Quello dell'attaccante, per l'Italia, è un problema serissimo.
Colombia, Austria, Belgio, Olanda, Brasile, Argentina, Serbia, Gambia, Francia, Danimarca, Nigeria, Inghilterra, Polonia, Angola, Paraguay, Portogallo. Non siamo impazziti: questo è l’elenco delle nazionalità degli attaccanti titolari della nostra Serie A, italiani esclusi ma nemmeno troppo. Dietro al sempiterno Ciro Immobile, che a trentatré anni comincia a sentire sul suo fisico l’inevitabile logorio del tempo, alla voce “centravanti azzurrabili” c’è il vuoto o quasi. E il Mancio sbuffa.
Scamacca, emigrato Oltremanica ancora prima di capire appieno i suoi pregi e difetti, ha ancora bisogno di tempo per sostenere sulle proprie spalle il peso del mondo – nel frattempo è finito in panchina – e la concorrenza nel ruolo latita. Le uniche squadre di Serie A che ad agosto hanno deciso di investire su un bomber italiano sono il Sassuolo e il Monza – compagini autarchiche per vocazione –, mentre l’Empoli ha riaccolto a gennaio un highlander come Ciccio Caputo. Poco, pochissimo, quasi nulla. Il tanto citato e criticato “Decreto crescita” secondo alcuni ha contribuito ad aumentare l’appeal internazionale del nostro campionato – permettendo alle società di offrire ingaggi concorrenziali ai campioni stranieri – ma ha esaurito il bacino per la nazionale.
Ai pochi goleador azzurri, come se non bastasse, le cose non stanno andando granché bene: Ciro ha provato a issarsi di nuovo in testa alla classifica cannonieri, ma da inizio ottobre i muscoli hanno preso a tormentarlo come mai prima d’ora. Siamo già a cinque stop per malanni vari. Il sassuolese Pinamonti, positivo l’anno scorso a Empoli, ha fatto più fatica del previsto a inserirsi nelle trame di gioco di Dionisi e finora non è stato capace di raccogliere lo scettro lasciatogli dall’emigrante Scamacca. Il ritorno in pianta stabile di Berardi e i suoi assist sembrava potessero aiutarlo a dare un significato alla sua stagione, ma anche a lui il fisico ha fatto dei dispetti.
Anche Petagna, che di esperienza ne ha un po’ più dell’ex interista e che a Monza era stato accolto come il partner perfetto dell’altro nuovo acquisto Caprari, ha affrontato mille difficoltà prima di cominciare – è storia recente – a partire con una certa frequenza dal primo minuto. Oltre a questi, le possibili alternative all’orizzonte sono poche, pochissime. A partire dal “Gallo” Belotti – un tempo una delle rare certezze – che sta dando tanto alla Roma, ma non a livello realizzativo.
Nemmeno il futuro appare particolarmente roseo. Tolto il solito Scamacca, ci sono Colombo del Lecce – che dopo un periodo d’oro sembra tornato dietro al gambiano Ceesay nelle gerarchie di Baroni – Pellegri del Toro – riserva di Sanabria e sempre infortunato – Piccoli all’Empoli – che ha cambiato la quinta maglia in tre anni – e il “nuovo Toni” Lorenzo Lucca, pure lui panchinato ad Amsterdam. Quest’ultimo, dopo un’annata sull’altalena a Pisa, ha preferito tentare un’esperienza di vita e di carriera all’Ajax piuttosto che ritrovarsi in Serie A a fare da riserva a un inamovibile ultratrentenne, come sarebbe accaduto se fosse passato al Bologna, peccato che anche in Olanda giochi perlopiù nella seconda squadra.
Un altro su cui si erano concentrate aspettative altissime e che in maniera del tutto inspiegabile si è accartocciato su se stesso è lo juventino Moise Kean, che in una stagione a Parigi aveva mostrato cose egregie, salvo poi infilarsi in una spirale negativa che sembra non avere fine. Allegri lo difende a spada tratta e Mancini ancora ci conta, ma i suoi atteggiamenti gli giocano sempre contro. Il vercellese con le treccine ha prima subìto l’onta del taglio dai convocati per il vittorioso Europeo del 2021, poi è finito nel tritacarne juventino nonostante partisse come sostituto in pectore di CR7, finendo spodestato prima da Vlahovic, poi da Milik e infine dalla brutta copia di se stesso.
Raspadori, non un vero centravanti ma per distacco il migliore sinora in azzurro, è alle prese con la dura realtà di un Osimhen impossibile da scavalcare e anche lui ha avuto problemi in serie con gli infortuni.
Per le prossime convocazioni tutti si attendono una “mancinata” alla Zaniolo, ma il piatto piange. Si è parlato un po’ di Andrea Compagno, titolarissimo e prolifico ma in Romania, uno che in Italia non è andato oltre ai dilettanti. Poi è spuntato prepotente il nome di Mateo Retegui, centravanti argentino del Tigre dal doppio passaporto, subito in gol all’esordio contro l’Inghilterra; si spera che questi rinnovi un idillio tra gli oriundi e la maglia azzurra nato sin dagli anni Trenta ma, a dirla tutta, sembra la classica mossa della disperazione.
Da João Pedro in poi, protagonista suo e nostro malgrado della disfatta contro la Macedonia del Nord, le scelte di Mancini sono state sempre più all’insegna del postmodernismo, con giocatori lanciati più come grida d’aiuto che per reali meriti sportivi. E se con Gnonto la scelta è sembrata prematura ma tutto sommato azzeccata, chiamando giocatori ancora acerbi – per non azzardare definizioni più tranchant – come Cancellieri, Zerbin o Salvatore Esposito, schierati poco o nulla nei rispettivi club di appartenenza, oppure Pafundi, venti minuti complessivi in Serie A, si rischia di svalutare oltremodo la maglia azzurra.
Non più premio a un percorso arrivato al suo zenit, ma semplice sprone per spingere squadre zeppe di stranieri a dare delle opportunità a giocatori quantomeno sottostimati.
Non dovrebbe essere il CT ad arrogarsi questo compito, ma la Federazione, creando apparati normativi ad hoc che rendano più vantaggioso per le società puntare sulla crescita di un giocatore “azzurrabile” piuttosto che il primo signor nessuno arrivato dall’estero a prezzi di saldo. Le nazionali giovanili italiane stanno ottenendo grandi risultati, migliori anche rispetto a un passato in cui la nostra Under 21 faceva incetta di allori europei. Perché tutto questo talento va sprecato? Se la vittoria in Nations League sarebbe un obiettivo importante più per il morale che altro, la qualificazione all’Europeo 2024 – da campioni in carica – non può essere fallita. Il tutto, però, senza centravanti all’orizzonte. San Pablito, aiutaci tu!