Enrico Ciccarelli
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La morte di Pelé ha riaperto, nelle ultime ore, un vecchio dibattito: quello sul ritiro delle maglie, precisamente del numero di maglia di quei calciatori in grado di segnare la storia di un club. Nel caso di O Rei era stata la famiglia a chiedere il ritiro della numero 10 del Santos, motivo per cui il presidente del Santos, Andrés Rueda, assediato dalle domande dei giornalisti, ne aveva bloccato l’utilizzo in attesa di mettere il tutto ai voti nel Consiglio del club. Poche ore dopo, però, la decisione definitiva: la maglia numero 10 non sarebbe stata ritirata proprio per la volontà dell’ex calciatore, che in una vecchia intervista si era espresso in tal senso.
Una decisione che ha lasciato perplessi molti, convinti che non consegnare la 10 ad altri fosse la più alta forma di rispetto e riconoscenza verso il calciatore: una riconoscenza che, per sottrazione, è destinata ad essere imperitura. Attraverso il ritiro della maglia il mito continua infatti a vivere nell’assenza, che paradossalmente ne sottolinea – per sempre – l’eterna presenza. È un gesto estremo per coltivare la memoria storica e al contempo neutralizzare la natura corrosiva del tempo, un atto radicale che sancisce l’importanza, senza pari, del calciatore che l’ha indossata. Un segno di riconoscenza eterna. Una prassi che però si basa su un pilastro fallace: l’irripetibilità.
I romantici apologeti del ritiro della maglia, infatti, assumono che non potrà mai più esistere un calciatore in grado di meritare o addirittura superare chi ha indossato quel numero. Probabile, certo, ma non affatto sicuro. Già questo rende il ritiro di maglia una manifestazione di superbia umana, un atto di presunzione verso il futuro e l’inopinato. D’altronde quale altero negromante può asserire con assoluta certezza che non ci sarà mai un altro campione che possa valere – se non superare – il numero 6 di Franco Baresi (quello stesso Milan che ha avuto nello stesso reparto gente come Alessandro Nesta, Thiago Silva, Paolo Maldini…), la 6 di Aldair alla Roma, la 10 di Tavano all’Empoli, la 4 di Javier Zanetti all’Inter o di Francesco Magnanelli al Sassuolo? Tutte maglie a oggi ritirate.
Pare, insomma, che anche in un gioco stupido come il calcio l’uomo giochi a fare Dio. Con un gesto che apparentemente fa la storia ma che, invece, eternizza solo il proprio tempo e quello passato.
Tornando più sulla terra, c’è anche un problema di criterio. Chi e con quali motivazioni è chiamato a decidere su un fatto così importante per il club? Per quanto la rilevanza di un calciatore avrà infatti sempre una componente affettivo-qualitativa (attaccamento alla maglia, senso di appartenenza alla città) e sarà sempre relativa alle dimensioni e alle ambizioni della squadra, il ritiro della maglia dovrebbe anche basarsi su dei parametri riscontrabili: numero di presenze, stagioni di militanza presso il club, livello delle prestazioni, trofei conquistati o un po’ di tutto questo insieme; parametri difficili da stabilire e concordare – non pensiamo qui a Pelé o Maradona, ma agli altri casi.
E poi, appunto, a chi spetta stabilirli? L’arbitrarietà non può essere preda del sentimento – sentimento peraltro spesso a caldo, ex post-mortem – e non si può lasciare né a qualche presidente intento a trasformare il tutto in una moda celebrativa, né al furore di un popolo calcistico che, dobbiamo dirlo, dà spesso l’impressione di essere oltremodo volubile e in perenne tempesta emozionale, pronto a glorificare e poi decapitare figuratamente i propri eroi da una stagione all’altra.
Si tende, poi, a dimenticare una delle pietre angolari di questo magnifico sport di squadra, ovvero la meraviglia. Quel sentimento irriprimibile e fulminante di ammirazione spontanea, che unisce mezzo mondo nello stupore e nell’imitazione. In un calcio che affoga nel profano di contratti multimilionari, sponsor, vizi e deliri di onnipotenza, cosa resta di “sacro” ai ragazzini se non l’idea, un giorno, di indossare la maglia del proprio beniamino? Nuovi Pelé nascono sognando vecchi Pelé, nuovi Totti crescono sognando vecchi Totti – motivo per cui questi due hanno deciso di non far ritirare i propri numeri 10.
“Mi dispiacerebbe levare a ogni giovane, ogni bambino il sogno, che io ho realizzato, di indossare la maglia numero 10 della Roma”.
Francesco Totti in un’intervista del 2017
Infine, come dimenticare l’importanza dei numeri nel calcio. Il numero, nel gioco del pallone a scacchi, non è mai “soltanto un numero”, ma ha un connotato che va oltre, un significato simbolico ed evocativo: il 9 rappresenta per antonomasia il bomber. L’1 il portiere, il protettore della porta e del risultato. Il 10 lo indossa il game-changer, il fantasista della squadra, solitamente il più tecnico e di classe. Il 7 è spesso l’esterno decisivo, tutto dribbling e corsa. E potremmo continuare ancora. Privare per sempre una squadra di questi numeri, per quanto ormai la caratterizzazione numerica si sia smarrita, significa mozzare anche le future investiture.
Opporsi al ritiro di maglia, in definitiva, non significa sminuire l’unicità e l’immortalità di un campione, anzi, vuol dire l’opposto: celebrarne il ricordo ogni giorno e cullare la speranza che ci sia qualcuno che possa eguagliare la sua posizione nella storia – l’unica possibile eccezione, la 10 di Maradona al Napoli, giocatore (quasi certamente) irripetibile per sua stessa natura e per il legame con la città, ma lì si trattava davvero di mistica, di religione laica.
Al contrario, ritirare una maglia significa privare intere generazioni di un sogno, rendere un singolo giocatore più grande della squadra (con una decisione presa, magari, nell’emotività della morte). Per quanto si proponga come un omaggio sincero, sentito, è un gesto che tradisce in realtà l’essenza più romantica del gioco più bello del mondo: un gioco che è diventato fenomeno sociale unendo generazioni e continenti, la storia e la geogriafia, e che, al di là di tutto, sarà sempre più grande dei suoi singoli protagonisti.