Nella psiche profonda giallorossa c'è un inconfessato inconfessabile.
L’inconscio, secondo Freud, è «un particolare regno della psiche con impulsi di desiderio propri, una propria forma espressiva e caratteristici meccanismi psichici che non vigono altrove». Un regno insomma sommerso, che non affiora nella coscienza del soggetto e come tale non viene toccato, indirizzato o inquinato dalla ragione. Una dimensione che per Freud è esclusivamente personale, mentre per altri – Jung su tutti – diventerà anche collettiva, con una psiche comune a tutti gli uomini e strutturata poi nei vari archetipi, una sorta di categorie universali di rappresentazione a priori. In queste righe, chiaramente deformando l’impostazione junghiana, vogliamo ipotizzare una presunta, e quantomai vaga, psicologia collettiva romanista.
Una psicologia pre-razionale, inconscia, profonda, che si trova nell’animo dei tifosi romanisti ancor prima che nei loro discorsi e atteggiamenti. Un qualcosa che è nell’aria e negli sguardi, per un buon osservatore, ma che non emerge nelle parole e spesso neppure nelle consapevolezze degli stessi interessati. Un qualcosa di cui si è avuta l’ennesima e decisiva epifania a Roma-Bayer Leverkusen, laddove ad un passo dall’ultimo atto europeo, e con una squadra in fiducia di gioco e risultati, l’Olimpico ha dato la sua risposta inconscia.
Al di là delle percezioni personali, è evidente per chiunque abbia frequentato lo stadio della Roma che l’atmosfera non era lontanamente paragonabile non solo a quella dell’anno prima – in semifinale, sempre con il Leverkusen, ma anche in quarti con il Feyenoord, in ottavi con la Real Sociedad, in sedicesimi con il Salisburgo – ma nemmeno a quella di due anni prima in Conference League (pensiamo al clima a dir poco elettrico e trascinante con il Bodo, in quarti, o con il Leicester, semifinale).
Fisiologica stanchezza, può ipotizzare qualcuno. Abitudine (recentissima) a certi palcoscenici e fine dell’effetto novità, può rilanciare qualcun altro. Eppure non è solo questo, c’è altro che giace sotto la cenere, in una dimensione precedente al detto e al conscio, che come magma ribolle nelle viscere della Città Eterna e nell’inconscio giallorosso; un qualcosa di sconosciuto anche a tantissimi tifosi stessi, inconsapevoli di cosa si muova nelle profondità del loro animo ma consapevoli, questo sì, che qualcosa di diverso rispetto agli anni scorsi ci sia – e con il Leverkusen non è certo stata la prima volta di un Olimpico scarico, tutt’altro.
La Roma di De Rossi è propositiva, gioca bene, ottiene risultati, vola sulle ali dell’entusiasmo.
Il suo nuovo allenatore è un santino e quasi un santone per il popolo giallorosso, è uno di loro, un tifoso, un capitano; il suo nome viene scandito e invocato da tutti, prima del fischio d’inizio e non solo. In teoria è il matrimonio perfetto, e il tifoso ha tutto con De Rossi: un ultraromanista in panchina, una squadra rianimata che lo segue, fino al Bayer anche un filotto invidiabile di risultati – il derby vinto con la Lazio, la qualificazione in Champions nel mirino, i turni superati in Europa League (sedicesimi, ottavi, quarti con il Milan conquistati già a San Siro, laddove la Roma non vinceva da anni). Nella dimensione del conscio non ci può essere nulla di meglio. Eppure… Eppure con José Mourinho, piaccia o meno, era tutta un’altra cosa.