Roberto Baggio e la perfezione (spirituale) della sfera.
Su Roberto Baggio, probabilmente, si può solo dire nulla: se molto è già stato scritto, poco sarà sempre comprensibile a chi ne circoscrive le facoltà alle prestazioni di campo. Le sue doti, infatti, interrogano il divino – come la poesia e la preghiera, che sono in fondo un’unica cosa – giungendo all’assoluto nella perfezione della sfera. De Ludo Globi è il monologo attraverso il quale Cesare Catà, operando una sapiente sintesi tra Cusano, Ficino e il buddhismo, restituisce il più autentico, più profondo e più perfetto Baggio agli spettatori, raccontando quel Genio che, come l’Atlante di Battiato, “conosce la dottrina della sfera / gli astri, la geometria / la cabala e l’alchimia”.
Pochi istanti prima della memorabile marcatura contro la Juventus, nel 2001, quando la palla raggiunge il punto più alto, Roberto Baggio si palesa come un’epifania, grazie ad un’intuizione possibile a lui e nessun altro. Guarda la sfera, la conosce, interpreta la traiettoria alla perfezione: il controllo, di velluto, è storia. Roberto Baggio regola le proprie movenze sul ritmo divino del cosmo, e quel momento racchiude il kairos in cui si rivela il genio superiore del Divin Codino. È il fermo immagine che apre la scena, il momentum da cui trae principio l’indagine di Catà:
“Il suo modo di giocare a pallone non è semplicemente un’esecuzione del gesto atletico finalizzato al goal, ma una reinvenzione del gioco stesso attraverso forme, schemi, idee, gestualità, geometrie inconcepibili prima che lui li avesse compiuti. Una giocata di Baggio è ciò che confuta il grigiore del mondo con un tocco di genio inaspettato, è l’imprevisto stupendo. Pasolini, che avrebbe adorato Baggio, diceva che il goal è una sovversione del codice, ed è per questo che si ama il calcio. Baggio è allora l’essenza del calcio: perché le sue giocate creano una bellezza il cui stupore sovverte per un attimo la stantia normalità del mondo”.
Roberto Baggio è sempre stato troppo umano, troppo spontaneo, per partecipare alla dittatura della tattica e all’ortodossia degli schemi. Non è mai esistito negli arcaismi da scuola calcio, non sono riusciti ad incasellarlo aziendalisti del pallone e tecnici della scienza esatta del calcio, che a lui ricorreranno solo in casi limite. Lippi e Arrigo Sacchi sono soltanto due delle personalità incapaci di reggere e gestire la sua forza mirabolante e sublime, poiché sempre il sublime meraviglia e spaventa e terrorizza: e infatti Baggio segna, risolleva le sorti di squadre e allenatori che però non lo comprendono e anzi lo allontanano.
Baggio, oltre che fisicamente, ha sofferto il fardello di un talento oltre ogni logica umana, oltre ogni comprensibile convenzionalità: ha caricato su di sé, con sovrumana umiltà, le responsabilità più della fama, le sventure più dei successi, come un cristo che per assorbire il male del mondo deve concedersi e svuotarsi (kenosi) in croce. Ecco il Baggio sovrumano nelle facoltà eppure oppresso dalla nemesi, intimo e fallibile, che Catà tratteggia in tutta la sensibilità spirituale.
“All’immagine iconica e leggendaria corrisponde stridentemente un carattere umano che è intimamente connesso con il suo modo di giocare a pallone: cioè quella strana melanconia che fa di Baggio un uomo mite e riservato, che nel lampo mistico degli occhi chiari conserva la semplicità delle campagne vicentine. Un candore unito ad una profonda consapevolezza: tutto è impermanenza, o anicca, secondo il termine sanscrito della tradizione buddhista. Dunque nulla è reale, e la prima illusione è il nostro ego: l’Io non esiste, è vana fantasia di attaccamento: si tratta del principio dell’anatta, dell’irrealtà dell’Io. Chi ha intuito questa verità non ballerà mai con veline, non accetterà contratti come gabbie dorate, perché è immerso nella compassione nei confronti di tutti gli esseri senzienti e gioca a calcio cercando di trascendere la sofferenza – la dukkha, tornando alla religione del nostro Genio – del cosmo”.
Illuminato dalla divina sapienza alla maniera degli antichi poeti, Baggio è entheos, animato dal divino che ne detta movenze e gesti tecnici. Più che giocare a calcio, come amava ribadire Carmelo Bene, Baggio è uno di quelli che dal calcio veniva giocato, ispirato dall’assoluto in quello sport che è apoteosi della fantasia: “Se è vero, come ha scritto Osvaldo Soriano, che il calcio è una fiaba per adulti disincantati, Roberto Baggio non si limita a dare forma al gioco attraverso la fantasia: è la fantasia stessa che diventa il dato preminente. Le sue giocate illuminano perché danno la percezione il goal, le giocate, non dipendano dalla forza fisica, dalla fortuna o dal budget. Sembra che tutto dipenda da un’invenzione, che l’universo dipenda dalla fantasia, la realtà dai nostri sogni”.
Si rivela quindi la grandezza del genio, del poeta e dell’artista che conosce “la dottrina della sfera / gli astri, la geometria / la cabala e l’alchimia”: col suo modo fanciullesco e stupefacente e divino di giocare a calcio, col suo modo alto e spirituale di concepire la vita, Roberto Baggio è inattuale in ogni epoca possibile. Inviso ai tanti aziendalisti del calcio, anche eccellenti, soltanto un allenatore, umano troppo umano come lui, riuscirà a interpretarlo ed esaltarlo: è Mazzone, che dopo un’estate da disoccupato porta Baggio a Brescia, con la fascia di capitano al braccio e un contratto legato al suo.
“Mica dovemo vince lo scudetto, ce dovemo sarva’”, lo convince: Baggio accetta perché sa che a Brescia si ritroverà, congiungendosi con l’unico allenatore che davvero lo comprese nel profondo. Come Cesare Catà, che in De Ludo Globi riporta il Divin Codino nella sua dimensione più intima e autentica – l’unica possibile – quella religiosa, mistica e metafisica.