Coesione territoriale che non si vedeva dai tempi della Sublime porta ottomana. Basterà un maxi campionato balcanico-caucasico a salvare il calcio dell'Est?
Progresso come innovazione o progresso come fallimento? Questa domanda, circa un secolo indietro, ha prodotto e generato un’idea rivoluzionaria, sfociata nel futurismo che ripudiava tutto ciò che fosse ormai superato. Se Filippo Tommaso Marinetti fosse un contemporaneo proverebbe un senso di vuoto, oppure un colpo al cuore, fate voi, nel vedere gente che rimpiange i tempi ormai finiti ed usa, impropriamente, il termine nostalgia in qualsiasi discorso. Ma davvero non siamo capaci di accettare il presente e vedere con entusiasmo il futuro? No, non lo siamo. Questo non vuol dire, però, essere d’accordo con gli ultranostalgici, quanto più assestarsi sulla lunghezza d’onda dei razionali. Italiani ultra-conservatori, parlando del rettangolo verde, che spesso e volentieri a fatica assimilano innovazioni, i progressi et similia apportati al mondo del calcio. Scettici e drammatici per natura – figurarsi che non si riesce ancora a dare una valutazione oggettiva della tecnologia in campo.
Ma dove lo si trova un Marinetti nell’attuale calcio? Uno sterminatore di musei e passatismi? Nella figura di Rumen Vatkov. Dirigente nativo di Bulgaria ed ex responsabile marketing del CSKA Sofia, al sig. Vatkov è venuta un’idea non banale. La sua intenzione è quella di realizzare un campionato unico con i top club appartenenti a diciassette paesi dell’Est Europa. Mega League. Questo sarebbe il nome del torneo, che avrebbe una struttura molto simile a quella della Serie A: si avrebbero due gironi, A e B, con rispettivamente 20 e 22 squadre. Ad ogni fine campionato, due squadre retrocederanno dalla A alla B e cinque dalla B alla C. Quest’ultima farebbe riferimento ai campionati nazionali, dove quindi le migliori squadre si sfideranno in un mini torneo ad eliminazione diretta per ottenere uno di quei cinque posti validi per raggiungere il girone B. Struttura piuttosto semplice quanto drammatica. Molti sono i punti che non tornano, ma procediamo con calma.
Mentre nell’Europa occidentale si aggirava – e forse si aggirerà – il fantasma della Super League, che dovrebbe comprendere i maggiori club europei, ad est invece di cercare di opporsi anche solo ideologicamente ad un’impropria e controproducente rivoluzione sportiva colgono al balzo l’idea compiere lo stesso passo verso il futuro. La motivazione data dallo stesso Vatkov è stata quella di poter ridare un senso e far tornare a splendere le realtà ex sovietiche – e non – che nel tempo si sono andate perdendo per i più svariati motivi.
«Credo che unire le migliori squadre del Sud-Est Europa sia l’unico modo per farle tornare competitive come i principali top club. La Mega League potrebbe essere una delle competizioni più interessanti d’Europa, al pari della Serie A o della Bundesliga, e ho intenzione di utilizzare tutte le risorse a mia disposizione per realizzarla».
Delle parole del bulgaro ciò che preoccupa è quel “unico modo”. Tradotto: destrutturare completamente i campionati nazionali, mettere in luce il maxi-campionato tramite le televisioni ed unire i migliori club di una certa zona in una sorta di élite, per rendere più avvincente una competizione sono le uniche soluzioni per far rinascere un movimento calcistico sepolto ormai nell’oblio ed abbandonando le deboli realtà nazionali ad un medioevo perpetuo. Di progetti volti al miglioramento dei settori giovanili o delle strutture sportive, tanto per fare un esempio, stando a sentire queste parole neanche l’ombra. Benvenuti nell’epoca della competizione fratricida, quella in cui per sopravvivere si stimola la concentrazione di club e campionati per offrire un prodotto godibile. Selezione mengeliana per le squadrette di provincia. Riecheggiano minacciose le ambizioni del pantagruelico Raiola: Milan ed Inter fuse a poter concorrere, da unico club, per il vertice del calcio europeo. Distopie che prima o poi si materializzeranno se questo è il passo. Ci sono una sfilza di questioni che non sono state prese neanche in considerazione, o forse sì ma le si è ignorate, nel progetto balcanico-caucasico. Prima osservazione: verrebbero a scomparire quelle piccole realtà che da sempre sono la linfa vitale del pallone, identità ed orgoglio di piccoli luoghi sommerse e sopraffatte da chi invece avrà più possibilità economica o che avrà, semplicemente, più appeal a livello internazionale. E da questa teoria del vendere meglio possiamo dedurre una seconda considerazione. In questo grande campionato si andrebbero a scontrare squadre appartenenti a paese differenti. Vi immaginate uno scontro diretto per la vittoria del campionato tra, ad esempio, Panathinaikos e Stella Rossa? Lo spettacolo la offrirebbero sicuramente i tifosi, data anche la non eccelsa qualità delle tue squadre. Già, gli spettatori. Ma quali? Con l’applicazione di questa teoria progressista, le trasferte sarebbero vere e proprie migrazioni, con i tifosi costretti a spendere centinaia di euro per vedere la loro squadra fuori casa. Per giunta in un contesto non florido per infrastrutture e comunicazioni. Conseguenza naturale: stadi vuoti, presumibilmente. Ormai non conta più ciò che piace ma ciò che vende. Oggettivamente se un appassionato dovesse scegliere nel guardare del campionato greco, sceglierebbe quasi sicuramente il derby di Atene. Stessa identica cosa se volesse passare una serata davanti quello serbo, opterebbe per lo scontro storico di Belgrado. Ma, ovviamente, se ci fossero più scontri affascinanti, deciderebbe di guardarlo più spesso. Quindi più entrate per le tv. Ergo, maggior guadagno. Sinteticamente: il neo maresciallo Tito, il nostro Vatkov, brama ardentemente la più ingovernabile delle ragioni europee. Non è importante ciò che è bello, è importante ciò che vende. E pace se vengono completamente snaturati i concetti di primato nazionale, di sfottò tra squadre storicamente rivali. Il nemico, adesso, è a centinaia, meglio migliaia, di chilometri da casa.
Ultime osservazioni, ma non meno importanti. Per meglio comprenderle, occorre leggere attentamente l’elenco delle squadre previste dal progettoper le categorie della Mega League.
Mega League 1: per la Romania le compagini di Bucharest – il defunto o quasi Steaua e la Dynamo – e il Craiova, da poco all’apice del campionato domestico; a rappresentare la penisola ellenica il Pana e l’Olympiacos, con buona pace per squadre come PAOK ed AEK da sempre figuranti nelle coppe europee; il Večiti derbi tra Partizan e Stella Rossa per la Serbia; le formazioni di Sofia per la Bulgaria (CSKA e Levski); l’accesissimo derby di Croazia tra Hadjuk Spalato e Dinamo Zagabria; per la Slovenia il Maribor e l’Olimpija; l’Apoel Nicosia e l’Omonia per Cipro; il Vardar per la Macedonia; le bosniache Zeljeznicar e Sarajevo e, i Maccabi di Haifa e Tel Aviv per Israele. Non tediamo il lettore con l’elenco delle ventidue squadre della seconda lega ma degni di menzione sono i paesi inclusi, i cui club possono concretamente ambire alla promozione nella prima serie: Azerbagian, Albania, Georgia, Armenia, Moldavia, Kosovo e Montenegro.
Balza subito all’occhio la presenza di due club israeliani ma v’è poco di cui stupirsi: da quando nel 1974, a poco tempo dalla fine della guerra del Kippur, la federazione israeliana fu costretta ad abbandonare l’AFC – la confederazione asiatica – a favore dell’UEFA per via del rifiuto dapprima della nazionale del Kuwait, e poi di ogni altro stato islamico, di giocarvi contro. Da quel momento la presenza di Tel Aviv in competizioni UEFA è fissa, seppur non manchino movimenti d’opinione contrari, non in chiave di politica anti-sionista. Sono altre le questioni geopolitiche che stimolano scetticismo sul progetto: alla sezione ‘Project’ del sito www.megaleague.org vengono forniti i tre elementi cardine del progetto – il problema, la soluzione e la mission – ed al primo di essi si enuncia che ‘in the modern globalised world, clubs from smaller countries in Southeastern Europe have become football dwarfs. The limited financial resources they posses impact negatively their competitiveness, as homegrown talent constantly pursues better financial propositions’. Una visione oltremodo semplicistica che non tiene conto dei precari equilibri raggiunti nella regione a seguito della balcanizzazione successiva alla dissoluzione iugoslava. La Serbia, alleata strategica della Russia nella penisola, tutt’oggi patisce le conseguenze dell’indipendenza raggiunta dal Montenegro nel 2006; il piccolo neo-stato è divenuto nel frattempo un membro NATO, non collaborando ad una politica di diplomazia per l’area, ed ha avviato dal 2012 i negoziati per aderire all’UE. Un discorso similare può esser fatto per la questione kosovara. I rapporti tra Serbia e Croazia, in seguito alla guerra, sono ancora lontani da una completa stabilità. Bosnia e Macedonia presentano ancora ferite aperte. La presenza delle squadre greche e romene, in secondo luogo, non sembra chiarire la struttura del progetto.
Ancora una volta nella Storia la Penisola sarebbe pressata a Nord da i paesi mitteleuropei e dal patronato russo e ad Est dalla Turchia. L’esclusione dei primi fa riflettere: campionati mediocri come quello ceco e slovacco potevano forse essere inseriti nel progetto, argomento ancor più forte per un nobile decaduto come il calcio magiaro. Data l’estensione dei confini a paesi caucasici non si capisce il perché di queste decisioni. In verità è proprio il costrutto a monte di progetti come Superlega e Mega League ad essere quasi incomprensibile: pensare di raggiungere artificialmente competitività è assurdo senza agire strutturalmente sui sistema calcio di ogni singolo paese. L’ipotetica appetibilità del prodotto televisivo verrebbe barattata con la più elementare forma di nazionalità dei singoli club e, nel lungo periodo, la distanza maturata non potrebbe far altro che nuocere sul serbatoio cui sarebbero costretti ad attingere propri i club delle superleghe. Una NBAzzazione inesorabile del calcio, una rincorsa ad essere élite lontane dalla base di questo sport: tifosi e passione.
“Abbiate fiducia del progresso: ha sempre ragione, anche quando ha torto, perché è il movimento, la vita, la lotta, la speranza”. Marinetti riduce in questo modo il progresso. Pensare che un giorno ci potremmo ritrovare con una Super Lega ad occidente ed una Mega League ad est sarebbe, però, la morte dell’evoluzione e la resa totale del sentimento e della passione. Sempre calcisticamente parlando. Ma per noi è importante, sappiatelo.