Italia
19 Aprile 2022

Dietro la rinascita del Milan c'è (anche) Paolo Maldini

Tra Pioli e i giocatori, c'è il peso della storia.

Mancano cinque giornate al termine del campionato e la volata scudetto sta entrando nella sua fase più calda. E se il Milan può oggi ottenere la vittoria finale, molto lo deve a Paolo Maldini. Di lui – nel 2007 – l’Equipe scriveva: «in 23 anni di carriera non si è mai allontanato da un senso della morale, del dovere, della fedeltà e dell’etica che ne fanno una delle icone del calcio». Gli stessi valori che oggi ha riportato nel ruolo di direttore tecnico contribuendo, in quattro anni, alla rinascita del Milan – giusto compendio tra estro giovanile e raziocinio maturo.

Il nome di Paolo Maldini è echeggiato almeno una volta nelle orecchie di tutti, calciofili e non. Simbolo di un’Italia ormai scomparsa la cui scala di valori poggia su famiglia e tradizione, per più di vent’anni è stato il totem delle difese di Milan e nazionale. Sulla prima vita di Maldini – quella da calciatore – la saggistica è vasta, quasi sterminata. Delle imprese di quel ragazzo che giocava con la numero tre sulle spalle si conosce ogni minimo particolare, l’aneddotica sportiva non tende certo al risparmio.

Poi il 24 maggio 2009. Il ritiro, l’inizio di una nuova primavera: fuori il calciatore Paolo Maldini e dentro l’uomo Paolo. Termina l’attività agonistica a 41 anni, un’età in cui si traggono i primi bilanci. Uno sguardo rivolto al passato e uno, soprattutto, proteso al futuro. Un passaggio fondamentale – utile a capire cosa si è stati e chi si vuole diventare – segnato da un rito simbolico, quasi iniziatico: il taglio dei capelli. «Il giorno dopo la mia ultima partita» – ricorda a Sette – «sono andato a tagliarmi i capelli. Da lunghi a corti, come li porto ora. Volevo essere altro. Sentirmi apprezzato o meno per quello che ero davvero, non perché ero Paolo Maldini, l’ex calciatore».

I capelli dicono tantissimo (se non tutto) sul portato umano di un calciatore (e non solo).


Nel frattempo, il Milan prova a ripartire senza di lui. Il tandem Berlusconi-Galliani allestisce squadre ancora competitive, è vero, ma senza soluzione di continuità. Qualche trofeo da mettere in bacheca arriva ugualmente – uno Scudetto e due Supercoppe – ma la fulgida era berlusconiana volge al termine. Il 2016 coincide con il prolisso e discusso passaggio del club nelle mani del cinese Li Yonghong.

Ed è in questo momento di snodo, storico per la società milanese, che dalle parti di via Aldo Rossi si torna a parlare di Paolo Maldini. Il teatrale binomio Fassone-Mirabelli lo vorrebbe in dirigenza come responsabile dell’area tecnica. Chi, se non lui, potrebbe incarnare la rinascita nel segno della tradizione? Segue quindi un rapido contatto con il direttore esecutivo David Han Li ma la trattiva non decolla. Maldini vorrebbe parlare a quattr’occhi con i membri della cordata cinese. Nessuno si fa avanti. Soltanto poca chiarezza e tante voci che si rincorrono.

sampdoria milan maldini
Maldini nel ’96 in contrasto su Roberto Mancini

Un progetto realmente serio non c’è, il Milan è un porto immerso nella nebbia. Maldini, con un comunicato pubblicato sul suo profilo Facebook, prende le distanze rispedendo l’offerta – se mai davvero c’è stata – al mittente. «Il Milan è sempre stato per me un affare di cuore e passione, la mia storia, quella di mio padre e quella dei miei figli lo dimostrano e nessuno potrà cancellare questo nostro legame con i colori rossoneri. Proprio questo forte legame mi impone di essere attento, preciso e professionale nell’accettare l’incarico che mi è stato offerto; certo, sarebbe molto più facile seguire l’emozione della proposta e dire di sì, senza pensare alle possibili conseguenze e partire a testa bassa in questa nuova avventura.

Invece no, non posso, devo rispettare i valori che mi hanno accompagnato durante tutta la mia vita, devo rispettare i tanti tifosi che si sono negli anni identificati in me per passione, volontà e serietà, devo rispettare il Milan e me stesso».

Passa poco più di un anno e accade l’impronosticabile: l’11 luglio 2018 il fondo statunitense Elliott – mediante la società lussemburghese Project RedBlack – ottiene la proprietà del Milan subentrando di fatto a Li Yonghong. Dieci giorni più tardi l’intero consiglio di amministrazione è sollevato da ogni incarico.


Il nuovo Milan targato Elliot,

la (seconda) chiamata a Paolo Maldini


Così Paul Singer, fondatore, Co-CEO e Co-CIO di Elliott Management Corporation, commenta la vicenda: «L’elezione di un nuovo Consiglio d’Amministrazione segna un ulteriore passo per riportare il Milan sulla giusta strada. Elliott è ben attrezzata per fornire stabilità finanziaria e adeguata supervisione, elementi fondamentali per il successo sul campo e un’esperienza di livello mondiale per i tifosi. Riconosciamo il posto di primo piano che AC Milan occupa nel mondo del calcio e siamo consapevoli della responsabilità che deriva dal possedere una franchigia tanto storica».

Intanto emergono le prime indiscrezioni sul ritorno a casa di Paolo Maldini. Convinto dalla bontà del progetto e dalla mediazione dell’amico Leonardo (allora direttore generale dell’area sportiva), il 5 agosto arriva l’ufficialità: la bandiera rossonera è il nuovo direttore strategico dello sviluppo dell’area sport. La prima stagione dietro la scrivania è complessa – specie sul fronte amministrativo – ma educativa.

Non mancano i momenti di scoramento e la strada comincia in salita. Maldini dice di sentirsi inutile, avulso dal contesto dirigenziale. Ma Maldini si ricorda di essere Maldini. Da sempre incline all’etica del lavoro, si rimbocca le maniche, reagisce e inizia a comprendere le logiche di gestione amministrativa. L’annata 2018-2019 termina con un amaro – ma speranzoso – quinto posto e con le dimissioni di Leonardo. Maldini si trova così orfano del suo Virgilio, la guida che nei primi sei mesi di apprendistato è stata per lui un appoggio fondamentale nei meandri del management.

leonardo milan maldini psg
Leonardo, l’intermediario per eccellenza

Ma se di primo acchito la notizia lo spiazza, poco dopo capisce che è arrivato il suo momento. Nominato nuovo direttore tecnico, in quel preciso istante prende consapevolezza di essere «tornato in una situazione dove non avevo nessuno che mi faceva da scudo. Quello che ho sempre cercato». Affiancato da Zvonimir Boban – poi licenziato per nel 2020 – e Frederic Massara, Maldini dà il La alla rinascita rossonera. E lo fa muovendosi con accortezza lungo due binari: politico il primo, squisitamente dirigenziale il secondo.


L’addio di Boban e la genesi del Maldini dirigente


È innanzitutto decisivo sul fronte mercato: tra i più bravi – se non il più bravo – a perorare la causa milanista, spesso basta soltanto il suo nome per convincere a sposare il progetto rossonero. Inoltre, Maldini ha grande intuito. Quando il Milan acquista Theo Hernandez per 20 milioni, Maldini gioca un ruolo chiave nella trattativa strappandolo al Leverkusen. Oggi il terzino francese vale almeno il doppio ed è uno dei principali interpreti del ruolo. Stesso discorso vale per Fikayo Tomori (che lo ha dichiarato pubblicamente in un’intervista) e ancor di più per Sandro Tonali.

Ma la lista è lunga e i nomi sono tanti. Il percorso che Maldini ha intrapreso è stato fin qui lineare, privo di sbavature. L’unico errore commesso è l’aver puntato – stagione 2019/20 – su Marco Giampaolo, a cui ha subito posto rimedio pescando la carta Stefano Pioli e convincendo Zlatan Ibrahimovic a ritornare a Milano. Due scelte fondamentali che hanno coinciso con un cambio di mentalità e che hanno segnato uno netto scarto – forse complice anche la pandemia – tra il Milan del 2019 e il Milan del 2020.

Ma Maldini non è soltanto il demiurgo del mercato rossonero; è anche una costante a Milanello. Una presenza fondamentale che infonde tranquillità all’ambiente e stimola la squadra. Inoltre è un punto di riferimento senza pari, soprattutto per i più giovani. Maldini non si limita ad assistere agli allenamenti del Milan, al contrario dispensa consigli tecnico-tattici ai giocatori che non possono che farne tesoro.

Calciatori che per quanto tutelati non vengono comunque prima della società. Prima il Milan, poi il resto.

Un diktat che Maldini ha ribadito in più occasioni, anche al costo di perdere pedine certamente importanti, ma non indispensabili. Come successo lo scorso anno con Donnarumma e Cahlanoglu e nella prossima sessione di mercato con Kessie. In un calcio ormai umile ancella dei procuratori, il direttore tecnico rossonero ha ribadito ancora una volta la sua caratura umana e professionale, non cedendo al ricatto dei procuratori. Una presa di posizione che trasuda i veri valori dello sport e che fa intuire lungo quale direzione si stia muovendo il Milan.


Infine due parole sul fronte dirigenziale, strettamente connesso con quello politico del nuovo Paolo Maldini. In linea con i colleghi Ivan Gazidis e Frederic Massara, l’ex difensore rossonero sta perseguendo una politica di austerità con l’intento di generare valore attraverso i giovani. Niente spese folli, grande attenzione alla sostenibilità e investimenti oculati sul mercato. Già, perché il Milan di Maldini piuttosto che accogliere un parametro zero o un atleta in fase calante – Ibra e Giroud le eccezioni che confermano la regola – preferisce puntare su un talento in fieri.

Meglio sborsare una cifra ragionevole per un possibile prospetto anziché andare al risparmio per uno stipendio elevato. E la voce “stipendio” è il costo fisso che più grava sul bilancio societario. I risultati, non solo calcistici, non hanno tardato ad arrivare: se la rosa pre-pandemia aveva un valore di circa 400 milioni di euro, oggi ne vale già ben 468. Inoltre, è d’obbligo sottolineare che il Milan ha chiuso il primo semestre in utile, una rarità di questi tempi. Insomma, con garbo ed eleganza Maldini ha preso per mano il suo Milan e l’ha condotto a riveder le stelle. Non era affatto facile, ma ci è riuscito. E il padre Cesare, da lassù, non può che sorridere per l’ennesima sfida vinta dal figlio.

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