Dodici anni fa David Foster Wallace definiva così le magiche prodezze del Re svizzero. Nel 2017 mister 18 Slam è tornato, vincendo i primi tre più importanti tornei della stagione e sconfiggendo la sua nemesi di sempre, Rafael Nadal.
Me lo ricordo come fosse ieri, il momento peggiore della carriera di Roger Federer. È il 2013, l’annus horribilis del Re. Roy Emerson Arena, Gstaad, 25 luglio, primo turno dell’omonimo torneo elvetico. Di fianco a me ricche signore ben vestite, accompagnate da distinti signori con gli occhiali scuri e con un cappello di paglia. Davanti a me, fra le Alpi svizzere, l’ex n. 1 del mondo, per molti il più grande tennista della storia, arrancava contro un tedesco di grande statura e dai colpi possenti, il n. 55 del ranking Daniel Brands. La schiena a pezzi, il sudore che gli scorreva sulle tempie altrimenti immacolate, sulla T-shirt perfetta, quella tangibile sofferenza che deriva dall’impossibilità di reagire. Nettissima la sconfitta: 6-3 6-4 in poco più di un’ora, davanti allo sguardo attonito degli spettatori.
La piccola, opulenta cittadina di Gstaad, meta di villeggiatura alpina di lusso e di hotel a cinque stelle, rischiava di diventare l’inesorabile palcoscenico della fine di Roger Federer, che già pochi mesi prima a Wimbledon era stato fatto fuori da Sergiy Stakhovsky (n. 116) e poi ad Amburgo, per mano di Federico Delbonis (n. 114). Ricordo ancora il suo volto truce illuminato dal sole, mentre si avvicinava verso la rete per stringere la mano al Carneade che quel giorno aveva vinto il match della vita, per poi inchinarsi stancamente verso gli spalti e fuggire nell’oscurità verso lo spogliatoio. È stato quel match, forse, il momento più basso della carriera di Roger: non a Wimbledon, ma nel primo round dell’insignificante Atp 250 di Gstaad, nella sua Svizzera, fra donne attempate con ventagli floreali e giovani tennisti in erba venuti da tutti i Cantoni per vedere un campione diventato l’ombra di se stesso.
Quasi quattro anni dopo, a Miami, nell’immenso Tennis Center a Crandon Park, c’è ancora lui, Federer. Il caldo questa volta è insopportabile e, fra un cambio campo e l’altro, Roger deve bagnarsi la testa e la maglietta con acqua ghiacciata da una bottiglietta. Dall’altra parte del campo, l’avversario, sudatissimo, pare reduce da un tuffo in piscina. Le condizioni però sono cambiate: la posta in palio è il titolo del prestigioso Master 1000 di Miami, da molti soprannominato il “quinto Slam”, e lo sfidante è Rafael Nadal, il suo più grande rivale di sempre, che negli scontri diretti conduce 23 a 13. Dal 2013 ne è passata di acqua sotto i ponti: il dominio incontrastato di Novak Djokovic ha proseguito, scalfito solo dagli exploit di Stan Wawrinka e di Andy Murray, che nel 2016 gli ha rubato il trono.
Nel frattempo Roger ha conquistato tre finali, due a Wimbledon (2014, 2015) e una agli Us Open, due anni fa, ma il serbo gli ha sempre sbarrato la strada. Il 2016 per Roger è un anno complicato, segnato da infortuni fisici sin dagli Australian Open. A luglio, poco prima delle Olimpiadi di Rio, Roger annuncia su Facebook che salterà tutta la stagione per recuperare dall’infortunio al ginocchio e rientrerà nel 2017. Il timore del ritiro imminente, ripetuto per anni come un mantra da sedicenti Cassandre, sembra quanto mai reale: Roger, che non ha mai avuto problemi fisici, a 35 anni deve far fronte allo stop più lungo della sua carriera senza alcuna certezza sulla sua totale guarigione. Molti si chiedono: ma chi glielo fa fare? «Tornerò. Amo il tennis più di ogni altra cosa e voglio continuare a giocare», chiarisce subito Roger, ma in tanti lo prendono per una frase fatta. E invece no.
È l’Australia la terra della seconda giovinezza di Roger Federer, che come Fenice rinasce dalle proprie ceneri. Prima torna alla Hopman Cup, torneo-esibizione a squadre a Perth, che aveva vinto in gioventù con la veterana Martina Hingis (anche lei, di rinascite, ne sa qualcosa). Questa volta scende in campo insieme alla 19enne Belinda Bencic: i due si fermano in semifinale, contro la Francia di Mladenovic e Gasquet. Poche settimane dopo, a fine gennaio, esordisce agli Australian Open, in una delle edizioni più pazze del circuito. Novak Djokovic, da tempo disturbato dai suoi demoni interiori, esce in quattro set per mano dell’onesto artigiano uzbeko Denis Istomin; Murray, inadeguato nelle regali vesti di nuovo primatista e tormentato da qualche problema fisico, finisce per cadere agli ottavi nella rete del tennis imprevedibile e funambolico di Mischa Zverev, autentico poeta della racchetta. I giovani del circuito si sbriciolano come pezzi di torta e in semifinale ci vanno tre ultratrentenni: Federer, Stan Wawrinka e Rafa Nadal, che supera al quinto il baby-Fed Grigor Dimitrov. Stan si arrende con onore al più blasonato connazionale, regalando agli appassionati di tutto il mondo una insperata finale dei sogni, fra i due più grandi tennisti degli ultimi vent’anni e forse di sempre, che hanno emozionato, diviso, unito milioni di persone. È la nona finale Slam che giocano insieme, la 35esima sfida nell’arco di tredici anni.
Eppure, quel giorno a Melbourne, sembra essere tornati indietro nel tempo di due lustri, non fosse altro perché il giorno prima, nella finale femminile, si erano sfidate le sorelle Williams. Venus e Serena, 71 anni in due, capaci ancora di fare le scarpe alle ragazzine. Se fosse stato il 2007, forse, anzi quasi certamente, avrebbe vinto Nadal. Roger, esteta di classe, ultimo erede dei tennis dei gesti bianchi, ha sempre subito la forza mostruosa del minotauro maiorchino, prototipo della macchina perfetta di tecnica, agilità e tenacia mentale in grado di annichilire per sfinimento qualsiasi avversario. Nel 2004 l’iberico, allora imberbe 17enne, lo aveva umiliato da numero uno del mondo, al secondo turno di Indian Wells e da allora era stata la sua nemesi, l’unico giocatore in grado di far vacillare la sua superiorità, di mettere in discussione il suo primato nelle pagine della storia del tennis. L’unico che lo aveva battuto su tutte le superfici, che gli aveva strappato sei titoli Slam e una marea di altri tornei importanti, che gli aveva negato per anni il raggiungimento del Gran Slam Career spadroneggiando al Roland Garros – fino a che, nel 2009, un ragazzone svedese di nome Robin Söderling non ha deciso di sbarrargli la strada, consentendo all’elvetico di alzare la Coppa dei Moschettieri. L’unico che lo aveva fatto piangere in un campo da tennis, al termine del match agli Australian Open 2009, la terza finale Slam persa in meno di un anno, dopo avergli rubato il primo posto in classifica. Per anni Federer ha avuto un timore reverenziale verso Nadal: un nervosismo quasi tangibile in ogni partita, legata alla paura di fallire contro quel ragazzo più giovane, spregiudicato e affamato.
Dieci anni dopo, però, le cose sono cambiate: Rafa, superata un’Odissea di problemi fisici, non è più quel mattatore spietato e dai nervi d’acciaio. Federer, al contrario, dopo aver visto da vicino l’ipotesi del ritiro imminente, non ha più quella pressione di dover dimostrare qualcosa. D’altronde, Roger sa di essere un campione in declino e non è numero uno del mondo già da un pezzo. Dopo il suo lungo stop, lo svizzero gioca finalmente con sorprendente leggerezza, liberando il braccio e il tocco, spinto dall’unica cosa che davvero sente importante: il suo amore per il tennis, immenso, sublime, apparentemente privo di secondi fini.
Supportato dall’ottima condizione fisico e dall’ingresso nel team di mister Ivan Ljubicic, fondamentale nel miglioramento del suo rovescio e del suo controllo mentale nell’affrontare i match, Roger scaccia finalmente i demoni, le sue paure, che avevano il volto (anzi, il braccio mancino) di Rafael Nadal. Finalmente Roger ha le armi e il coraggio di trionfare, al termine di una maratona al quinto set: 6-4 3-6 6-1 3-6 6-3 il risultato finale. A 35 anni, da n. 17 del mondo, Federer compie il miracolo conquistando il suo 18esimo Slam, a cinque anni di distanza dalla sua ultima vittoria in un Major. Ma quello che, più dei numeri, stupisce il mondo, è la straordinaria qualità del tennis che ammirava il compianto scrittore statunitense David Foster Wallace oltre dieci anni fa, e che è rimasto intatto: un’esperienza mistica, quasi religiosa, la materializzazione di una meraviglia, di un incanto. Ci piace pensare che il geniale David abbia avuto la possibilità di seguire il match dai Campi Elisi, o da un’altra dimensione, davanti a bottiglie di whisky e quintali di junk food.
Si dice che chi sente il baratro, chi si accorge della possibile fine e si salva, non può che risalire. Federer lo ha fatto, spazzando via l’ombra irriconoscibile di se stesso che avevo visto anni fa a Gstaad, recuperando al meglio da sei lunghi mesi di stop, ma soprattutto, dimostrando di non essere un leone vecchio e stanco che può far ancora bella figura nei tornei che contano, ma poi cede sempre nell’atto finale contro più giovani rivali: ha cancellato, insomma, quella parola “fine” (tennistica, s’intende) che ormai sembrava imminente e inesorabile, ritornando di nuovo sulla vetta del mondo. Il bello è che il ritorno di Federer, lungi dall’essere un miracoloso canto del cigno, non sembra proprio finire. Lo svizzero ha fatto centro a Indian Wells, battendo di nuovo Nadal (questa volta letteralmente stracciato: 6-2 6-3), agli ottavi, e poi nell’altro grande Master 1000 americano, in Florida, nell’immenso Crandon Park, domenica scorsa.
Ecco, è qui dove eravamo rimasti. Nemmeno l’umidità di Miami, il caldo torrido a cui è più avvezzo un maiorchino di un elvetico, ha impedito a Federer di compiere il suo ennesimo capolavoro. Un altro risultato netto, 6-3 6-4, quarta vittoria di fila contro Rafa (dalla finale di Basilea 2015) e terza stagionale. Novantunesimo titolo in carriera. Tutto il match è stato un’antologia di classe, genio, arte pura. In particolare, un rovescio lungolinea in controbalzo al termine di uno scambio estenuante, eterno e suadente come una sinfonia di Schumann e insieme spietato come una xilografia di Kirchner, non può che riportare alla mente cosa Wallace, una volta, scrisse di lui: «Quasi tutti gli amanti del tennis che seguono il circuito maschile in televisione hanno avuto, negli ultimi anni, quello che si potrebbero definire “Momenti Federer”. Certe volte, guardando il giovane svizzero giocare, sbalanchi la bocca, strabuzzi gli occhi e ti lasci sfuggire versi che spingono tua moglie ad accorrere da un’altra stanza per controllare se stai bene. I Momenti sono tanto più intensi se un minimo di esperienza diretta del gioco ti permette di comprendere l’impossibilità di quello che gli hai appena visto fare». Ecco, questo è decisamente un “Momento Federer”.
La stagione è ancora lunga, e difficilmente Roger Federer, che dovrebbe ritornare in campo per il Roland Garros, potrà mantenere un simile livello di tennis e di risultati, contando poi che Nadal non accetterà di fare a lungo la parte del rivale sconfitto, e che Djokovic e Murray usciranno dai loro periodi neri. In attesa di nuovi Messia fra i giovani, che avranno il pesantissimo compito di farci dimenticare le gesta dei Fab Four, forse non farci troppe domande sul futuro del tennis maschile, oggi quanto mai imprevedibile, è la cosa migliore. Forse ciò che ci resta da fare è assaporare fino in fondo questa prima metà di stagione, che ci ha permesso di riportare indietro di anni le lancette del tempo – altrove, inesorabile; che ha rivisto Federer e Nadal scontrarsi negli ultimi atti dei tornei che contano e, di nuovo, ai primi due posti della Race Atp, la classifica che tiene conto dei punti ottenuti nell’anno solare.
Non è solo qualcosa che riguarda il tifo, i match, le statistiche di una rivalità che sembra infinita; ha più a che fare con la nostalgia dei ricordi passati, di quando, poco più che ragazzini (parlo della mia generazione, nata negli anni Novanta), incollati alla tv, scoprivamo la bellezza del tennis grazie alle epiche battaglie di questi due campioni, dei dello sport dei quali nemmeno il logorio degli anni sbiadirà il ricordo. Rivederle, oggi, è stato un paradosso bizzarro e sublime, che sembra scardinare le regole del tempo: nel presente ci siamo re-immersi nelle pagine della storia e del nostro passato e così, ora, giovani adulti, abbiamo rivissuto la nostra infanzia. Oggi come ieri, l’epopea di Roger Federer e di Rafael Nadal, è più viva e grande che mai.