Un tifo spropositato, dai livelli mai visti prima.
Tifo Argentina. Lo faccio da quasi 25 anni, precisamente dalla Copa America ’99 in Paraguay, quella dei tre rigori sbagliati da Martin Palermo contro la Colombia, quando il commento di Massimo Caputi accompagnava le notti di calcio latino su TMC. Insieme a nonno, affondavamo sudati nei divani del salotto cercando di seguire la rotazione del ventilatore di un’estate torrida senza aria condizionata. Il telecomando in mano, alzavamo progressivamente il volume del televisore con sguardo complice per sentire i tamburi dagli spalti di un calcio che non si vedeva quasi mai in tv. I cori e quei nomi esotici che per la maggior parte venivano da squadre mitiche di un mondo sottosopra, di cui conoscevamo a malapena la pronuncia, ma avevamo stampate a fuoco nella mente il motivo iconico delle loro maglie.
Oggi TMC è solo un ricordo della Prima Repubblica e Massimo Caputi non ho ben capito cosa faccia. Nonno non c’è più, ma io tifo sempre Argentina.
Da manipolo di curiosi siamo diventati milioni, probabilmente miliardi. Tra le mura avveniristiche delle cattedrali erette nel deserto qatariota, il mondo del calcio (e non solo) ha aderito auna vera e propria omologazione, assistita da un fronte mediatico mai così compatto, che in queste settimane ha alimentato insaziabilmente la fiamma albiceleste e l’ha spinta sempre più in alto, alla caccia della terza stella. Un sentimento dilagante simile a un plebiscito, che trova casa nell’amplificazione ossessiva dei canali social. Quel mondo così lontano ed esotico è ora alla portata di tutti. Nessuno sbaglia più la pronuncia, anzi riproduciamo con mirabile destrezza le sfumature rioplatensi di una lingua foneticamente differente dal castigliano. Conosciamo a memoria i loro cori e ci impastiamo la bocca con stereotipi eurocentrici come prova della nostra appartenenza alla cerchia.
Dovrei essere contento della diffusione del verbo, eppure c’è qualcosa di tossico in tutto questo che non si spiega. È complicato affrontare il tema, quando si è parte del problema. Si rischia di cadere in sabbie mobili molto meno accoglienti di quelle intrise di petrolio intorno a Doha. Mi giustifico pensando di essere diverso, ma in fondo chi non lo è? La verità è che siamo sempre molto gelosi delle nostre passioni, specie quando si ancorano attraverso saldi legami alla nostra storia personale. La loro volgarizzazione viene percepita come una sorta di tradimento, ci si sente sottratti di qualcosa che egoisticamente ritenevi solo tuo.
Come il nome di un locale a cui tieni, una tradizione tramandata di generazioni, un luogo del cuore dove riposare e poi sognare: segreti custoditi gelosamente sui quali crediamo erroneamente di vantare diritti se non di proprietà, quantomeno di utilizzo. Ecco allora manifestarsi il rischio terribile di sfociare nello snobismo più bieco, quello del “io posso, tu no“. Tutto vero, e però è impossibile ignorare il tifo ipertrofico e smodato riservato alla Nazionale di Scaloni, senza precedenti.
Il peccato originale si deve alla sineddoche con la quale si definisce questa Nazionale. Messi come parte per il tutto.
Sembra che il mondo del calcio abbia improvvisamente derogato la gerarchia di uno dei suoi mantra e abbia invertito per una volta il paradigma, facendo diventare il nome sulla schiena più importante dello scudo sul petto. Uno scudo che rappresenta 40 milioni di persone, 26 giocatori e una storia che ricalca per lunghi tratti quella del calcio stesso, ma che adesso pare aver perso importanza. Perché adesso che la carriera di Leo volge al tramonto si ha la sensazione che tutti siano stati colti dall’urgenza di vedere la storia compiersi: una storia strettamente personale che coincide con la consacrazione di Messi come migliore di sempre.
Un’esigenza condivisa dagli appassionati, ma persino dagli avversari, che hanno abbattuto lebarriere sacre della rivalità sportiva. «Non abbiamo più il Brasile o Neymar in questa finale di Coppa del Mondo, quindi sarò con l’Argentina. Non ci sono parole per te Lionel Messi. Meritavi già prima di essere campione del mondo, ma Dio sa tutto e ti incoronerà questa domenica. Ti meriti questo titolo per quello che sei e per il grande calcio che hai sempre giocato. Tanto di cappello a te. Dio ti benedica». Così si è espresso Rivaldo, ultimo 10 campione del Mondo con la maglia verdeoro.
Una casacca che mai dovrebbe augurarsi una vittoria albiceleste, come per fortuna ricorda un lucido Julio Cesar: «Sapete già per chi tiferò: i brasiliani devono tifare la Francia. Punto».
Eppure il sentimento di sportività estremo, i complimenti se non proprio gli auguri sono arrivati – a Messi, non all’Argentina – anche dagli avversari. Zlatko Dalic, massacrato in semifinale con la sua Croazia, davanti ai microfoni in zona mista a fine partita ha dichiarato: «La sua qualità ha deciso la partita. Non credo ci sia molto altro da dire sul suo talento, è stato il miglior giocatore al mondo negli ultimi 15 anni. Sta giocando al massimo, è il Messi che speravamo di vedere». Un grande atto di sportività, senza dubbio, anche se è difficile pensare che davvero il CT dei croati si augurasse di vedere contro di lui la migliore versione di Leo.
Ma ancora più in là si è spinto David Trezeguet, all’anagrafe francese, che ha dichiarato a TyC Sports: «Lo ripeto continuamente, per me emotivamente, sapendo che sarà la sua ultima Coppa del Mondo, Leo merita di essere campione. Lui fa sognare, questo non toglie alla Francia l’ambizione di voler mantenere il titolo. La Francia è venuta per essere campione del mondo, non c’è dubbio. Qui la differenza è l’età, Leo è a fine carriera, Mbappe ha appena iniziato e stabilirà ogni tipo di record. Insieme al PSG sono la combinazione perfetta, ma l’Argentina gioca per Messi, tutto passa da lui.
È difficile dal punto di vista personale, emotivo. Qualcosa che non volevo».
La prima volta, nella storia del calcio, che un (ex) nazionale tifa per la squadra avversaria affinché sia coronato il sogno e la carriera di un giocatore. E una sensazione talmente pervasiva, quella del tifo per l’Argentina e per Messi, che pure chi non ne è stato direttamente coinvolto in Qatar avverte in maniera inequivocabile. È il caso di Pepe che, a seguito dell’eliminazione cocente subita dal sorprendente Marocco, in zona mista ha urlato al complotto pro-Messi della FIFA. L’ha fatto in modo totalmente irrazionale, scomposto, ma ci consente di misurare la temperatura di quello che è avvenuto a Doha in queste settimane:
«Dopo quello che ha detto ieri Messi arriva un argentino a fischiare… e dopo quello che visto oggi possono già dare il titolo all’Argentina».
E se già molti tifavano Argentina prima dell’inizio della competizione ora, con la Francia in finale, squadra tradizionalmente poco simpatica al di fuori dei confini transalpini, il supporto ha sfondato ogni argine. All’inizio hanno fatto scalpore le immagini provenienti dal Bangladesh, con la popolazione trasformata in una hinchada albiceleste in virtù dell’odio comune – passato e odierno – verso gli inglesi. Ora invece fanno spavento le bordate di Deschamps in conferenza stampa:
«Sono spesso solo, ma quando sono solo di solito sono bravo. Gli argentini e Messi vogliono il titolo, anche in Francia qualcuno tifa per lui, ma noi non siamo d’accordo, il Mondiale vogliamo vincerlo noi. I nostri avversari non sono sulle tribune, dobbiamo concentrarci sul campo e abbiamo abbastanza qualità per riuscirci».
Insomma, il calcio si sta davvero augurando possa chiudersi il cerchio che la stessa narrazione intorno a Messi aveva creato. La retorica stanca e piuttosto nauseante del paragone con Diego, di cui Leo si può liberare solo alzando la Coppa del Mondo: quasi un lavaggio di coscienza di anni maledetti in cui questa terribile spada di Damocle ha condizionato e deformato il giudizio sulla Pulce. E lo sta facendo nel modo che ha imparato a conoscere: quello della saturazione del messaggio socialmediatico.
Una congestione di contenuti nauseante che va alla ricerca del segnale mistico e della ricorrenza, che pesca video storici, che arruola ogni giorno un nuovo tifoso illustre albiceleste e riposta gli eccessi di telecronisti decisi ad iscriversi anche loro nel libro della storia, invece di raccontarla. Diviene persino difficile, a un certo punto, capire se si tratti di sostegno sincero o dell’ennesimo trend-topic di Twitter. Un tifo talmente sfacciato da disgustare, perché in fondosenza le nemesi non ci sono nemmeno gli eroi.
E chissà cosa potrebbe succedere se invece la storia non consumasse il lieto fine. Se dovessero vincere i francesi assisteremo all’ennesimo requiem di Leo o magari verrebbe nuovamente considerato incapace di reggere il paragone con Diego? Senza dubbio si ignorerebbe l’impresa transalpina, perché l’errore più grande compiuto in queste settimane è stato quello di apparecchiare minuziosamente l’atto finale, senza però godersi realmente l’avvicinamento a questo momento. Un destino ricorrente in questi tempi supersonici: quello di arrivare al sodo per ingordigia di mete, ma scarsa inclinazione al viaggio.
Tifo Argentina. E se vincerà stasera festeggerò con i miei amici rioplatensi, sarò contento di vederli celebrare un momento atteso troppo a lungo.
Il mio pensiero andrà in quel caso al giocatore che, in questa competizione, avrebbe dovuto indossare la maglia numero 19. Andrà al Kun Agüero, che esattamente un anno fa salutava definitivamente il calcio a causa di un cuore malato che si potrebbe spezzare, stavolta definitivamente, per avergli sottratto la gioia più grande. E mentre già chini i media di tutto il mondo faranno a gara per celebrare Leo nel modo più pomposo – e banale – possibile, io mi chiederò cosa avrebbe pensato mio nonno. In fondo a noi piaceva sentire il tamburi. Ci sono ancora i tamburi?