Calciatore, partigiano, giornalista, divo del cinema. Qualunque persona comune venderebbe l’anima per vivere solo una di queste vite. E pensare che Raf Vallone le ha vissute tutte, e nel frattempo ha avuto anche il tempo di frequentare le donne più belle e gli uomini più interessanti del Novecento. Nato il 17 febbraio di 108 anni fa dal colpo di fulmine fra un avvocato torinese impegnato in una causa a Reggio Calabria e una nobildonna calabrese, Raf Vallone i film li ha prima vissuti e poi interpretati. Cresce fra Torino e Tropea, piccolo borgo calabrese a picco sul mare, dove lo soprannominano ‘u smaniu (lo smanioso) per via della pericolosa abitudine, quando il mare era molto mosso, di sfidarlo a bordo di una piccola imbarcazione. Il presagio di un’indole inquieta e avventurosa.
“Fin da bambino ho continuato ad avvertire un tenero sentimento di nostalgia per la Calabria, dove tornavo d’estate con la mia famiglia. Spesso a Torino sentivo che mi mancava l’odore dell’uva pestata a piedi scalzi dai contadini. Mi mancava il contatto col mare o la sua vista dall’alto della rupe sulla quale si alza Tropea, una cittadina dal passato ricco di storia: quel mare sonante di voci e di vite che risalgono agli albori della civiltà mediterranea”.
Raf Vallone
A Torino si laurea in filosofia e giurisprudenza alla corte di Leone Ginzburg e Luigi Einaudi, che gli dirà ironicamente: “La preferisco più come calciatore che come economista”. Infatti i risultati accademici non sono altro che il frutto di un accordo con il severo padre per continuare a coltivare la sua vera passione, il calcio. Gioca nel Torino, che in quegli anni si prepara a diventare “Grande”.
Piedi mediocri ma fisico marmoreo e polmoni di ferro, gioca come mezzala, che nel calcio degli Anni Trenta significa seconda punta nella linea offensiva a cinque del WM. Esordisce in maglia granata a 18 anni nel 1934, l’anno di grazia è il 1938/39, dove raccoglie 16 presenze e 3 reti e dove il suo Toro si qualifica secondo alle spalle del Bologna e davanti all’Ambrosiana Inter del Pepìn Meazza.
Vince uno Scudetto giovanile e una Coppa Italia nel 1936. Lascia il calcio a 25 anni: ufficialmente dopo la cocente delusione nella finale dei Mondiali studenteschi a Vienna, vinti dalla Germania nazista proprio contro i nostri e viziati, secondo Vallone, da una combine; realmente perché stagnare in una carriera da calciatore non era da Raf Vallone.
Dopo l’università tenta la carriera di avvocato, fallita miseramente dopo la prima causa. Poi, durante il servizio militare a Tortona viene avvicinato da Vincenzo Ciaffi, latinista e dirigente del gruppo partigiano Giustizia e Libertà. Inizia l’attività sovversiva fra le file dei partigiani liberalsocialisti. Il suo incarico era quello di individuare e di contattare altri antifascisti, e proprio in una di queste circostanze un libro lo ha tradito. Era Nuova York di Dos Passos, con all’interno una pericolosa dedica: “Abbiamo gli stessi interessi, credo che questo romanzo ti piacerà“.
Venne scoperto e messo su un treno in direzione Germania, da cui riuscì a fuggire soltanto gettandosi nel lago di Como congelato fra le raffiche dei soldati tedeschi, provocandosi una pleurite. Entra poi in contatto con Davide Lajolo, il partigiano “Ulisse”, che lo convince a collaborare con l’Unità. A far uscire l’edizione straordinaria per dare la notizia della liberazione dal nazifascismo il 25 aprile del 1945 c’è lui. Rimane comunque deluso dalla ”esposizione del cadavere di Mussolini” e denuncia l’ipocrisia degli italiani: “tutti sono diventati antifascisti”. Diventa caporedattore delle pagine culturali dell’edizione torinese, l’unico nel giornale a non avere la tessera del PCI, intoppo a cui Togliatti rispondeva: “Però fa una bella terza pagina!”.
“Pavese veniva spesso a trovarmi, andavamo a pranzo a Porta Palazzo, alle Tre Galline. Mangiavamo in silenzio: lui non parlava molto, io neppure. Credo gli piacessi per quello: assecondavo il suo silenzio”.
Raf Vallone
Un suo reportage sulle risaie piemontesi finisce sotto gli occhi del regista neorealista Giuseppe De Santis che decide di farne un film. Vallone è la faccia neorealista per eccellenza: gli occhi di ghiaccio a far da contrasto ai capelli neri come il carbone, un’ombra di barba e il fisico possente. Sembra un contadino del Mezzogiorno ma conserva un’aria nobile. De Santis ha il suo protagonista per “Riso Amaro”, e per Vallone inizia l’ennesima vita. Lavorerà con maestri come De Sica, Germi, Risi, Malaparte, Huston e Coppola. Un divo sì, ma sempre fuori dagli schemi, più un caratterista di lusso che un mattatore. Latin lover ma solo potenziale, cederà infatti al tradimento della moglie Elena Varzi solo con Brigitte Bardot.
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Il bel italien dopo il successo si divide fra Roma e Parigi, dove amava frequentare la creme della capitale francese:
“Con Carné per Thérèse Raquin, con Peter Brook per Uno sguardo dal ponte, 580 rappresentazioni al Théâtre Antoine. E intanto, in un’altra sala, c’era Antigone di Cocteau, scene di Picasso, costumi di Chanel, musiche di Honegger. Ai caffè s’incontravano Sartre e Beckett. Una volta avevo appuntamento da Maxim’s con Camus. Arrivai per primo. Poco dopo vidi i camerieri precipitarsi all’ingresso. Pensai: è lui. Invece entrò Rothschild. Passarono pochi minuti, stessa scena, ma con il maître in testa. Era Camus. Un poeta meritava maggiori onori di un banchiere”.
Un uomo curioso, affamato di conoscere e di sapere, che ha preso la vita e ne ha fatto un’avventura, dal prato del Filadelfia fino ai sipari di tutto il mondo. Un uomo di cui forse l’Italia si è dimenticata troppo presto. Negli ultimi anni della sua vita alla domanda: chi è oggi Raf Vallone? Rispose: “Se lei me lo dice mi fa una cortesia. Non lo so. Un piccolo essere pensante nel buio generale”.