con una visione politica, ma anche della vita, affine o totalmente divergente dalla mia – ho visto, sentito e vissuto cose a cui non avrei mai creduto e adesso non mi sorprendo più di nulla e non mi fido delle apparenze. L’unica cosa che mi sento di affermare è che proprio perché le curve sono una cartina tornasole della società moderna, si è venuto a creare un meccanismo (tenendo sempre presenti le famose oasi felici) in base al quale in tante situazioni un gruppo al centro delle curva è anche l’espressione di equilibri extracurvaioli che ormai si fa molta fatica a lasciare fuori dallo stadio.
Di conseguenza tante volte i gruppi, o comunque le leadership si ritrovano a dover accettare dei compromessi che poi si ripercuotono anche su quella base tenuta al di fuori da certe dinamiche che è realmente genuina e costituisce il comune denominatore del panorama ultras italiano. E poi, consentimi di dire che, essere “un bravo ragazzo” è sostanzialmente diverso dall’essere ultras e non basta avere un cappellino o una sciarpa per diventarlo. L’ultras nasce nelle strade, dove la contiguità con il crimine o comunque con la delinquenza è quasi inevitabile; al di là delle scelte di vita personali e private, sta a lui saper trovare il giusto equilibrio etico e, come dicevo in precedenza, la fine delle ideologie, il trionfo dell’individualismo e del dio denaro in questo contesto, di certo non aiutano.
“Chi diviene ultras sceglie scientemente di mettersi ai margini della legalità. Contemplando lo scontro fisico con avversari e sbirri come una delle prime priorità fisiologiche, oltre a quello connaturato di seguire e sostenere la squadra ovunque e comunque”. (1)
A differenza di Francia, Germania ed Inghilterra, i gruppi Ultras italiani non hanno mai saputo fare fronte comune nell’opporsi a problematiche quali il carobiglietti, lo spezzatino televisivo e la Tessera del tifoso. È stato solo insuperabile ed atavico campanilismo, oppure scarsa lungimiranza?
Penso che si tratti di un mix di entrambi i fattori: il campanilismo, il “celodurismo” che ancora imperversa in parecchie curve ha prodotto dinamiche, quasi da beghe di condominio, e ha impedito di sviluppare quella lungimiranza necessaria per poter proseguire quei percorsi che erano stati avviati all’inizio di questo millennio e che avevano provato, pur facendo qualche errore “strategico” a creare una linea comune di autotutela, salvo poi risvegliarsi quando ormai era troppo tardi e la frittata era già fatta; senza contare che inevitabilmente gli ultras di quelle grandi squadre che da soli muovono indotti economici non indifferenti, hanno sviluppato inevitabilmente una percezione diversa di quanto stava accadendo rispetto a piazze dal bacino d’utenza minore che avevano problematiche inevitabilmente diverse. D’altro canto, è innegabile che chi coltiva tutt’ora una visione clandestina dell’essere ultras, difficilmente avrebbe accettato di “istituzionalizzarsi” e snaturarsi, preferendo aspettare il proprio destino qualunque esso sia da uomini liberi, in piedi fuori dalla riserva e senza compromessi.
Dalla guerra nei Balcani alle odierne proteste in Algeria, passando per le Primavere Arabe, la Grecia e Turchia, gli Ultras sono stati protagonisti della Storia, nel bene e nel male. Che ruolo può ricoprire il tifo organizzato nel rapporto tra potere e popolo?
È innegabile che, con tutte le differenze possibili dei vari contesti, le curve rappresentino tutt’ora una delle più importanti, se non la principale “palestra di ribellione” per i giovani e per il popolo in generale, per una serie di motivazioni che riescono a superare le varie specificità, per la ridotta attenzione da parte delle autorità di controllo, la possibilità di ritrovarsi in aggregati numerici di un certo spessore e allo stesso tempo di poter tastare il polso allo stato e alla sua forza, per le prove generali di eventuali insurrezioni future. Probabilmente ciò dipende sia dal patrimonio simbolico e identitario che le squadre di calcio assumono soprattutto in quei Paesi ancora in via di sviluppo dove il mercato non ha ancora allungato i propri tentacoli sul calcio (anche perché oggettivamente mi riferisco a campionati poco appetibili) e anche dal fatto che l’ultras nasce e viene ancora idealizzato come ribelle oltranzista e antagonista che è a prescindere contro il potere precostituito.
La gestazione avvenuta durante le proteste giovanili del 68′ rappresenta il tratto distintivo del movimento Ultras del nostro Paese. Credi che questo legame con le piazze sia ancora vivo oggigiorno ?
Una delle obiezioni che le persone “responsabili e mature” ci muovono è che al posto di dannarci l’anima per seguire una squadra di calcio e di fare gli scontri per essa, dovremmo scendere in piazza per le “cose serie”. A dimostrazione di quanto sia fallace questa obiezione, fatta da chi per stile di vita ha l’ “armiamoci e partite”, basterebbe partecipare davvero alle mobilitazioni, sia locali che nazionali, per rendersi conto che spesso e volentieri, le parti più attive di esse siano composte da ultras o comunque da persone che nelle curve ci sono nate e cresciute e hanno imparato a saper fronteggiare le cariche della celere e i momenti di tensione in generale. D’altronde è innegabile che tanti militanti delle curve vuoi per ragioni esterne (repressione, pay-tv e finanziarizzazione del calcio), o per ragioni interne alle dinamiche delle varie curve, abbiano mollato la militanza ultras negli stadi per fare gli ultras nella vita, realizzando quel famoso “Ci togliete dagli stadi, ci ritrovate nelle strade!”.
Una volta te ne rendevi conto facilmente, perché quando c’erano manifestazioni con “momenti di vitalità”, bastava trovarsi nei posti giusti al momento giusto per vedere che buona parte di quelli che stavano davanti avevano felpe diabolik, o passamontagna dei rispettivi gruppi ultras, ora che le tecniche repressive si sono affinate e anche il minimo indizio potrebbe rovinarti, non ci sono più questi segni distintivi, ma qualcosa mi dice che gli ultras sono sempre lì ai loro posti nei cordoni delle prime file; il problema, semmai, riguarda principalmente la depauperazione della “piazza”, ma paradossalmente riguarda gli altri, cioè coloro che non hanno mai messo mai piede in una curva e non hanno attivato i recettori per la ribellione.
Quale futuro si prospetta all’orizzonte per il movimento Ultras nostrano?
Questa è una bella domanda, a cui non so darti una risposta precisa e magari non ho neanche tanta voglia di cercarla, preferisco ancora vivermela “fino a che mi regge la pompa”, dato che per le analisi si è sempre in tempo. Certo, ci sono dei segnali inequivocabili che a mio avviso portano verso il definitivo abbandono dei gruppi storici (almeno nell’accezione tradizionale) che ormai sono come i dinosauri in attesa dell’asteroide, appannaggio di un avvicinamento di un modello più “informale”.
Ma quello che conta è che c’è una generazione in rampa di lancio e che in tante piazze si è già presa le responsabilità che gli competono, con a fianco quegli “anziani” che hanno saputo intercettare e interpretare i cambiamenti che si stanno susseguendo a ritmo frenetico. A loro, pur con tutte le loro contraddizioni, va un grosso in bocca al lupo e l’invito a non farsi travolgere dalle critiche delle generazioni precedenti, perché se da un lato è vero che i fasti del passato sono probabilmente irripetibili, d’altro canto decidere di fare l’ultras al giorno d’oggi con tutto quello che a livello repressivo si rischia è davvero un atto di coraggio.
“Era quel periodo in cui davamo queste prove di forza, per instaurare in tutta la nostra gente l’am amore principalmente per lo striscione, per il gruppo e poi per la squadra. Pensare che adesso per quanto lo ami per quel pezzo di stoffa a costo di aver messo in discussione più volte la mia incolumità e la mia libertà, probabilmente è una delle principali armi a doppio taglio che ci ritroviamo; è il principale punto di riferimento per le guardie, quando vogliono colpire nel mucchio, non so quanto convenga ancora restarci ancorato”. (2)
Il cosiddetto “Sport popolare” può rappresentare l’ultima via di fuga di fronte allo sport ed alla società moderna?
Dipende dal concetto che si ha di sport popolare: se per esso si intende un meccanismo di riappropriazione del diritto di accesso allo sport o dell’azionariato popolare a prescindere dal livello a cui esso venga praticato, mi sembra una delle pochissime alternative fattibili per combattere la mercificazione del calcio, i presidenti “padri-papponi” e la “sostituzione sociale” che sta avvenendo nei nostri stadi,che nei progetti dei padroni del vapore dovrebbero diventare dei nuovi teatri in cui i tifosi dovrebbero trasformarsi in clienti. Ma è un percorso iniziato generalmente da poco e ancora lungo da affrontare in cui sarà necessario una prova di maturità da parte di chi vi si vuole approcciare.
Come è mutato nel tempo il significato dell’impegno politico per i gruppi nostrani?
Beh, anche in questo caso, penso che non si possa fare affidamento a un modello unico, ma che ogni piazza abbia le sue peculiarità e le proprie vicende e poi andrebbe fatto un distinguo tra la militanza politica tout-court e l’ostentazione “carnevalesca” , a tratti sfacciata, di un ideale che forse è la cosa che dà più fastidio a chi in quegli ideali continua a crederci giorno dopo giorno e sconfitta dopo sconfitta.
Allo stesso tempo in questi ultimi anni si sono sviluppati fenomeni di prepolitica che allo stesso tempo presuppongono anche scelte di campo e la capacità di prendere posizione, come il riuscire a sensibilizzare le rispettive curve su temi particolari come le vittime degli abusi in divisa, al netto delle mode, ha rappresentato sicuramente un salto di qualità sia per l’autoconsapevolezza, che per la capacità di aggirare i divieti attraverso canali comunicativi informali; il tutto in un momento in cui, pur non avendo riscontri ufficiali (di per sé abbastanza difficili da avere quando si parla di ultras), annusando l’aria l’impressione è che mai un ministro degli interni abbia goduto di così tante simpatie all’interno delle nostre curve, o comunque di una parte ben delineate di esse; potrebbe essere uno dei principali cortocircuiti degli anni futuri.
Concludiamo soffermandoci sulle tue esperienze personali. Potresti raccontare la/le esperienze più significative della tua militanza in curva? Quali insegnamenti ti ha/hanno trasmesso?
Probabilmente uno dei miei più grandi “problemi” è di vivere la curva e l’essere ultras come una grande metafora della vita in generale. Al di là di quelle fatte da piccolino con mio padre, la mia prima trasferta coi gruppi organizzati risale a vent’anni fa e l’ultima, con ogni probabilità, è della domenica precedente alla pubblicazione di questa intervista (almeno per il momento), quindi nella mia curva (la Curva Massimo Capraro di Catanzaro) ci sono cresciuto e sono diventato uomo, nel vero senso della parola, non di quella persona compiuta e realizzata imposta dagli idealtipi contemporanei, ma quell’insieme di virtù e vizi, pregi e debolezze che inevitabilmente sviluppi durante la tua crescita umana e morale. Sarà sicuramente retorica trita e ritrita, ma io in curva ho costruito alcuni tra i rapporti più duraturi e importanti della mia vita, a prescindere dalle differenze di età, di ceto sociale e fino a un certo punto anche politiche.
Ho imparato che la realtà muta molto più velocemente delle nostre proiezioni mentali su di essa e che non le importa molto se tu non sei a tempo, che la caducità delle persone è molto più frequente di quanto si possa pensare e che il dolore che essa genera è direttamente proporzionale al ruolo che hanno svolto durante la tua formazione sia umana che ultras, e per quanto possa sembrare paradossale e contraddittorio, ho imparato il valore dell’umiltà e del rispetto per gli altri.
Così come a saper perdere, ma a non arrendermi mai, perché allo stesso modo in cui una situazione apparentemente perfetta può facilmente andare in malora, anche quando tutto sembra ormai irrimediabilmente perduto, tutto può cambiare da un momento all’altro e anche dalla merda ci si può rialzare. Mi rendo conto che forse vi sareste aspettati qualche racconto epico e ce ne sarebbero anche diversi, ma quelli secondo me costituiscono il conorno rispetto a tutto quello che ha significato il crescere in curva per me e poi non sarebbero molti diversi da quelli stereotipati.
Se l’apocalisse fosse davvero prossima, con quali tifoserie vorresti confrontarti prima ? A quali partite vorresti partecipare, anche solo da spettatore ?
Faccio parte di una tifoseria che degli ultimi trenta campionati, ne ha disputati ventotto nei gironi meridionali della serie C, va da sé che c’è, più o meno, mezza Italia ultras che non ho potuto vedere all’opera e non ti nego che il mio grosso cruccio è quello che molto difficilmente la mia squadra mi farà fare una trasferta europea. Da spettatore mi piacerebbe assistere a parecchie partite, per lo più stracittadine del resto del mondo, diverse delle quali narrate anche da voi, in cui ancora l’appartenenza a una squadra o all’altra rappresenti quasi una weltaunschauung. Nello specifico, ho un debole per Belgrado e il suo derby, ma ultimamente le mie fantasie si soffermavano sul derby di Sofia e quello di Edimburgo, per la compagnia e tante altre motivazioni, ma questa è un’altra storia…
Ringraziamo Giuseppe Ranieri per la cortesia e disponibilità, così come Domenico Rocca per il supporto alla realizzazione dell’intervista.
Entrambi i frammenti sono tratti da “@Ultras-Parole e suoni dalle curve”:
(1) da “Ogni scontro libera” racconto di D. Mungo
(2) da “Nella tana del nemico” racconto di G. Ranieri