Per storia, tradizione, investitura politica e divina.
Leggendo Il Gattopardo, o attraversando le lunghe stanze tappezzate di araldi di qualche palazzo antico e adibito ormai a casa-museo, anche al più convinto dei repubblicani capita di vacillare. Di essere cioè ammaliato dal fascino della nobiltà che fu: la limpidezza delle porcellane, le cesellature dei soffitti, gli scaffali ricolmi di stampe alti quanto le pareti… Certo, nessuna illusione sul fatto che si tratti di puro romanticismo, spade di legno incrociate nell’infanzia, un misto di favola e nostalgia; e sì, la compassione si trasforma in riso non appena si assiste alle ostentazioni da vergine cuccia di quel che rimane dell’aristocrazia europea.
Il re è morto, non vivrà più il re. Sospiro di sollievo.
E nondimeno c’è poi qualcosa di terribilmente maestoso quando quel potere aristocratico resiste a discapito di tutto e di tutti, persino dello spirito del tempo, proiettando la propria lunga ombra su ciò che lo circonda. In termini sportivi è senza dubbio il caso del Real Madrid, squadra monarchica in senso assoluto, che spadroneggia in barba a qualsiasi vincolo, simbolo per eccellenza della tradizione conservatrice in un calcio che forse, parafrasando Longanesi, non ha più granché da conservare. Lo è, per così dire, di costituzione.
A fondarla, a inizio Novecento, è l’intuizione di Julián Palacios, studente di Ingegneria mineraria, sui suoi vent’anni, avvicinato da certi coetanei inglesi a quel nuovo sport che in Spagna prende voga col nome di balompiè. Bisogna mettere assieme un gruppo, e Julián presto lo assembla. Serve poi un campo, e sempre Julián ottiene dal suocero un rettangolo d’erba dove potersi dilettare con la pelòta, battezzando di fatto una squadra che nella primissima fase non è che una compagnia di ragazzi che scalciano cuoio su un prato.