Era un bel pomeriggio di maggio a Zagabria, e un caldo tiepido e piacevole, lo stesso che ogni anno la primavera mitteleuropea porta in dote, avvolgeva la città. Era quel periodo dell’anno in cui tutto sembra più bello, in cui l’estate non è ancora arrivata ma si respira nell’aria. Invece quel pomeriggio del 13 maggio del 1990, per la vecchia Jugoslavia, fu l’anticamera dell’inferno.
Ogni storia ha un suo punto di partenza, vicino o lontano che sia, e i fatti di quel pomeriggio hanno inizio esattamente dieci anni prima, in un altro pomeriggio di un altro maggio balcanico. Il 4 maggio 1980, a Lubiana, si spegneva Josip Broz, un ufficiale dell’esercito Jugoslavo che all’anagrafe della storia venne registrato con il suo nome di battaglia, Tito.
Capo della Resistenza Jugoslava durante la Seconda Guerra Mondiale, il Maresciallo dal ‘53 guidava quel miscuglio di contrasti etnici e ataviche spinte nazionaliste che è da sempre la penisola balcanica: “Sei Stati, Cinque Nazioni, Quattro Lingue, Tre Religioni, Due Alfabeti, un solo Tito” era una filastrocca che si sentiva spesso ripetere nella seconda metà del Secolo scorso appena superata la cortina di ferro.
Nulla di più vero, e la morte di Tito lasciava un vuoto di prestigio e carisma che si sarebbe presto rivelato incolmabile. Dalla sua scomparsa l’insofferenza verso il centralismo di Belgrado si scoprì sempre più forte e pressante, i vecchi nazionalismi ripresero vigore e, dieci anni più tardi, erano pronti a scoperchiare il vaso di pandora balcanico. Ma se il primo pezzo della Jugoslavia unita venne sepolto nella Kuca Cveca insieme al Maresciallo, l’ultimo venne cancellato dieci anni dopo, in un bel pomeriggio di maggio, sul terreno di gioco dello stadio Maksimir di Zagabria.
Il 1989 è l’anno chiave, quello che spariglia le carte e fa saltare il banco. Mentre ricorre il seicentesimo anniversario della battaglia di Kosovo Polje, mito fondativo dell’identità serba, Slobodan Milosevic, che da qualche anno aveva cominciato a rilanciare l’idea di una “Grande Serbia” scalando le gerarchie della nomenklatura del partito, vince le elezioni e si impone a capo del governo di Belgrado, mentre nelle altre nazioni della federazione esplode quel malcontento che il carisma di Tito era riuscito in qualche modo a contenere: in particolare Croazia e Slovenia, da sempre più ricche e più vicine all’Europa continentale, guardano con sempre maggior fastidio i tentativi egemonici della Serbia, stanchi, a loro dire, di mantenere il suo immobilismo con le loro tasse.
In Croazia soprattutto si continuano a rafforzare le posizioni indipendentiste diFranco Tudjman, ex ufficiale dell’esercito federale convertitosi nel tempo alla causa della nazione croata (e per questo radiato dal partito nel 1971), che fonda, nel giugno ’89, l’HDZ: Hrvatska demokratska zajednica, l’Unione Democratica Croata.
Agli albori del 1990 i primi, pesantissimi scricchiolii donano il reale senso delle problematiche in seno alla Jugoslavia: tra il 22 e il 23 gennaio i delegati croati e sloveni abbandonano quello che sarà l’ultimo congresso della Lega dei comunisti, sancendo in questo modo la fine del Partito Unico.
Il successivo 6 maggio le prime elezioni multipartitiche della storia croata consegnano a Tudjman e all’HDZ una maggioranza schiacciante in tutte le tre camere di cui si componeva il parlamento. La strada era tracciata, tornare indietro impossibile.
Si sa, il destino raramente guarda in faccia qualcuno, e la domenica successiva il calendario della Prva liga Jugoslava mette di fronte le due anime sportive delle due più importanti Repubbliche della federazione: la Stella Rossa di Belgrado e la Dinamo di Zagabria. Quest’ultima è da sempre (insieme all’Hajduk di Spalato) la squadra rappresentante l’orgoglio croato, con un’identità ben precisa che gli ha permesso di conservare nel proprio stemma la scacchiera croata anche durante la reggenza di Tito, cosa non propriamente comune.
Di fronte la Crvena Zvezda (Stella Rossa nella nostra lingua), squadra serba per eccellenza: fondata nel febbraio 1945, a guerra ancora in corso, da studenti belgradesi appartenenti alla media borghesia della città, ha da sempre una tifoseria fortemente anticomunista e legata alla ChiesaOrtodossa, che ha fatto dell’identità serba bandiera e ragion d’essere fin dalla sua nascita. La partita a livello calcistico non ha molto da dire: è la penultima giornata, e la strepitosa Stella di quegli anni è già matematicamente campione, mentre alla Dinamo tocca la piazza d’onore.
Ma se sul piano sportivo tutto è già deciso, ben diversa è la situazione sociale e politica che ruota intorno a quell’incontro; e il calcio, come spesso accade, catalizzerà gli eccessi di tutte le parti in gioco e farà da cassa di risonanza per il suono di tamburi che già stanno rullando da tempo. La Jugoslavia è già morta il 13 maggio del 1990, bisogna solo darne la notizia al mondo.
Sono tanti i tifosi della Stella Rossa che salgono sul treno che da Belgrado porta verso Zagabria (poco più di un anno dopo quella stessa linea ferroviaria si fermerà per 5 anni, tra il ‘40 e il ‘45 si fermò solo per due giorni): i circa 3.000 Delije(Eroi, i tifosi più caldi della Stella) cominciano a riversarsi nella città fin dalle prime luci del mattino. Aspettavano questo momento da tempo, si erano preparati per questa occasione, pronti a marciare come un esercito vero e proprio sulla capitale croata.
Il loro capo, il “Primo tra gli eroi”, si chiamava Željko Ražnatović; è lui che ha trasformato quella banda di indisciplinati hooligans in una milizia inquadrata e ideologizzata, che dimostrerà in seguito di essere pronta a tutto per la propria causa. Željko Ražnatović e i Delije, un binomio difficilmente scindibile: tra poco si trasformeranno entrambi in qualcos’altro, e i loro nomi evocheranno fantasmi ben diversi rispetto agli scontri da stadio.
Tra qualche mese, lui sarà il comandante Arkan, e loro le sue fedeli Tigri. Sono loro la legge, quel giorno. Aspettano i loro rivali, e nel frattempo distruggono tutto quello che incontrano.
E i loro rivali non si fanno certo pregare: sono i Bad Blue Boys, la frangia più calda e oltranzista del tifo della Dinamo. Anche loro, come i Delije, sono fortemente politicizzati, molto vicini a Tudjman e alla sua idea di una nazione croata indipendente. Anche loro, come i Delije, si stanno trasformando da Ultras in qualcos’altro. E anche loro, come i Delije, dimostreranno nel tempo di essere pronti a tutto pur di difendere la propria causa. In quel momento, quel 13 maggio 1990, non si stavano fronteggiando due semplici gruppi di Ultras: entrambe le fazioni sentivano di rappresentare ben più di una squadra di pallone, sentivano di essere l’avanguardia di una Nazione, di un’idea, di un intero popolo.
La partita, come da facile pronostico, non inizia nemmeno. I tifosi belgradesi, dopo i primi immediati scontri tra le due fazioni al loro arrivo in città e le devastazioni lungo il percorso che li portava allo stadio, appena entrati al Maksimir e sistemati nello spicchio sud cominciano a divellere seggiolini e cartelloni pubblicitari per tirarli in campo e verso i tifosi avversari.
La risposta dei tifosi della Dinamo è immediata: i primi che riescono ad avvicinarsi al settore occupato dagli indesiderati ospiti hanno però la peggio. I Bad Blue Boys decidono che quello è il momento di intervenire, non potendo più accettare quel che stava accadendo in casa loro, nel proprio stadio: verso le 18, mentre l’incontro sta per cominciare, entrambe le tifoserie rimuovono con l’acido le reti che li dividevano dal campo di gioco invadendolo. A quel punto la polizia federale, che fino ad allora era sostanzialmente rimasta a guardare, non può far altro che gettarsi nella contesa.
La Milicija, i cui comandi anche se si giocava a Zagabria erano a forte maggioranza serba, usa i manganelli e i lacrimogeni praticamente solo contro i tifosi della Dinamo che nel frattempo si sono riversati in campo e, sfruttando la grande superiorità numerica, stavano iniziando ad avere la meglio sui rivali.
La situazione era completamente sfuggita di mano alla forza pubblica, ed era molto più simile ad una battaglia campale che a una partita di calcio: dalle tribune continuavano a riversarsi sul terreno di gioco tifosi croati, decisi a raggiungere quelli serbi.
Non c’era più spazio per il pallone, e i calciatori di entrambe le squadre si erano rifugiati negli spogliatoi appena i disordini erano degenerati, tutti a parte pochissimi giocatori della Dinamo. Tra quelli c’era il capitano della squadra di Zagabria, il ventunenne Zvonimir Boban. Sarà uno dei più forti calciatori della storia croata, allora era un ventenne che collezionando prestazioni strepitose si era guadagnato giovanissimo i gradi di capitano della sua squadra del cuore, il capitano più giovane della storia del Club.
Non ci pensa molto, in quella situazione così complessa, a prendere le difese dei suoi tifosi, che vede ingiustamente manganellati dai reparti antisommossa appena intervenuti: dopo aver urlato qualche frase di insulto in direzione degli agenti ed essersi beccato in risposta un paio di manganellate, reagisce avventandosi su un poliziotto a cui frantuma la mascella con una ginocchiata.
In seguito si scoprirà che quel poliziotto è un bosniaco musulmano, non un serbo, ma poco cambia. In quei momenti non c’era tempo per ragionare troppo. E in quel momento c’era spesso solo da scegliere da che parte stare, e Boban lo sapeva bene. E per questa scelta ha deciso di rischiare tutto. Per questo calcio, la cui immagine catturata da una fotografia diverrà icona della Croazia indipendente, verrà squalificato nove mesi (poi ridotti a quattro) saltando così i Mondiali che si dovevano giocare in Italia quella stessa estate, e passerà i giorni successivi a cambiare ogni notte posto dove dormire per paura di rappresaglie e rastrellamenti della polizia. Sarà in compenso elevato da capitano ad eroe dai suoi tifosi.
Nel frattempo, i tremila Deljie hanno svolto il loro compito e si sono ritirati nello spicchio a loro riservato; ora il campo è tutto dei Bad Blue Boys che iniziano una feroce battaglia contro gli agenti della Milicija e ci si scontrano fino a tarda notte per le strade di Zagabria, bruciando mezzi della polizia, macchine, tram e bandiere della Jugoslavia federale.
Il bilancio finale è di 59 tifosi e 79 agenti feriti, 132 gli arresti. Ma la porta che quel giorno viene spalancata sull’abisso non si riuscirà più a richiudere.
Quasi ironicamente Maksimir, il nome dello stadio teatro di questi eventi che si trova all’interno dell’omonimo parco a Zagabria, tradotto dal croato significa “il massimo della pace”. Oggi al suo ingresso, sotto il settore Nord come allora occupato dai Bad Blue Boys, si trova un memoriale su cui è incisa una scritta che recita: “A tutti i tifosi della Dinamo Zagabria, per i quali la guerra cominciò allo stadio Maksimir, il 13.V.1990, e che finirono per sacrificare la loro vita sull’altare della patria”. In qualunque modo la si veda, in qualunque modo la si legga, decisamente quel pomeriggio al Maksimir non poteva essere solo una partita di pallone.
Poco dopo, nell’estate che seguì, al di là del Mar Adriatico si giocarono i Mondiali italiani, e un portiere argentino di chiarissime origini basche spegnerà i sogni dell’ultima Jugoslavia unita, prima di interrompere, pochi giorni dopo, anche le nostre Notti Magiche. A settembre invece, in un’Argentina lontana da casa e dai problemi, lo strapotere della Jugo ai mondiali di basket. Ma anche lì una bandiera strappata dalle mani di un tifoso durante i festeggiamenti dopo la finale diventerà l’ennesimo inizio di una fine già scritta; ed infatti, due anni dopo, a giocare contro il Dream Team USA in finale per l’oro a Barcellona, ci sarà la Croazia di Drazen Petrovic. Senza più Vlade Divac a fargli da scudiero, con un simbolo diverso in mezzo al tricolore panslavo, anch’esso rovesciato, come la geografia di quella che era tornata ad essere la polveriera d’Europa.
Poi l’ultimo assolo, il più incredibile in assoluto, quello della Stella Rossa nell’edizione 1991 della Coppa dei Campioni. Sembra quasi, a posteriori, un moto di riconoscenza di Eupalla verso un calcio straordinariamente pieno di talento, che mille volte si era perso a pochi centimetri dalla leggenda. Ce l’ha fatta alla fine. All’ultimo tentativo. Ma nel frattempo, mentre la luce di quell’ultima Stella illuminava il cielo di Belgrado, poco lontano c’era Vukovar. Poi fu Sarajevo. Poi Srebrenica. E fu buio per davvero. Ma qui comincia un’altra storia.