Anche basta con la storia dell'esempio di sport.
Nel terzo set di ieri della partita tra Nadal e Fritz, alla domanda di Elena Pero se lo spagnolo fosse stato in grado di giocare la semifinale (qualora avesse ribaltato e vinto la partita), Paolo Bertolucci rispondeva secco: “mai”. Anche lui, un vecchio aristocratico del tennis a cui possiamo perdonare qualche verso e scaramanzia di troppo quando si parla di Roger Federer, ridotto a sacerdote del culto di Rafa Nadal, smarrito in un’apologia totale e un commento tecnico da ultras sur, neanche Rafa fosse un italiano o un combattente in lotta per l’Ucraina. Fatto sta che un po’ santo, un po’ Lazzaro, Nadal effettivamente ieri non si muoveva quasi più in campo, con le scene strazianti del suo angolo che lo implorava di smettere e di ritirarsi, e il padre furibondo con il figlio perché continuando a giocare stava mettendo a repentaglio il suo fisico.
Poi, per l’ennesima volta, è cambiato tutto. Nadal ha continuato ad avere problemi al servizio (anch’essi superati proprio verso la fine della partita) ma è tornato nei momenti decisivi a correre da una parte all’altra del campo come avesse vent’anni, a recuperare tutte le accelerazioni del suo avversario, a imporre un ritmo forsennato allo scambio, a non sbagliare più nulla. Con la complicità dell’amico Fritz, un buon giocatore di tennis che ha però lo stesso carattere di Pimpa il cane a pois, ha così ribaltato la partita guadagnandosi l’accesso alla semifinale contro Nick Kyrgios, accolto da un prolungato ‘boo’ del pubblico quando è stato nominato nell’intervista post-partita – ormai il tifo delle masse tennistiche, anche di quelle di Wimbledon, è diventato un indicatore al contrario su chi personalmente sosterrò, Roger escluso: d’altronde, se gli stadi di mezzo mondo parteggiano per Alcaraz, vuol dire che ci resta solo l’agricoltura.
Nell’intervista, neanche a dirlo, Nadal si è comunque augurato “di essere in grado di giocare” la prossima partita, ça va sans dire: le mani talmente avanti, per non cadere all’indietro, che stava rischiando di perdere l’equilibrio.
Che poi qui ci si prende poco sul serio, altrimenti dovremmo dire che a livello mentale Rafa Nadal è il più grande tennista di sempre, forse addirittura il più grande atleta che ci sia, che ha formato e sta alimentando la sua leggenda, a metà tra l’epica e la mistica, che è un patrimonio sportivo di tutti, bla bla bla. Tutto vero, fatto sta che ultimamente sta diventando insopportabile, e la narrazione mediatica intorno a lui decisamente peggio. Prona a Nadal peggio che i grandi giornali a Draghi – e ce ne vuole –, roba che neanche l’infamata a Sonego ha scalfito l’aura del maiorchino: una cosa che se l’avessero fatta Djokovic, Tsitsipas o Medvedev avremmo creato un caso di stato (social, naturalmente) con la Serbia o la Grecia, o chiesto più sanzioni alla Russia e restrizioni per i non vaccinati.
Per chi se lo fosse perso, Nadal si è accorto di quanto fossero fastidiosi i versi fatti in campo dal suo avversario (c’è da dirlo, veramente insopportabili, ma qui è pure il bue che da del cornuto all’asino) proprio quando Sonego era rientrato in partita e lui stava calando fisicamente: ma che circostanza singolare. Dopo due ore Nadal ha così chiamato a rete il buon Lorenzo “pregandolo di fare meno rumore”, deconcentrandolo e approfittando del nervosismo del nostro per strappargli il servizio e chiudere il match. Un trucco da vecchia volpe che onestamente noi, uomini di mondo, guarderemmo anche con sana compiacenza e un sorriso di approvazione; lo faremmo, lo confessiamo, se solo dopo la partita non andasse in scena la memoria difensiva e strappalacrime di Rafa, caduto dalle nuvole e sinceramente pentito e dispiaciuto del suo comportamento, assolutamente involontario – certo, come no.
«Ho cercato di dire a Lorenzo nel modo più gentile possibile se poteva fare meno rumore. Ora mi sento in colpa, perché forse l’ho disturbato. Non era questa la mia intenzione (…) Non l’ho fatto apposta, davvero. Ora cercherò di spiegarmi con lui anche negli spogliatoi, mi sento malissimo per quello che ho fatto».
Una cosa che giustamente, come detto da Sonego, non si era mai vista, che si fa “in terza categoria e non a Wimbledon”; eppure se il protagonista è Nadal il condono, la comprensione e il perdono sono automatici. Per non parlare poi delle conferenze stampa dello spagnolo, per carità. Un lamento continuo, una litania del dolore ormai ripetuta in loop come un disco rotto: “non so se sarò in grado di giocare domani”, “non so se potrò partecipare al prossimo torneo”, “vivo alla giornata”, “il dolore è insopportabile”. E tutti i giornalisti che abboccano come tonni, al capezzale del Rafa morente, e si lanciano in titoloni strappaclick sul “momento del ritiro: è arrivato!”. Poi le giornate passano e i tornei pure, e proprio quando sembra sul punto di alzare bandiera bianca Nadal ritrova puntualmente energie e risorse insperate, laureandosi infine campione. Tutto è bene… tutto è bene!, come direbbe Paolo Bitta.
Che poi qui si scherza, ma non penso certo che Rafa faccia finta o si inventi tutto. Al massimo che sia un catalano mancato, ecco questo sì, credo sia la definizione perfetta per Nadal: un catalano mancato. Abituato a parole sempre a darsi per sfavorito, a ricoprire di complimenti gli avversari, a mettere le mani avanti, come detto prima, per non cadere indietro e per scrollarsi di dosso un po’ di pressioni. Sembra di sentire Pep Guardiola x10, una cosa veramente urticante. Rafa ai microfoni palesemente dissimula, ingigantisce, confonde, esagera, eppure le sue parole vengono accolte come Vangelo, innocenti come quelle di un bambino ed espressione di un “modello umano”, dunque inevitabilmente puro e sincero. Quindi ogni vittoria viene poi salutata come un atto eroico: quello di un superuomo che sta immolando se stesso pur di onorare lo sport, e che si sacrifica sull’altare del tennis.
Quando si parla di Nadal sostanzialmente non esiste la malafede: sia dal punto di vista teorico, sottolineato da alcuni ciclisti come Thibaut Pinot e Guillame Martin – «per un ciclista è vietato fare la stessa cosa, ma anche se così non fosse tutti lo aggredirebbero definendolo dopato. Mentre le persone lodano Nadal per essere riuscito ad arrivare così lontano nel dolore, passa per eroe perché allontana il dolore, ma in realtà usa sostanze per farlo, è molto al limite» – sia dal punto di vista pratico, per cui chi si comporta come Rafa viene criticato, stigmatizzato, schernito, biasimato, mentre qui assistiamo all’epifania di un Signore dello sport sceso sul campo per togliere i peccati (e i limiti) dal mondo del tennis.
Che Rafa sia una leggenda e uno dei più grandi sportivi di sempre lo sappiamo, ma francamente sta tutto iniziando a diventare un po’ stucchevole: le smorfie di dolore dopo i punti persi, amplificate dai telecronisti che sembra stiano partecipando del dolore del figlio di Dio, e i Vamos dopo quelli vinti; i game in cui quasi non si muove e quelli decisivi in cui difende il campo come una gazzella; le conferenze stampa da malato terminale nello sport; i giornalisti, commentatori, telecronisti maestri del sospetto e abituati al moralismo che nel caso dello spagnolo riscoprono il valore dell’epica e la retorica eroica da übermensch. Quindi ogni volta la sorpresa, lo stupore, la catarsi. Questo sensazionalismo che ha bisogno di spingere e allargare tutti gli estremi, di passare dal bianco al nero e dal ritiro al trionfo nell’arco di un pomeriggio.
Ma poi sarà anche che io sono insofferente un po’ a tutto: al caldo, alla retorica, alla stampa, ai catalani, alle lezioni (se poi i catalani danno lezioni capirai), al pubblico.
Quello stesso pubblico che tanto deplora Nick Kyrgios e che invece, personalmente, tiferò come fosse la Nazionale in finale di Coppa del Mondo. Sapendo bene che non avrà chance, che dovrà sorbirsi le smorfie del suo avversario Lazzaro Nadal e i fischi dalle tribune (pure a Wimbledon si è imbarbarito il clima, ormai nulla si salva, siamo diventati tutti coatti); essendo anche consapevole che Nadal è destinato alla finale e forse a vincere il torneo per alimentare la sua leggenda, ma poco importa. L’importante è che ci sia ancora gente come Nick Kyrgios: un ottimo motivo per vedere il tennis e anche un esempio umano e sportivo, ma solo per quelli seduti all’ultimo banco come noi.