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14 Novembre 2022

Elogio della racchetta spaccata

Contro il logorio del tennis moderno.

You cannot be serious!, l’urlo nel serioso silenzio del pubblico di Wimbledon, l’urlo che è il manifesto dell’essenza ed esistenza tennistica di John McEnroe. L’urlo, che per noi inclini ad innamorarci dei pazzi, vale già da subito l’intera carriera di Alcaraz il replicante, il futuro mietitore tristo di Slam: l’eroe di cui non si sentiva il bisogno, ma che forse ci meritiamo. McEnroe e Alcaraz, l’alfa e l’omega di questo sport, il tennis, sempre più omologato, sempre più incline ad esaltare i freddi numeri, sempre più sterilizzato dal pol corr, sempre più restio ad accettare e pronto a condannare anche il più elevato e liberatorio gesto: la racchetta spaccata, spezzata, gettata.

Già, la racchetta spaccata, spezzata, gettata. L’eresia, l’onta, l’offesa per chi ama, appunto, i replicanti. Eresia subito sanzionata da warning, penalità, fischi del pubblico, editoriali che sanno di pessimo caffè. Eppure i maestri di questo sublime atto di amore et odio verso il proprio strumento, son proprio quelli che lo strumento lo elevano a Stradivari, quando ispirati dai fantasmi giusti.

I maestri, il maestro. John McEnroe che sfiora il sublime in un torneo di Stoccolma qualsiasi: dopo una chiamata a lui contraria (ma per John erano tutte contrarie) insulta l’arbitro e quindi distrugge a racchettate il suo angolo, regalandosi una squalifica di tre settimane, una multa per lui irrilevante e gli improperi e la lezione di morale del già allora germogliante e canceroso politically correct. Il maestro e quindi i cattivi discepoli: giocatori che hanno vinto poco o nulla ma che ci hanno fatto e ci fanno impazzire con i loro genuini momenti di follia ce n’è un gustoso elenco e s’ode, per ognuno di essi, il suono, la sinfonia, di ogni racchetta divelta e ridotta in brandelli, con la stessa mano capace di ricamare trame per altri inimmaginabili.



Non spaziamo in ordine di tempo ma assecondiamo la memoria e andiamo da Benoit Paire: la racchetta sfasciata elevata ad arte in ogni anfratto e torneo del globo. Poco importa che sia Slam o Challenger da 2000 dollari. Giocatore dal talento inviso agli Dei, talento cui ortiche han banchettato gustosamente, talento detestato dai benpensanti, dai noiosi stilatori di albi d’oro. Talento che gli ha portato poco o nulla a livello di risultati, talento accomunato al nostro più grande degli ultimi lustri: Fabio Fognini. Sì, Fabio Fognini, con buona pace di Jannik Sinner e Matteo Berrettini che del genio del ligure ne hanno nemmeno un quarto.

Fabio Fognini e Benoit Paire accomunati per la ridicola reprimenda della Babolat, offesa dalle troppe racchette spaccate dai due. Accomunati nella visione del tennis: noioso, tutto uguale, noioso e ridicolo. Accomunati dall’essere indicati e quindi marchiati da chi fotocopia articoli fotocopiati e da chi fotocopia commenti fotocopiati degli articoli fotocopiati. Ma per questa stupida e senza protesi amputazione dell’animo ci vorrebbe un intero trattato.

Benoit Paire, Fabio Fognini e quindi Ernests Gulbis. Ernests Gulbis è senza alcun dubbio il personaggio più fascinoso che il tennis abbia avuto in dono negli ultimi lustri: aristocratico, colto, ribelle, folle, bello a vederlo giocare, bello anche solo a vedersi e basta. Figlio di un ricco proprietario di gasdotti e di un’attrice teatrale, ha sperperato anch’egli un talento immane, cui unico acuto l’ha portato ad una semifinale a Parigi, nel 2014.

Ma a differenza di altri, Gulbis non ha mai avuto fantasmi che l’hanno perseguitato, la follia è sempre stata per lui opera d’arte.

La collezione di racchette divelte è pressoché sterminata («ne rompo 60-70 l’anno, sui campi in cemento è più difficile ci vuole più impegno») e per ogni racchetta immolata sempre un’esibizione diversa e teatrale. Personaggio, come ovvio, inviso ai puristi e agli ossessionati dalla noia. Personaggio che anche fuori dal campo regala momenti di pura estasi. Dalle serate passate a ubriacarsi a quelle a sperperare danari al casinò, dalla passione per l’Opera e la musica di Philip Glass e Pierre Boulez alle notti passate in carcere («Sono stato in carcere a Stoccolma per aver adescato una prostituta. È stato divertente, credo che ognuno di noi dovrebbe andare in prigione almeno una volta nella vita»). L’importanza di chiamarsi Ernesto, anche se i numeri non ti danno importanza.

Una (brevissima) carrellata delle racchette disintegrate da Ernests

E, aprendo un breve squarcio temporale sul passato recente, quando si parla di fascino non si può non rifarsi a Marat Safin. Mietitore di racchette distrutte, mietitore di fanciulle che cadevano, come fanciulla morta cade, ai suoi piedi a centinaia. Racchette distrutte, fanciulle mietute e una smodata vita mondana, che han contribuito a farlo divenir numero uno, prendersi due Slam e regalarsi vittorie irridenti contro Roger Federer. Sì, contribuito, perché se si fosse annoiato Marat non l’avremmo mai visto giocare e vincere in quel modo. S’è ritirato, fortuna sua, prima che il delirio social deflagrasse in tutta la sua pochezza.

Ma ritorniamo all’infausto oggi. C’è chi le racchette le rompe per posa, c’è chi le rompe per professione, Nick Kyrgios né l’uno né l’altro, lui le rompe per passione.

Nick Kyrgios, ragazzo, uomo, lui sì davvero tormentato. Nick Kyrgios che non ha mai avuto abbastanza riguardi nei confronti di se stesso, dei colleghi, dei giudici, degli spettatori, figuriamoci per le racchette. Distrutte, scagliate, fatte volare fuori dal campo. Distrutte, scagliate e fatte volare anche se una folata di vento, causata da una farfalla, lo disturba in un incontro che sta dominando. Nick Kyrgios che il popolo bandierato dei social tenta goffamente di psicoanalizzare da anni. “Se mette la testa a posto”, prima, durante e dopo le due uniche settimane della sua vita in cui ha giocato a tennis e quindi raggiunto la prima finale Slam, salvo poi rinsavire e buttar via uno US Open che avrebbe potuto tranquillamente vincere. Sarebbe stato troppo, vederlo esaltato da chi pensa conti solo il computo degli Slam.

Così come sarebbe troppo spreco di parole e paragrafi discernere sui perché riguardo i tre immortali: Roger Federer, Rafa Nadal e Novak Djokovic. Roger Federer potenziale distruttore di telai che ha messo sotto naftalina il suo lato più folle e ribelle, da quando gli han fatto capire che non gli conveniva. Rafa Nadal, che non riuscirebbe a compiere tale efferato e inconcepibile gesto (per chi ha fatto dell’ossessivo schema mentale un inquietante e indistinguibile tratto) nemmeno dopo vent’anni di analisi. E infine Novak Djokovic, il più umano dei tre anche se non troppo umano. Novak Djokovic che, di tanto in tanto, rompe gli schemi e le racchette; e se per tutti gli altri l’attrezzo rotto vale per gli avversari il segnale di una vittoria certa, nel caso di Nole il segnale è che la partita non la vincerai mai più.

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