Come è cambiato il tifoso a distanza di vent'anni?
Ho uno di quei portafogli con la clip. Quelli in cui infili il bancomat, la patente, il codice fiscale e le varie tessere dei supermercati di zona. In testa, in evidenza ogni volta che lo estraggo dalla tasca interna della giacca, tengo sempre la mia tessera del Milan. Cuore rossonero, si chiamava. Ma ora, forse per farla sembrare più accattivante e giustificare il fatto che ti fanno pagare un extra per averla l’hanno ribattezzata CRN Card. Si sa che l’inglese tira. Ormai la porto con me solo perché mi piace il disegno del diavoletto rosso su campo nero, stilizzato negli anni Ottanta sulla falsariga del lupo di Gratton della Roma. Mi ricorda che una volta avrei fatto di tutto per essere allo stadio a seguire la mia squadra, mentre oggi mi faccio fermare da prezzi al botteghino troppo alti e siti internet perennemente impallati.
Ho ricevuto in regalo da mio padre il mio primo abbonamento allo stadio nella stagione 1994-95, quando avevo dieci anni. Prima entravo gratis, perché ogni volta riusciva a convincere il bigliettaio che ero più piccolo di quanto sembravo e quello mi lasciava sempre passare. Non ne ho idea se gli allungasse cinquemila lire o se quelli che oggi chiamiamo “steward” (sempre il dannato inglese) fossero semplicemente più umani di quelli di oggi – di sicuro meno sfruttati – ma semifinali di Coppa Campioni comprese, ho visto di tutto.
Negli occhi ho ancora il gol di testa di Desailly contro il Monaco, in un 3-0 del 1994.
Il nostro posto era dietro la porta in cui il Milan giocava sempre i secondi tempi, al primo anello verde. Di fianco, nello spicchio di curva che separava il nostro settore dalle poltroncine rosse – che ancora non prevedevano Sky box e sedili in radica rivestiti di pelle umana a disposizione di chiunque paghi un sovrapprezzo – c’erano i tifosi ospiti. Non erano rari lanci di oggetti dalle nostre parti, ma quelle sciarpate, gli striscioni e i cori spesso infarciti di dialettalismi erano uno spaccato di umanità sempre interessante da osservare prima dell’inizio della gara. Mio cugino, ultras del Viareggio, la volta che era venuto con noi allo stadio li aveva osservati in estasi per l’intera gara.
Oggi sono stati esiliati al terzo anello, la “piccionaia”, lontani dagli occhi e rinchiusi in una rete che limita la loro visibilità, nonostante si siano sobbarcati un viaggio solo per amore. Tutto in favore del dio denaro, perché il valore di quello spicchio di primo anello negli anni è lievitato, allora perché “regalarlo” a un branco di buzzurri venuti da fuori? Dal 2002, per varie vicissitudini, mio padre aveva smesso dopo più di un trentennio di venire allo stadio e io mi ero dovuto arrangiare con le mie risorse di diciottenne. Scarsissime, invero.
Per mia fortuna ero diventato amico del figlio di uno dei capi della curva milanista e, grazie a lui, ero riuscito a ottenere la tessera allo stadio a un prezzo di favore, quello riservato al tifo organizzato. Per un abbonamento al terzo anello blu pagavo circa ottanta euro, mentre per le tre partite del girone di Champions il prezzo si aggirava intorno ai trenta o quaranta euro. Non erano cifre pazzesche, ma non avendo più il portafoglio di mio padre a finanziarmi era tutto quello che riuscivo a permettermi.
Erano anni in cui ancora si faceva la conversione tra lire ed euro – spesso con una piccola calcolatrice blu inviata dallo stato a ogni famiglia – e ogni cifra sembrava doppia rispetto a quanto appare oggi. Paragonare quei prezzi per l’intera stagione ai novantacinque euro richiesti per il biglietto dei quarti di Champions tra Milan e Napoli in quello stesso settore – in cui la visibilità è buona, ma l’esperienza a quelle altitudini tutt’altro che coinvolgente – mi provoca una fitta allo stomaco. Forse è rabbia, o forse la gastrite che incombe.
La stagione 2002-03 era quella del ritorno in Champions League dopo un anno di purgatorio in Coppa UEFA. Dell’arrivo di Seedorf, Rivaldo ma soprattutto Nesta. Di Ancelotti alla prima esperienza da inizio dell’anno sulla panchina del Milan, dopo che nella stagione precedente era subentrato a campionato in corso al turco Fatih Terim, raddrizzando in extremis la baracca. I motivi per non perdersi una partita c’erano tutti e io, come i sessantaquattromila e oltre di media che a ogni partita riempivano lo stadio, non mi legavo all’albero maestro della nave come Ulisse. Lasciavo perdere ogni precauzione e mi tuffavo ad abbracciare le sirene del bel calcio cantato dal solito duo da crociera Berlusconi/Galliani.
Per uno abituato al caviale del primo verde, però, il terzo anello blu puzzava di esilio, umidità e muffa. Per uno che aveva sempre visto davanti agli occhi le coreografie della Sud, guardarle da sopra e capirci poco o niente aveva un sapore punitivo. Per chi aveva visto Weah venirgli incontro come una marea in piena nel famoso gol al Verona, l’idea di intuire una scena simile a volo d’uccello, qualora si fosse ripetuta, era dolorosa. Dovevo fare qualcosa, trovare un escamotage.
Di una cosa ero certo: al terzo anello non ci volevo andare e quindi toccava ingegnarmi. Soldi non ce n’erano e toccava seguire la corrente. Lasciarmi assorbire nella zona franca fatta di mille piccole illegalità e stratagemmi che confinava con piazzale Lotto e aveva la sua cattedrale nello stadio.
La via più semplice, una volta varcati con l’abbonamento i cancelli esterni, era scegliere un’entrata di accesso al secondo anello presidiata da un paio di miei coetanei – più in forma ma decisamente meno professionali dei colleghi più anziani – mostrare in modo frettoloso la tessera e, alle intimazioni di alt!, accelerare il passo e salire le scale due a due fingendomi preso dai miei pensieri. Stessa cosa, ma con uno scatto in salita, se si sceglieva di utilizzare le rampe. Spesso presidiate in modo altrettanto distratto ma prive di scappatoie (tipo i bagni) in caso qualcuno si lanciasse alla rincorsa. Ovviamente i tornelli e i lettori ottici non erano stati ancora inventati, il biglietto era vidimato con una punzonatrice a mano e ogni volta gli addetti perdevano qualche secondo extra per mirare lo spazietto con il numerino della giornata corrispondente. Sfruttare quegli attimi di disattenzione era un’arte kung-fu appresa partita dopo partita.
Così io e il gruppo di amici con cui andavo allo stadio riuscivamo a entrare in secondo blu o arancio, in mezzo alla curva del Milan o in posti che costavano due o tre volte più dei nostri. In quel modo avevamo assistito in prima fila – come diceva una vecchia pubblicità del canone Rai – a momenti epici come il Milan-Ajax dei quarti di finale. Finito 3-2 grazie a un gol al novantunesimo di Pippo Inzaghi – per i tabellini assegnato a Tomasson – arrivato in cielo con il piedone su una sponda aerea di Ambrosini salvando la mia squadra del cuore da un’eliminazione certa per la regola dei gol in trasferta.
Già in quella partita, il boato di San Siro al gol decisivo era stato qualcosa di impressionante. Il cemento sotto ai piedi vibrava, gente da ogni parte mi abbracciava, mi spingeva in alto e in basso e non saprei nemmeno quantificare il numero di lividi che mi ero ritrovato sul corpo al termine di quella sorta di pogo senza musica. Senza altoparlanti che sparavano Freed from Desire di Gala a tutto volume, soprattutto. Il coro più gettonato era Sarà perché ti amo dei Ricchi e poveri, vuoi mettere? Non avevamo un posto nostro, visto che nel marasma della curva chi primo arrivava meglio stava, ma di certo alla fine di quell’impressionante onda umana eravamo da tutt’altra parte rispetto a dov’eravamo all’inizio della gara. Euforici, ubriachi e increduli.
Quella vittoria ci dava l’opportunità di disputare il primo derby in semifinale di Champions League della storia di Milano. Il momento più alto di sempre del calcio cittadino, in un’annata di A dominata dalla Juventus di Moggi, Giraudo e Bettega. In campo non ricordo chi ci andasse.
All’andata, con il Milan in casa, non era stato difficile grazie al mio amico trovare un biglietto. Non c’erano prelazioni per i detentori di carte speciali, prezzi di favore per chi comprava pacchetti riservati alle aziende, code virtuali o biglietti premio per influencer e instagrammer. Far parte del tifo organizzato, o come nel mio caso essere amico di qualcuno che ne faceva parte, era il modo migliore e più democratico per avere un accesso premium. Poi una volta dentro erano affari tuoi. Una sorta di patente della passione: se avevi il Milan nel cuore, per davvero, e i tuoi legami con il mondo/stadio erano di lunga data e comprovati per te un modo di assistere alla partita si trovava sempre. Diversamente da oggi.
Nonostante le attese, tuttavia, la partita era stata un pianto. Prevedibile, certo, ma non meno deludente.
Hector Cuper, l’allenatore interista, aveva messo in campo una formazione abbottonata e Ancelotti, che sapeva bene che con la regola del gol che vale doppio in trasferta sarebbe stata dura rimontare al ritorno, gli era andato dietro. Qualche occasione c’era stata, ma le migliori si erano concluse con sparacchiate da fuori e una deviazione smozzicata di Shevchenko sotto misura parata facilmente da Toldo. Troppo poco per distrarci dal piacevole torpore generato da qualche Caffè Borghetti di troppo e dalla pratica preferita da ogni teenager milanese del 2000 come dai guru indiani: fumarsi un cilum.
Ero il fortunato possessore, grazie a un ex fidanzato interista di mia sorella, di un Alverman liscio e affusolato, un manufatto creato a mano dall’omonimo maestro bolognese. Tirava a meraviglia e si nascondeva ancora meglio. Oggi sarebbe materiale per collezionisti ma nel mio caso è stato distrutto su un marciapiede da un ghisa solerte. Lo portavo nello zaino dissimulato tra panini e un bottiglione da due litri di acqua fresca – il bar dello stadio questo sconosciuto – sicuro che a chiunque avessi proposto di fumarlo mi avrebbe offerto la carica e una posizione. In una partita noiosa, per quanto importantissima, per me era un piacevole diversivo tra il primo e il secondo tempo. Normale che molti dei miei più nitidi ricordi da stadio di quegli anni si fermino alla prima frazione di gioco.
Lo 0-0 finale aveva rimandato tutto al ritorno la settimana successiva, con un grande vantaggio per il Milan: in caso di gol l’Inter sarebbe stata obbligata a vincere per passare. In una città in fermento, con fazioni mai così nette e divisioni che si creavano sin dentro alle famiglie – con il sopracitato ex ragazzo di mia sorella, nel mio caso – trovare i biglietti si era rivelato impossibile. Anche la curva, costretta in trasferta a Milano, mi aveva voltato le spalle. Toccava trovare soluzioni di ripiego.
Gli amici con cui andavo allo stadio, mentre io mi gingillavo in primo verde coi soldi del papi, negli anni erano stati capaci di inventare escamotage geniali quanto decisamente illegali, tanto che ne parlo sperando che sia tutto andato in prescrizione.
La loro destrezza gli aveva permesso colpi come l’entrata in primo rosso alla finale di Champions 2001 tra Bayern e Valencia – disputata a San Siro – utilizzando un pezzo di cartellone pubblicitario della partita strappato nei punti giusti e riassemblato tipo collage. Avevano inserito la loro creazione in uno di quei porta pass in plastica che ti danno per entrare alle fiere, legati al collo da un nastro con il loghino Champions regalo di qualche sponsor, ed erano riusciti a entrare in quattro passandoselo di mano in mano dal cancello. Correre come al solito oltre ai bigliettai – soprattutto a partita iniziata – una volta superati i cancelli era stato uno scherzo.
Stante che ripetere il giochino del finto pass in uno stadio più presidiato che mai era complicato, le soluzioni erano due: scavalcare o trovarmi un biglietto, anche dai bagarini se necessario.
Per scavalcare le recinzioni metalliche all’esterno, il modo più comune era prendere una transenna, usarla come scala e arrampicarsi fino a un angolino tra uno dei piloni che portano al terzo anello e le grate. Quello spazio, situato in un angolo cieco della stradina che costeggia l’ippodromo, non lontano dalla biglietteria fuori dalla Sud, permetteva di saltare dentro l’impianto, ma la difficoltà non era da poco e il rischio di essere acchiappati una volta dentro altissimo. Due amici, arrivati allo stadio al mattino – io ero stato costretto a scuola da un’interrogazione – erano riusciti in quell’impresa, ma poi avevano dovuto stare nascosti tutta la partita tra i sedili in piccionaia, cercando di non farsi scoprire dagli steward/inservienti e dai poliziotti che giravano tra i settori. Alla fine ce l’avevano fatta, ma l’attesa era stata infinita, le privazioni degne di un Sant’Antonio nel deserto.
Per quanto mi riguarda, avevo provato con i bagarini, ma tra richieste in linea con i prezzi odierni e biglietti falsi la rincorsa al tagliando tanto atteso – cominciata alle tre di pomeriggio – alle otto e mezza di sera era ancora in alto mare. Con un gruppo di amici nelle mie stesse condizioni volteggiavamo intorno allo stadio come squali famelici in cerca di un’occasione. Poi, di colpo, avevo sentito l’odore di un biglietto. Intorno a un bagarino si era creata una folla scomposta e facendomi largo a gomitate ero riuscito a mettermi in prima fila. Il venditore abusivo stava tirando sul prezzo con un ragazzino che come me aveva più tempo libero che denaro e la trattativa si stava prolungando. La richiesta era di quaranta euro, la proposta di circa la metà. Se era una messinscena io non me n’ero accorto.
Senza mostrare indecisioni mi ero messo in mezzo e avevo offerto i quaranta richiesti e il bagarino mi aveva messo il biglietto in mano. Prima di dargli i soldi avevo tentato di guardare meglio il tagliando, ma quello me ne aveva messo subito in mano un altro. Non ci potevo credere.
Nella mia testa pensavo si fosse sbagliato, distratto dal momento di grande concitazione, così gli avevo consegnato i soldi in un lampo ed ero corso via a tutta velocità. Due biglietti di secondo anello blu per quaranta euro era un prezzo fantastico. Pure all’epoca. Con le braccia al cielo e i biglietti stretti in mano mi ero messo a correre euforico intorno allo stadio. Quando un amico mi aveva visto, gli avevo spiegato in breve cos’era successo e avevamo preso a correre insieme in un remake dell’esultanza di Boban e Weah dopo il gol contro alla Juve a Torino nella stagione 1998-99. Un biglietto a me, uno a te e ci eravamo messi in fila per entrare.
Come ho detto, i controlli erano più attenti del solito, ma con il biglietto che mi certificava più furbo di un bagarino stretto in mano ero passato senza problemi. Sembrava tutto perfetto e mi ero messo a pochi passi dall’ingresso ad attendere che anche il biglietto del mio amico venisse controllato. Mi sentivo in regola, oltreché baciato dalla fortuna. Mi piacerebbe raccontare di essere riuscito a entrare e di aver visto la partita più importante della stagione in Curva, come sempre in quell’annata mitica, ma non avevo fatto i conti con un bigliettaio più pignolo della media.
Se io, come al solito, avevo mostrato il tagliando a un ragazzo giovanissimo – stavolta senza alcuna malizia – il mio amico lo aveva dato in mano a un vecchio incattivito da anni di fregature prese ed evitate che subito aveva notato l’inghippo. I biglietti, seppur fatti a regola d’arte, ologrammi compresi, erano infatti falsi e dopo aver fermato il mio amico il vecchio bigliettaio solerte aveva mandato due carabinieri a fermare anche me. Per nostra fortuna, si erano limitati a sbatterci fuori dallo stadio, ma a quel punto era troppo tardi per tentare altre strade e siccome non avevamo voglia di perderci nemmeno un minuto della partita più importante dell’anno – e del secolo appena nato – avevamo tristemente ripiegato su un baretto di zona.
L’esaltante gol di Sheva, da delirio. Quello di Martins sul finale, che ci aveva terrorizzati. Il miracolo di Abbiati su Kallon a tempo scaduto, forse più importante di quello altrettanto celebre di Perugia che ci aveva regalato lo scudetto quattro anni prima, erano tutti passati un po’ in sordina di fronte alla delusione di non aver partecipato in prima persona a quella serata. Sta di fatto che con due pareggi avevamo passato il turno, e a quel punto non ci restava che pensare alla finale.
A Manchester avremmo affrontato la Juventus, in un altro incredibile derby tutto italiano, e stavolta il biglietto era alla nostra portata: novanta euro, trasporto compreso, avremmo avuto l’occasione di assistere dal vivo alla gara decisiva per la sesta Champions League della storia rossonera. Ma c’era la maturità e centottantamila lire non erano uno scherzo per dei ragazzini come noi. Nonostante avessimo potuto stringere il biglietto tra le mani, io come altri avevamo dovuto rifiutare. Ce l’ho ancora con me, quel biglietto. Un regalo da parte di chi era stato a quella finale a chi non aveva potuto farne parte.
Bellissimo, con la Champions che si alterna all’Old Trafford a seconda di come lo guardi. Mi ero rifatto pochi anni dopo, ad Atene. Non più diciottenne, senza più Alverman né Borghetti e ormai universitario fuori sede.
Era stato bello lo stesso, ma a differenza di quella Champions tutta italiana aveva avuto il retrogusto amaro del fondo del caffé. Delle cose che stanno finendo. Dopo quel trionfo il Milan aveva cominciato la sua discesa verso il basso che lo ha portato alle stagioni da pezzenti dei parametri zero, poi in mano ai cinesi e quindi ai fondi speculativi. Che come da organigramma aziendale speculano, soprattutto sull’amore di noi tifosi. Con lo stop ai tifosi sugli spalti a causa del Covid, e il conseguente rimborso di metà circa del valore del mio abbonamento in primo blu, ho passato un anno e mezzo lontano dagli stadi. E quando la campagna abbonamenti è ripartita all’inizio di questa stagione ho deciso di non rinnovare.
Il prezzo del primo blu mi sembrava troppo alto – temevo che ancora ci sarebbero state chiusure o cambi di rotta – e per provare a cambiare settore mi ero scontrato come sempre mi capita con le lentezze e i malfunzionamenti congeniti del sito del Milan. Dopo svariate mezzore a cercare il posto adatto avevo mi era passata la voglia, come spesso mi capita oggi che ho quarant’anni e altre cose più importanti a cui pensare – figli, figli e sempre i figli – e ho lasciato perdere.
Oggi che vorrei andare a vedere il remake vent’anni dopo della semifinale un po’ mi rode. Comprare i biglietti senza avere la prelazione abbonati è quasi impossibile, anche se si è disposti a spendere quei cento euro e più che oggi come allora sono l’investimento che ho deciso di fare per l’intera stagione. Prima vedevo tra le venti o trenta partite, oggi nemmeno una, maledetta e subito.
Spero che i miei figli non faranno le stesse cazzate che ho fatto io allora. Lo spera qualsiasi genitore. Ma se andare allo stadio continuerà sempre più a essere considerato un privilegio per pochissimi – e gli altri si affollino di fronte agli altrettanto cari abbonamenti ai televisori e zitti – non ne avranno nemmeno più molte occasioni. Ora sono piccoli e chissà tra una quindicina d’anni, quando avranno i diciott’anni che avevo io in quel 2003, che cosa ne sarà del nostro povero calcio. Mi sarebbe piaciuto portarli a San Siro a vedere Milan-Inter, ma sarà per la prossima volta… vent’anni passano in fretta. Di occasioni così chissà quando ne tornerà un’altra.