Il più grande dramma in uno stadio italiano, in un periodo molto delicato.
Mattina del 7 giugno 1981, è domenica. Non una domenica qualsiasi. Oggi se tutto va bene, in città sarà festa. San Benedetto del Tronto è in fibrillazione dalle prime ore del mattino. Con una vittoria la Sambenedettese sarebbe promossa in serie B. Ma in realtà anche un pareggio potrebbe bastare, dipende da cosa farà il Campobasso in casa del Rende. Se tutto andrà bene, Samb e Cavese saliranno di categoria a braccetto. Sì, sarà festa. Nella serie C di allora vengono promosse le prime due nella classifica finale del girone A e del girone B. Si sale in quattro, si retrocede in quattro.
Neanche Roberto sta nella pelle, quella domenica. Lui sì che sa giocare a calcio, avrebbe anche potuto fare carriera ma a volte il contorno familiare non lascia scampo. Ha 25 anni, per vivere fa l’antennista ma quel che è stato non gli importa più. È acqua passata, forse. Il fratello gli ha creato grossi problemi e in città il suo cognome è “chiacchierato” da tempo, ma lui ha ritrovato un equilibrio. E soprattutto una famiglia. Sta da anni con Maria Antonietta, nascerà un bambino a dicembre. Bambino? Bambina? Poco cambia. Ma oggi forza Sambenedettese, non c’è altro a cui pensare. La promozione è vicinissima.
Roberto esce di casa e si dirige verso lo Stadio “Fratelli Ballarin”. Nel pomeriggio c’è la partita con il Matera, a San Benedetto l’argomento tiene banco da una settimana.
La serie C italiana di inizio decennio ha adeguato livello tecnico e rappresenta il trampolino di lancio ottimale verso le categorie maggiori. La Samb è una squadra equilibrata e ben messa in campo. La allena un tecnico di esperienza, Nedo Sonetti. Toscano di Piombino, burbero, aria da sergente di ferro ma professionista di grande umanità. Uno che sa caricare la squadra e che riesce sempre a tirare fuori il meglio dai singoli e dal gruppo. Buon attacco, ottima difesa.
Nei primi anni 80, quando la vittoria vale ancora due punti e si gioca quasi esclusivamente a uomo, anche uno 0-0 esterno non è risultato da disprezzare. La Sambenedettese non prende gol da 5 partite, merito di una linea difensiva molto attenta e di un portiere di cui si dicono grandi cose. Si chiama Walter Zenga e qualcuno sostiene, tra il serio e il faceto, che un giorno il ragazzo sarà l’erede di Zoff in Nazionale. Chi in quel momento ride a sentire certe affermazioni, tempo pochi anni e non riderà più.
Prime ore del pomeriggio, i cancelli sono stati aperti e le curve si stanno pian piano riempiendo. Lo stadio non è grandissimo ma ben costruito. Per una cittadina come San Benedetto del Tronto ha la giusta capienza, circa 15mila spettatori. Tuttavia, dopo tanti anni una ristrutturazione non farebbe male. È stato intitolato ai fratelli Dino e Aldo Ballarin, deceduti a Superga nel 1949 insieme con tutto il Grande Torino. Impianto a due passi dal mare e dalla zona portuale, è spesso battuto da un vento molto forte. I triestini hanno la bora, qui specie con la bella stagione soffia uno scirocco piuttosto violento. Ma con il caldo che fa, un po’ di vento può perfino far piacere. Almeno si respira.
Roberto è entrato allo stadio e sta prendendo posto in curva. Stanno preparando una coreografia degna di una giornata indimenticabile. Nella Sud vengono introdotti quintali di carta. Tutto regolare, tutto a posto, non è materiale contundente e serve solo a fare scena. Le forze dell’ordine non possono obiettare. Nel frattempo lo stadio si è riempito fino a esaurimento posti. Tanta gente, troppa. Qualcuno è entrato di straforo, i bagarini hanno terminato l’opera. La capienza è ampiamente superata, un caldo tremendo e poi il vento. Una corrente che chiude gli occhi e sposta le persone come se fossero oggetti. Lo chiamano lu arrbì, in città. E lo temono, quando soffia.
Sono anni pesanti, quelli. Anche nella provincia italiana, quella che a torto viene ritenuta avulsa dai movimenti della contemporaneità, ci sono vere e proprie piaghe.
Il dilagare delle droghe pesanti e gli effetti del terrorismo sono problemi che, a partire dagli anni 70, non risparmiano neppure una cittadina come San Benedetto del Tronto. Da anni, i morti per overdose non fanno più notizia nemmeno lì. Il calcio diventa una piccola e inadeguata forma di consolazione domenicale. Il fratello di Roberto invece, lui sì che fa notizia. È un esponente di un certo peso delle Brigate Rosse ed è conosciuto come “il compagno Mauro”, anche se di nome fa Patrizio.
Ha preso parte a parecchi attentati e nel febbraio del 1980 viene arrestato a Torino dalla DIGOS. Passerà alla storia comeil primo terrorista pentito. Dal momento dell’arresto di “Mauro” la carriera di calciatore di Roberto si chiude. Lui è del tutto estraneo al mondo dell’eversione armata ma nessuno vuole in squadra il fratello di un terrorista. Meglio cambiare vita e vedere la partita con i ragazzi della curva. Loro almeno, certi pregiudizi non li hanno.
Ore 16,57 di domenica 7 giugno 1981. Sambenedettese e Matera escono dagli spogliatoi del “Ballarin”. La squadra lucana può già considerarsi matematicamente retrocessa in C2 (le faranno compagnia Turris, Siracusa e Cosenza) ma non rinuncia a giocare con dignità l’ultima della stagione 1980-81. Squadre al centro del campo, le foto di rito. Comincia a scatenarsi la coreografia di curva, ma si ha presto la sensazione che qualcosa non vada.
Forse un mozzicone di sigaretta, forse un fumogeno acceso che ha avuto un contatto con tutta quella carta. Si crea una combustione aiutata dall’imperversare dello scirocco. Ci vogliono pochi secondi, divampa un incendio. Walter Zenga, il capitano Gigi Cagni e gli altri giocatori richiamano l’attenzione dell’arbitro Tubertini. Le fiamme sono alte e i tifosi della curva si mettono in salvo come possono. Non tutti allo stadio percepiscono al volo la gravità del momento. Racconterà proprio Zenga, anni più tardi:
“È accaduto tutto così in fretta, noi eravamo in campo pronti ad affrontare il Matera. Poi qualcosa gira male, vedo fiamme e fumo. Poco alla volta tutti andiamo verso la curva: la gente urla e si lancia sul prato, ferendosi con il filo spinato. Come faccio a dimenticare…”
Impossibile farlo, in effetti. Non si sa come agire. Giocare? Non giocare? Alle ore 17,16 il signor Tubertini di Bologna, sentiti i responsabili delle forze dell’ordine e i giocatori delle due squadre stabilisce che la partita si può, anzi si deve giocare. Tutto considerato, è il male minore. Sambenedettese-Matera ha inizio, malgrado l’odore del fumo e il suono in lontananza di ambulanze che portano i feriti, oltre un centinaio, in tutte le strutture ospedaliere in grado di accoglierli. Si parla di molte situazioni serie ma almeno un paio sembrano davvero disperate. Roberto è riuscito a mettersi in salvo, per sua fortuna.
“All’inizio – racconterà l’arbitro Tubertini – avevo pensato a una bomba, le fiamme erano altissime. Solo più tardi abbiamo saputo che l’incendio era stato causato dalla carta della coreografia. Lo stadio era pienissimo, una calca che non avevo mai visto da nessuna parte. Sono cose che rimangono impresse”.
Due ragazze versano in condizioni particolarmente critiche: si chiamano Maria Teresa Napoleoni e Carla Bisirri, hanno rispettivamente 23 e 21 anni. Non sono riuscite a mettersi in salvo e presentano ustioni estese e fin troppo profonde. Sono state trasportate in elicottero al Centro Grandi Ustioni dell’Ospedale Sant’Eugenio di Roma, dove si tenta un vero e proprio miracolo. Non ce la fanno. Maria Teresa muore il 13 giugno, Carla il 17.
La partita del “Ballarin” finisce 0-0 e grazie a quel risultato, unito al pareggio del Campobasso a Rende, la Sambenedettese è promossa in serie B. Per i tifosi e per un’intera città la promozione è una gioia strozzata. Contro due sfortunatissime ragazze tutti gli elementi dell’universo hanno tramato contro all’unisono, in una domenica di fuoco. Gli idranti che non pompano acqua, le chiavi dei lucchetti irreperibili, i cancelli bloccati, una certa difficoltà nei soccorsi. La prima e più grave tragedia da stadio in Italia non attribuibile alla violenza ultrà o a interventi delle forze dell’ordine. Anni più tardi gli inglesi piangeranno la strage di Hillsborough, molti più morti (96 persone) ma dinamiche per alcuni aspetti, simili. Fuoco a parte.
Il destino è in agguato e colpisce Roberto Peci soltanto tre giorni più tardi. Un commando delle Brigate Rosse lo sequestra mercoledì 10 giugno in via Arrigo Boito a San Benedetto del Tronto. La logica dell’azione è quasi mafiosa. Si tratta di una vendetta trasversale contro suo fratello Patrizio, il terrorista pentito. L’uomo viene fatto prigioniero e processato da un sedicente “tribunale del popolo”. Il tutto viene filmato e inviato agli organi di stampa, con pretesa di divulgazione. L’accusa è quella di tradimento, come se due fratelli condividessero, per stretta parentela, la stessa colpa.
Dopo 55 giorni di prigionia, il corpo di Roberto viene trovato senza vita in un casolare della periferia di Roma. È il 3 agosto 1981, data di un’esecuzione a colpi di mitra. Oggi via Arrigo Boito è via Roberto Peci. Una bambina, Roberta, verrà al mondo il 16 dicembre 1981, orfana di padre dalla nascita. Ciò che non è riuscito a un incendio colposo divampato all’interno di uno stadio ha potuto realizzarsi grazie alla folle ma pianificata ferocia umana. Erano anni così.