Non è retorica, ma le parole non bastano. Non sono sufficienti per rendere la portata dei fatti di ieri sera al Bernabeu. Siamo nel campo della mistica, dei misteri della fede. E provare a descriverli è certamente un proposito inutile, forse addirittura un atto eretico, come insegnano quelle religioni in cui è vietato parlare di Dio e persino nominarlo: pensate al Dio ebraico, insieme impronunciabile di consonanti proprio perché non va detto dagli uomini. Ieri non eravamo in un campo di calcio ma in quello della metafisica, in cui si è (ri)messa in moto la mistica galactica del Bernabéu: davvero sterminata, ignota e insondabile come la galassia. Come ha scritto Olé, il principale quotidiano argentino:
«Ci sono intangibili che possono essere riassunti, ma mai semplificati, sotto la parola mistica». E di mistica, anche calcistica, da quelle parti se ne intendono.
Come spiegare altrimenti un Real Madrid ormai alle corde, ieri più che mai, praticamente arreso, fino al punto di aver quasi abbandonato le speranze e alzato bandiera bianca, che in neanche due minuti – dal 90′ al 91′ – ribalta il parziale dopo i miracoli di Courtois, i salvataggi sulla linea, i rimpalli, gli sbandamenti difensivi, le energie prosciugate. Come spiegare Rodrygo che entra e fa una doppietta surreale, o Camavinga che scende in campo e spacca la partita come fosse un veterano.
Come riassumere, se non sotto la parola mistica, un Real sur-Reale, ir-Reale. «La noche más grande de la historia del Santiago Bernabéu», titola Marca, che continua «la mejor noche de un estadio que las ha visto de todos los colores. Y eso es mucho decir». Forse giusto così se ne può parlare, con i superlativi assoluti o con l’ironia che si arrende all’impossibilità di dire, e cede alla volgarità di un linguaggio che non può più assolvere alla sua funzione descrittiva.
“This team is a fucking joke”, scrive Kroos sui propri profili social social – un cazzo di scherzo. E gli fa eco Aguero, che confessa in mondovisione il messaggio su whatsapp di Leo Messi: «Dejate de j*der, boludo, no puede ser», un po’ l’equivalente del “Don’t fuck with me”, un “non scherzare” ma molto più estremo.
Ma che ne sanno, gli scienzati nel pallonee i nerd del calcio, del mistero della fede, del mistero del pallone. Gli expected goals, le heat maps, le lavagne; i moduli, le tattiche, gli schemi. Come si può pretendere di spiegare l’epica e la religione con la matematica? Non vorremmo essere oggi nella testa dei guardioliani di ferro ma soprattutto di Guardiola, che tutto può calcolare eccetto le variabili. Il miglior scienziato calcistico del pianeta, che nelle sue somme, divisioni e sottrazioni non può però soppesare la mistica del Bernabéu. Un uomo a cui oggi siamo vicini umanamente, noi così lontani dal suo modo ultra-cerebrale e un po’ maniaco di intendere il calcio.
Un uomo che non ce la può fare a reggere tutto ciò, distrutto dopo la partita, svuotato, ma forse in parte anche sollevato che fosse tutto finito, finalmente: la pressione, l’obbligo di vincere, gli occhi del mondo addosso. Se lo chiede anche il Daily Mail: «Quanto dolore può ancora sopportare Pep Guardiola?» Basta, a un certo punto ti arrendi e ti consegni al destino. Ed è un Guardiola che non ne può più di essere Guardiola: non più il profeta, il personaggio, il visionario. Un Guardiola che vorrebbe solo essere solo una persona normale, che ce lo vediamo al posto di Gozzano in ‘Signorina Felicità’ a dire: «Ed io non voglio più essere io! Non più l’esteta gelido, il sofista, ma vivere nel tuo borgo natio, ma vivere alla piccola conquista, mercanteggiando placido, in oblio, come tuo padre, come il farmacista… Ed io non voglio più essere io!».
Pep adesso può dormire, anche se forse non lo farà. Ed è un po’ ingeneroso oggi infierire su di lui, come sta facendo buona parte della stampa inglese; gongolare sul naufragio di un alchimista a cui uno spiffero di vento (della storia) ha guastato la pozione di un anno, o rinfacciargli limiti che fino a ieri sono stati suoi formidabili pregi. Un po’ come Evra a fine partita, quando ha detto testualmente che «Guardiola non vuole leader, è lui il leader. Non vuole giocatori di personalità. Costruisce le sue squadre per controllare tutto». Il francese ha obiettivamente ragione: sono le cose che pure ieri pomeriggio, letteralmente, noi si diceva davanti a una birra. Eppure oggi non possiamo processarlo per questo, malgrado il Manchester City abbia pagato la mancanza di giocatori di personalità nei momenti caldi del doppio confronto: che potessero prima archiviare la pratica, poi gestire la pressione della rimonta, la mistica del Bernabéu.
Uomini forti per destini forti, per entrare nella storia.
La stessa storia che non si compra a suon di miliardi, come vorrebbe la proprietà emiratina, e che «non si acquista in due anni, ma neanche in dieci», per citare invece Clarence Seedorf. La storia di cui il Real Madrid è motore, soggetto e oggetto; un Real raramente così debole nell’ultimo decennio, ma che nelle fasi ad eliminazioni diretta ha spezzato l’asse arabo dei favoriti (PSG agli ottavi e City in semifinale) e buttato fuori i campioni in carica del Chelsea (ai quarti). «Non ci credevate eh? Uomini di poca fede!Ci credevano in pochi…», per dirla con il suo allenatore, eppure questo è il calcio. Il calcio che ristabilisce le gerarchie e parte dalla prima lettera dell’alfabeto: la A di Carlo Ancelotti, unico tecnico a vincere il campionato nei cinque maggiori Paesi europei e recordman di finali di Champions, anche qui ben 5.
Lui che anche dopo la partita parlava dei suoi giocatori come di “amici”, ridimensionava la sua opera e il suo ruolo. Il normalizzatore, che meriterebbe un ritratto nel dizionario accanto alla parola “umiltà”, per citare ancora Patrice Evra. Il gestore che ha tolto dal campo i tre tenori Modric, Kroos e Casemiro, architrave dei successi bianchi, e ci ha azzeccato ancora una volta. Alla faccia di quelli per cui, come Cassano, “il culo prima o poi finisce”. Il culo chissà, l’ignoranza di certo non finisce mai: è sterminata come l’universo, galactica. Ma che ne sa, questa gente, di Carletto. Nani a confronto di un gigante.
Però lasciateci chiudere con una considerazione, per quanto retorica vi possa sembrare. Serate come quella di ieri sono il nostro manifesto: sono le serate per cui continuiamo a mandare giù bocconi amari, ad alimentare il business e a sopportare il “calcio moderno”, un sistema che ormai se ne frega di noi e ci tratta come consumatori scemi; perché alla fine sempre di calcio si tratta, e poco male se ormai siamo nel campo della tossicodipendenza. È uno stupefacente che ci fa stare bene, rispetto ad altri.
Noi che tutta la settimana abbrutiti, stressati, traditi, figli unici dell’esistenza o anche sereni, soddisfatti, appagati, noi che comunque aspettiamo di immergerci in un mondo che ci faccia sentire vivi. L’ultima rappresentazione sacra, ma per davvero. Il pallone come metafora della vita, ma di quella che vorremmo, di quella che sogniamo. Il calcio come giovinezza, come stadio migliore dell’esistenza, come malattia giovanile che dura tutta una vita. Meta-fisica e mistica. Di solito ci pensa il tifo per le nostre squadre, l’ultima forma di resistenza sovra-individuale che ci sia rimasta. Ma a volte ci pensa il Bernabéu: l’unico stadio in cui la realtà si trasfigura nel mito.