Un giocatore dalle cento vite e una sola casa.
I 504 giorni di comando, alla barra della scialuppa nerazzurra, non sono certo il ricordo più felice della straordinaria carriera di Marcello Lippi. E certamente non ritraggono nemmeno il momento migliore della storia recente interista: un anno e mezzo di incomprensioni e scontri, una stagione fallimentare, salvata solo dal genio del Divin Codino Roberto Baggio nello spareggio di Verona contro il Parma: due magie degne di albergare nel museo del calcio italiano. Una storia di tradimento (ai colori bianconeri), di scarsa empatia (con i tifosi nerazzurri) e di troppe delusioni. Una storia sbagliata, come cantava il Maestro Faber.
Nella tormentata estate del 2000 il tecnico viareggino, liberatosi del peso ‘ingombrante’ e mal digerito del 10 d’Italia, rivolse i suoi interessi verso altri giocatori che potessero completare il reparto offensivo.
La scelta cadde su un giovanissimo irlandese di vent’anni che la stagione precedente aveva strabiliato, segnando da debuttante 12 reti in 31 presenze in Premier League con la maglia del Coventry. Il ragazzo si chiamava Robbie Keane e i 31 miliardi sborsati da Moratti per aggiudicarsi le prestazioni del nuovo numero 7 nerazzurro – e battere la concorrenza di altre big europee – lasciavano intendere che l’irlandese avrebbe avuto un ruolo importante nella nuova Inter di Marcello Lippi.
Effettivamente l’inizio fu decisamente promettente con 3 reti in altrettante competizioni, suggerendo davvero un futuro radioso per questo figlio d’Irlanda. Ma la storia di Marcello Lippi e Robbie Keane, con la maglia nerazzurra, avrebbe trovato nel famigerato preliminare di Champions League contro l’Helsinborg l’inizio della fine. L’Inter venne estromessa dalla competizione anzitempo contro un avversario mediocre, e la ferita di quella bruciante eliminazione incrinò definitivamente il rapporto tra Lippi e l’Inter determinando, poche settimane dopo, le irrevocabili dimissioni del tecnico.
Con Tardelli in panchina, la stagione dell’Inter non migliorò e quella di Robbie Keane naufragò definitivamente. A gennaio, con sole 14 presenze e 3 gol, senza essersi mai integrato nello spogliatoio di Appiano, tornò senza fatica in Premier League, dove il ricordo da enfant prodige non l’aveva ancora abbandonato. Il fallimento nel calcio della penisola, peraltro facilmente prevedibile e causato della disastrosa condizione in cui versava l’Inter, ne segnò una definitiva uscita dal radar del nostro fútbol.
Per il resto la carriera di Robbie Keane è stata un lungo viaggio, fatto di colpi estrosi, di un calcio divertente, di personalità e di una pioggia di gol che lo rendono uno dei 20 giocatori più prolifici della storia della Premier League; è inoltre ai piedi del podio per quanto riguarda i giocatori europei con maggior numero di gol siglati per la propria nazionale, davanti a mostri sacri come Gerd Muller, Zlatan Ibrahimovic e Robert Lewandovski.
In Premier, al suo ritorno lo aspetta la gloriosa maglia del Leeds, ma i problemi finanziari della società costringono la squadra di Elland Road a vendere ben presto i pezzi pregiati della rosa: insieme alle stelle australiane Viduka e Kewell, anche Robbie Keane finisce all’asta. Se ne assicura le prestazioni un Tottenham assetato di gloria sotto la nuova proprietà di Levy.
L’imprenditore inglese, fresco acquirente del club del nord di Londra, vide nell’attaccante irlandese, insieme al manager Glenn Hoddle, la nuova stella attorno a cui costruire gli Spurs del futuro: una previsione decisamente azzeccata. Robbie Keane a White Hart Lane ha lasciato certamente il ricordo migliore della sua carriera. Una maglia, quella numero 10, che ha saputo onorare indossandone anche la fascia di capitano.
Un sodalizio, quello tra Robbie Keane e gli Spurs, indissolubile anche nel momento dell’addio.
Nel luglio del 2008 il treno della gloria passa anche per Keane, e la destinazione Liverpool, lato rosso, è una meta che non si può rifiutare. Nella piena maturità dei suoi 28 anni, Rafa Benitez gli prospetta una stagione idilliaca da spalla ad un incontenibile Fernando Torres, con i costanti rifornimenti del grande capitano Steve G. La realtà sarà ben più amara delle aspettative; l’infortunio grave e prolungato del Niño forza il tecnico spagnolo a schierare l’irlandese come unico terminale offensivo dei Reds.
Il ruolo, poco consono alle caratteristiche di movimento e dinamismo dell’irlandese, ne sacrifica tremendamente il rendimento, attirando le critiche di tifosi e media nei confronti del manager di Madrid. Persino la mitica KOP si schiera a favore di Robbie Keane, ma il rapporto ormai incrinato con Benitez lo fa finire sulla lista dei partenti solo sei mesi dopo il suo approdo ad Anfield. È la notizia che gli Spurs aspettano. Non si fanno pregare e, spinti dal sostegno di tutti i tifosi, fanno tornare il figliol prodigo a casa, riconsegnandogli le chiavi dell’attacco e la fascia di capitano.
Superati i 30 anni la stella di Robbie Keane continua a splendere per pubblici mai banali: stadi iconici e tifoserie in grado di apprezzare il cuore enorme dell’irlandese. Idolo e stella del suo Paese, non stupisce che abbia indossato la maglia della squadra più tifata d’Irlanda. A Glasgow ha incendiato di gol le reti di Celtic Park, siglando con gli Hoops quasi una rete a partita, e se queste non sono state sufficienti a strappare il titolo agli odiati rivali di Ibrox, sono state abbastanza per incidere il suo nome nella storia dei Celts. Poi Upton Park con gli Hammers, a Birmingham con i Villans, sempre idolatrato e osannato come solo chi lascia il cuore in campo merita.
Tuttavia, Robbie Keane è stato soprattutto il simbolo di una nazione. La sua carriera a tinte verdi d’Irlanda è certamente la pagina della sua storia personale più appassionante. Un’avventura condita da record e il maggior numero di presenze con gli Shamrock, ben 146 caps, la maggior parte delle quali indossando la fascia di capitano – a proposito, è stato anche il capitano più giovane della Nazionale. Grazie ai suoi gol (68, altro record) l’Irlanda ha partecipato ad un mondiale e due europei, elevando lo stato dei Boys in Green nel gotha del calcio mondiale.
«Da bambino, cresciuto nelle strade di periferia di Dublino, facevo finta di giocare in Coppa del Mondo con i miei amici per strada, e ora lo farò per davvero».
Robbie Keane
Anche nel riposo hollywoodiano di Los Angeles Robbie Keane, né attore né star, ha riservato al pubblico americano l’unica cosa che ha sempre fatto: gol e giocate sensazionali. Alla fine saranno oltre 100 le reti segnate per i Galaxy, al secondo posto all-time dei marcatori californiani dietro all’inarrivabile Landon Donovan, che però con i Galaxy ha trascorso una vita e collezionato qualcosa come oltre 300 presenze. Una carriera fatta di gol, prestazioni esemplari, un atteggiamento sempre positivo e propositivo, guida costante per i compagni che hanno fatto diventare il ragazzo della piccola Tallaght un leader.
Quindi, appesi gli scarpini al chiodo, per uno come Robbie Keane l’approdo alla panchina era quasi naturale. Prima le esperienze negli staff del Middlesbrough, del Leeds e, ovviamente, della nazionale irlandese. Quindi l’ingaggio come allenatore al Maccabi Tel-Aviv annunciato una ventina di giorni fa. «Sono stato una guida come giocatore, ora voglio essere il miglior allenatore possibile», aveva detto al Guardian; ora dovrà dimostrarlo, nell’ennesima avventura in giro per il mondo.
Eppure, la sensazione è che ci ricorderemo di lui soprattutto per la carriera da giocatore. Una storia forse sfortunata, condita da non abbastanza vittorie rispetto a quanto il talento avrebbe suggerito. Una storia fatta di persone giuste nel momento sbagliato. Questa è stata la storia di Robbie Keane: nel verde dei prati sconfinati d’Irlanda, il fiore più colorato.
«Crescendo, ho visto cosa può fare il calcio per un Paese. Le Coppe del Mondo del 1990 e del 1994 hanno riunito l’intero Paese quando i tempi erano difficili per tanta gente, ho capito il calcio quanto significhi. Per quanto mi riguarda, tutto quello che ho sempre voluto fare era giocare per l’Irlanda e segnare gol. Non c’è niente di meglio che indossare quella maglia verde. Niente.»
Robbie Keane