Una partita come strumento di comprensione del mondo.
.Introduzione
……..di Emanuele Meschini
Questo non è un articolo su Roma-Liverpool perché, come ho scoperto in questi mesi di ricerca, di quella partita non si può parlare, o meglio, non lo si può fare da soli. Roma-Liverpool è un bene comune. Sembra paradossale, ma è così. È un collante, magmatico che ancora brucia nelle menti di chi c’era, di chi l’ha vista e vissuta. Pertanto questo testo è una introduzione al processo che mi ha portato a realizzare questo speciale a più voci e più mani in cui, più che seduto ad un tavolo a scrivere, mi sono sentito catapultato in Curva Sud a tifare insieme a tutti quelli che in questo percorso mi hanno lasciato un piccolo spazio sui gradoni della memoria.
Come scrive nell’intervista Paolo Castellani: “credo che Roma Liverpool sia una storia talmente ricca di piccole emozionanti storie al suo interno che sia impossibile fare finta che non sia esistita, che sia impossibile non raccontarla, e che sia necessario farlo raccontando tutte le emozioni, tutte le immagini, tutto l’amore che c’è dentro quella storia. Per questo credo che sia non dico necessario ma certamente più bello raccontare questa storia insieme a qualcuno che ha provato e vissuto tutte quelle fortissime emozioni”.
Parlare della finale di Coppa di Campioni Roma-Liverpool giocata all’Olimpico il 30 maggio del 1984 è come maneggiare uno scatolone con sopra scritto “Fragile. Maneggiare con cura”. Si tratta di toccare del materiale sensibile che, a dispetto della metafora dello scatolone, non è mai stato messo in soffitta. È sempre rimasto in bella vista, su di una mensola in salotto. È uno scatolone aperto, sul quale la polvere difficilmente si è depositata perché è stato più volte aperto, rivisto, riordinato, rimesso a posto e poi nuovamente spostato, spacchettato e mostrato. È uno scatolone senza “pace”, che non viene lasciato in pace, perché Roma-Liverpool (liberissimi di discordare da questo pensiero) è stato un evento generativo, un mito fondativo di un’intera collettività.
Non saprei dire quanto di quella generatività possa essere ricondotta ad una sorta di lutto e perdita perché all’interno di quella storia – più che partita – c’è molto di più. La sconfitta ne rappresenta solo il dato statistico/archivistico. Il dato oggettivo di cronaca ma il processo, la fase di arrivo e allontanamento da quella storia sono ampi, sfaccettati e ad ogni anniversario ci troviamo ad aggiungere un pezzo nuovo prendendo sempre da quel vecchio scatolone. Di certo, con il mio romanismo fatto di malinconie e mancanze, una cosa che ho capito fin dal primo momento in cui mi è venuto in mente di scrivere a riguardo è che non tutti ne possono parlare e che, soprattutto, non lo si può fare da soli. Nessuno può spiegare quella storia senza partire dalla sua storia e soprattutto nessuno può farlo senza mettere in mezzo le storie e le vite di altri.
Perciò in questo speciale ho cercato di radunare tutte quelle persone (studiosi, giornalisti, attori, giocatori) che in momenti diversi e con sensibilità differenti hanno maneggiato quel fantastico scatolone oppure che ci hanno vissuto all’interno per anni (e ci continuano a vivere?). Il filo conduttore di questo speciale, pur partendo e parlando di Roma-Liverpool, va oltre il dato calcistico e il resoconto sportivo, pur ovviamente portandone testimonianza. In quel 30 maggio 1984 non è stata giocata (è stata mai giocata?) solo una partita ma è stato l’inizio e la costruzione di una idealità. Ogni mito fondativo, come insegna la tragedia greca e la storia, ha bisogno di una sua battaglia, di un suo momento catartico in cui l’ordinario viene riletto in chiave estetica, viene reinterpretato e risemantizzato alla luce dei significati futuri.
Roma-Liverpool è iniziata nel momento in cui Kennedy ha segnato il rigore decisivo. È iniziata nel momento in cui sportivamente finiva tutto e proprio per questo serviva una chiave di lettura per leggere e reggere il mondo che sarebbe venuto dopo (comprese le nostre reazioni). Per anni nel mio percorso di storico dell’arte ho studiato la fondazione di movimenti artistici. Le cosiddette avanguardie storiche di inizio ‘900 (Futurismo, Dadaismo, Costruttivismo Russo, Vorticismo) hanno tutte condiviso la necessità di dare un senso ad un mondo che si stava sgretolando sospinto dai venti bellici. Ognuna di loro si è costruita attraverso un manifesto, a partire da una determinata data e da quel momento ha ricostruito il mondo che aveva attorno.
Ha creato una mitologia visiva e verbale che permettesse non tanto di dipingere o scolpire meglio, ma di avere dei nuovi strumenti interpretativi condivisi all’interno di una comunità che si riconosceva in questi nuovi “valori”. Roma-Liverpool è uno strumento di comprensione del mondo e come tale va analizzato. Pertanto la prospettiva con la quale ho cercato di collegare gli interventi di questo speciale è stata quella dell’interpretazione e non della descrizione, ovvero il “cosa significa” anziché il “cos’è” e il “come è stato”. Come in ogni ricerca di storia sociale (anche nella sua accezione più visuale e iconografica) l’interpretazione parte dal dato di fatto, per questo troverete un’intervista ad Odoacre Chierico; materiali grafici, memorabilia conservati dall’Archivio dell’AS Roma; gli articoli del Guerin Sportivo.
Le interviste a Paolo Castellani, Massimo Izzi, Tonino Cagnucci e Massimiliano Graziani rientrano sia nel campo delle testimonianze che nel campo delle letteratura e quindi narrazione e storicizzazione. I loro interventi sono quelli di testimoni visivi, sia a livello diretto sul campo/stadio (Izzi-Graziani) sia a livello in-diretta di fronte alla televisione in una visione socialmente corale. Tutti e quattro erano adolescenti all’epoca della partita e per certi aspetti i loro racconti rappresentano una sorta di rimediazione e risemantizzazione che si è evoluta con loro e dentro di loro. La loro esperienza si è arricchita di un ulteriore processo di ricostruzione storica (sono gli autori di tre testi fondamentali per la letteratura su questa partita) estremamente affascinante sulla quale andrebbe scritto in maniera precisa e ancor più profonda in un’altra sede.
Castellani, Izzi, Cagnucci e Graziani hanno fatto della vera e propria auto etnografia ponendo la loro presenza fisica come centrale per la ricostruzione storica, dando alla ricerca e alla letteratura calcistica un senso (soprattutto in prospettiva) estremamente affascinante e pregno di significato – in quanto il loro io narrante, quello che pongono come incipit della storia, aveva tra i 12 e i 16 anni. Questa crescita del tifo come costruzione storica personale è un tratto che dà ancora più importanza a quel Roma-Liverpool come momento esplosivo, generativo, di rottura. L’intervista ad Ariele Vincenti, regista e attore dello spettacolo teatro “Ago. Capitano Silenzioso”, rende ancora più completa la mitologia di Roma-Liverpool poiché rende omaggio (nel senso di approfondisce) l’altro termine essenziale e tragico di questo infinito vortice narrativo, vale a dire il Capitano Agostino Di Bartolomei.
Il 30 maggio 1994 il capitano favoloso, infatti, decise di togliersi la vita legando in un atto struggente (chiedo scusa se dovesse suonare irrispettoso o iperbolico) la sua vita alla Roma. Ogni 30 maggio, ormai, non è solo Roma-Liverpool ma è anche Ago. È quello che forse è sempre stato, l’unione più profonda nel giorno più buio. Il testo di Roberto Colozza “Roma-Liverpool. Morte e rinascita di una comunità tifosa” indaga questo legame nello specifico del tifo e del romanismo attraverso una lettera che rappresenta, insieme al diario (che però rimane inconfessabile) il mezzo con cui si parlano gli innamorati. Una lettera nello specifico scritta da “un attivista anarchico di Prati, curvarolo navigato e indipendente” al Commando Ultrà Curva Sud all’indomani della partita:
«La romanità non esiste e forse non esisterà mai. Il romanismo, quello esiste». Anche in questo la generatività di Roma-Liverpool non può non essere sottolineata.
Come scrive Graziani, del resto, Roma-Liverpool è un “iper testo”. Ultima cosa nonché motivazione al titolo di questo speciale. Un particolare che mi ha sempre colpito nella narrazione di quella giornata è stato il racconto del post. Una massa di corpi silenti e zombizzati che ad un certo punto si ritrova al Circo Massimo per sentire nuovamente Venditti suonare (c’era già stato un concerto pre partita). In quell’occasione Antonello il giallorosso cantò per la prima volta “Notte prima degli esami”, una poesia musicale intergenerazionale cantata così tante volte che spesso si perde il senso specifico delle parole.
Personalmente la usavo per giustificare il mio disinteresse verso le materie scientifiche dicendo “La matematica non sarà il mio mestiere”. Adesso, mentre ne scrivo, la mia testa vola su un‘altra frase del testo, quella in cui Venditti dice “Notte di Sogni, di Coppe e di Campioni” e mi accorgo che le coppe e i campioni, così come i sogni, non sono la stessa cosa. Non sono un’equazione bensì sono termini divisi e allo stesso tempo uniti dalla congiunzione “e”. I campioni non sono quelli che vincono una coppa. I campioni esistono al di là e senza le coppe, così come i miti esistono al di là e senza le vittorie.
Non si può abbracciare una mitologia collettiva nella sua interezza, pertanto chiedo scusa fin da subito a tutti coloro che non sono riuscito a sentire, a tutti coloro che avrei dovuto contattare e che probabilmente più di me avevano il diritto di scrivere a riguardo. La storia collettiva sarà sempre incompleta nell’esatto momento in cui viene scritta. Bisognerebbe sempre cantarla, trasmetterla in coro a partire dai gradoni dello stadio per diventare patrimonio orale senza padrone. Eppure ogni tanto queste storie devono essere scritte per non lasciare che se le porti via il vento e per continuare ad essere di tutti. Per raccontarci che sono esistite davvero anche quando l’ultimo testimone sparirà.
Ringrazio di cuore tutti coloro che hanno preso parte a questo esercizio di riemersione storica. Ogni contributo è stato fondamentale e soprattutto sentito, fatto con il cuore cercando di rubare un po’ di tempo alla vita di tutti giorni. Tra vocali mandati dalla macchina, tra “inseguimenti” su Instragram, mail e chat con mille allegati, grazie. Per un attimo mi sono visto bambino di 10 anni andare in giro per Roma con Paolo Castellani, Massimo Izzi e Tonino Cagnucci a raccontarci di quanto quella finale era una cosa incredibile, a dirci quanto è bello Falcão, che bombe che tira il capitano, Tancredi è uno specialista.
Ultimissima cosa. Un grazie infinito a Contrasti perché riescono davvero a stimolare e supportare un racconto calcistico incredibile.
INDICE
[1] L’attesa, la condivisione e il Subbuteo. Intervista a Paolo Castellani
[2] Siamo ancora in Curva Sud. Intervista a Massimo Izzi
[3] Roma-Liverpool: la Finale giocata in trasferta. Intervista a Tonino Cagnucci
[4] Il metalinguaggio di Roma-Liverpool. Intervista a Massimiliano Graziani
[5] AGO. Il Capitano Silenzioso. Intervista ad Ariele Vincenti
[6] Roma-Liverpool: morte e rinascita di una comunità tifosa, di Roberto Colozza
[7] La memoria sempre viva: la necessità dell’archivio. Immagini dall’Archivio Storico dell’AS Roma
[8] Il quinto ero io. Intervista a Odoacre Chierico
[9] Guerin Sportivo, Anno LXXII, N.23 (492), 6/12 giugno 1984 (tre contributi)
Come raccontare Roma-Liverpool a chi non c’era? Come è stata la lunga preparazione, quali erano le aspettative e cosa provavi tu nei gironi prima della partita?
Si può dire che Roma-Liverpool è iniziata il giorno dell’arrivo di Falcão a Roma. È stata il completamento di quel processo di crescita che ha trovato il suo momento fondamentale appunto con l’arrivo del brasiliano a Roma, alla Roma, il 10 agosto del 1980. Arrivò per andare a completare una squadra già ricca di futuri grandi campioni, basti pensare a Ancelotti, Di Bartolomei, Pruzzo, Bruno Conti. Quella Roma ha vinto lo scudetto nel 1982-83 all’apice probabilmente di un processo di crescita. Già dai giorni dallo scudetto si era perfettamente consapevoli dell’incredibile opportunità che si sarebbe manifestata l’anno successivo, ossia quella di disputare la Coppa dei Campioni – che all’epoca ricordiamo veniva disputata solo dalle squadre vincitrici dei rispettivi tornei nazionali – disputando l’eventuale finale in casa perché, appunto, la finale si sarebbe dovuta giocare il 30 maggio 1984 a Roma.
Subito dopo la grande paura provata a causa della sconfitta per 2-0 all’andata della semifinale contro il Dundee in Scozia, e dopo aver ribaltato il risultato vincendo 3-0 il 25 Aprile 1984 all’Olimpico, iniziò effettivamente il pre-partita vero e proprio di quella grande finale. Probabilmente da quel momento, in qualche modo, si iniziò ad avvertire una tensione fortissima che con tutta probabilità è stata la causa del non essere stati in grado di disputare serenamente una partita di questa importanza, alla quale certamente la Roma non era abituata a differenza dell’avversaria ossia il Liverpool, la squadra certamente in quel momento più forte d’Europa. Una squadra abituata a vincerle quelle finali, una squadra che arrivò a Roma totalmente rilassata mentre la Roma, dopo un lungo ritiro tra i monti tanto amati da Liedholm, arrivò totalmente stremata dal punto di vista nervoso a disputare quella finale che poi, appunto, fu sicuramente giocata al di sotto delle sue capacità.
Personalmente vissi quell’attesa in maniera fortissima, fu una lunga, fortissima emozione che ci accompagnò per più di un mese, dalla fine di aprile alla fine di maggio e ci arrivai probabilmente anch’io sfinito dalla dall’attesa. Questo è certamente un altro elemento che ha accomunato e unito davvero la squadra e i tifosi in quell’occasione: vivere così intensamente quella attesa, vivere così fortemente quella partita, vivere il dolore fortissimo causato dalla delusione del suo esito, ma, da parte dei tifosi, restare ammutoliti soltanto per 55 secondi. Tanto fu il tempo che passò tra il rigore vincente del Liverpool e il momento in cui la Curva Sud iniziò ad intonare di nuovo il grido “Roma, Roma” per ringraziare e sostenere la squadra che ci aveva portati fino a lassù, a un passo da quel sogno.
Per molti, come ti dicevo, parlare di quella partita è un momento di condivisone, un qualcosa che si fa insieme come hai fatto tu, del resto, insieme a Tonino Cagnucci. Cosa ha lasciato quella partita alla Roma, cosa ha generato?
Ha generato sicuramente una delusione e un dolore immenso, che molti hanno poi elaborato in maniera diversa. Alcuni preferiscono dimenticare quell’evento, come se si trattasse di una partita che non si è mai disputata. Io preferisco pensare che invece quella partita abbia significato tante cose insieme, tante cose che ancora a quarant’anni di distanza probabilmente non ho capito del tutto, non ho elaborato fino in fondo e forse proprio da questo nasce il desiderio, la necessità che vedo anche in tanti tifosi della Roma, in tanti amici, di parlarne insieme, di elaborare insieme quel lutto.
Credo che questo sia ciò che ha portato un giorno me e l’amico Tonino Cagnucci a decidere di scrivere un libro insieme, “55 secondi. Trenta maggio 1984” (2013), una sorta di diario in cui dando voce ai due ragazzini che eravamo allora, io quattordicenne lui di poco più piccolo, raccontiamo come abbiamo vissuto non solo la partita, la finale, ma tutto l’avvicinamento, tutto il torneo che ci ha portati a quella finale raccontando le emozioni che ci hanno accompagnato quell’anno, raccontando anche la musica che ascoltavamo, la Roma città che vivevamo, gli amici, gli incontri, le partite.
Ecco credo che Roma-Liverpool sia una storia talmente ricca di piccole emozionanti storie al suo interno che sia impossibile fare finta che non sia esistita, che sia impossibile non raccontarla, e che sia necessario farlo raccontando tutte le emozioni, tutte le immagini, tutto l’amore che c’è dentro quella storia. Per questo credo che sia non dico necessario, ma certamente più bello raccontare questa storia insieme a qualcuno che ha provato e vissuto tutte quelle fortissime emozioni.
Questa mitologia è nata subito dopo la partita oppure si è affermata con il passare degli anni?
Credo che indubbiamente la drammatica morte di Agostino Di Bartolomei esattamente in ricorrenza dei 10 anni da quella finale abbia contribuito anche a far rileggere la storia di Roma-Liverpool. Da allora è inevitabile ogni anno ricordare i due fatti in maniera indissolubile. Non mi piace la definizione di “mitologia”, a me il 30 maggio piace ricordare l’emozione di essere arrivati a un passo dal coronare un’impresa non solo sportiva cui pochi si sono avvicinati, e la fortuna di averlo fatto con un uomo eccezionale come Agostino come capitano della mia Roma.
Come si tiene viva la memoria di un evento del genere?
Si tiene viva semplicemente raccontando, parlandone, evitando che resti un tabù innominabile della nostra storia, ricordandola. Ricordando la Roma bellissima che è arrivata fino a quel punto, che ha sfiorato quella vetta e farlo senza pudore dei propri sentimenti, fino al giorno in cui questa storia sarà superata nel momento in cui vinceremo la Coppa dei Campioni.
Hai mai pensato ad un se, se la Roma avesse vinto? In un futuro ipotetico cosa sarebbe accaduto e dove saremmo ora?
Certamente sì, se avessimo vinto sarebbe cambiata la storia sportiva della Roma e avrebbe preso tutt’altra piega, più positiva e più vincente o perlomeno questo mi piace immaginare. Sicuramente dal punto di vista personale, e credo che sia lo stesso punto di vista di tanti “ragazzini” della mia generazione, avrebbe sancito la soluzione definitiva della rivalità con la Juventus. Uno dei sogni, dei tanti sogni che andavano a comporre quell’enorme sogno della Coppa dei Campioni, era vincere la Coppa prima della Juventus che aveva perso la finale l’anno prima. L’avessimo vinta prima noi, per me, il discorso della rivalità con la squadra che ci aveva causato tante sofferenze sportive negli anni precedenti sarebbe stato definitivamente chiuso. Per me da quel giorno, se avessimo vinto, la Juventus non sarebbe più esistita.
Entrambi condividiamo gli studi in Storia dell’Arte e parlando abbiamo notato come Roma-Liverpool possa essere paragonata ad una di quelle grandi opere d’arte che sono in grado di trasmetterti ogni volta qualcosa di diverso, opere che continuano a parlarti. Qual è l’estetica di Roma-Liverpool, qual è il suo tratto maggiormente artistico?
Beh dal punto di vista estetico è stata una partita veramente ricca di spunti non solo per persone magari come noi abituate, appunto, a lavorare con le immagini, coglieregli aspetti estetici magari anche di un avvenimento sportivo. Per esempio anche dal punto di vista delle maglie c’è da dire che disputammo quella partita contro la squadra che secondo me in quel momento aveva la maglia più bella in assoluto, quasi di tutti i tempi tra le squadre inglesi, mentre noi giocammo la finale con una maglia particolare, inedita, un modello che era stato usato pochissime volte durante la stagione in pochissime occasioni precedenti, per di più in questo caso senza sponsor e senza scudetto (come da regolamento).
Una maglia completamente bianca con i bordi rossi e senza la presenza del giallo, l’altro nostro colore sociale, quasi fosse una maglia a colori invertiti rispetto a quella dei nostri avversari. Quindi c’era questo scontro quasi da Subbuteo. Sul prato verde la squadra rossa coi bordi bianchi contro i bianchi coi bordi rossi; dal punto di vista estetico, per me, una cosa bellissima. Poi ricordo sempre dal punto di vista iconografico il grigio, il grigio di quella giornata, di quel tardo pomeriggio che quasi non sembrava una giornata romana e poi il buio, il buio di quella notte che appunto è iniziata da allora, ma che vedrà di nuovo sorgere il sole il giorno in cui, per noi che c’eravamo e per Agostino Di Bartolomei, vinceremo la Coppa dei Campioni.
Paolo Castellani: Storico dell’arte, è autore con M. Ceci e R. de Conciliis di “La maglia che ci unisce. Storia illustrata delle divise dell’AS Roma dalla nascita ai giorni nostri” (2 ed, 2012 e 2015), e con T. Cagnucci di “55 secondi. Trenta maggio 1984” (2014). Nel 2016 è stato designato a far parte della Commissione per la Hall of Fame giallorossa.
Vorrei partire dalla genesi di Eravamo in Curva Sud (2004), il tuo libro in cui racconti l’esperienza della finale. Mi hai detto che per te non rappresenta la storia di una sconfitta.
Per anni, come ti ho detto, ho rimosso quella partita perché è sempre stata, è lo è tuttora, un grande dolore per tutta una serie di motivi. Non ultimo il fatto che, per me, la partita non l’abbiamo persa. Sai, quando trovi un avversario più forte riesci ad accettare la sconfitta, ma la Roma meritava di vincere. Non l’abbiamo vinta e quindi è stato un dolore che ho sempre cercato di rimuovere. Quando abbiamo fatto Eravamo in Curva Sud, quando l’ho scritto, mi sono reso conto che per la Roma quella partita, oltre ad essere un dolore – erano passati vent’anni quando abbiamo editato quel libro – era anche un patrimonio.
Questo perché Roma-Liverpool è il punto, la vetta a cui noi dobbiamo arrivare. La Roma non può festeggiare il terzo posto o la qualificazione all’Europa League. La Roma deve festeggiare quando arriverà ad alzare quella Coppa perché quello è il punto in cui il destino ci ha chiamato quel 30 maggio dell’84. Tra l’altro, proprio quel giorno ci fu un’eclissi di sole. Il 30 maggio ’84 la Roma ha visto un’eclissi di sole sul suo destino che è quello di essere, per me da tifoso romanista, la squadra più grande del mondo.
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Noi dobbiamo essere la squadra più grande del mondo. Questo meritano i tifosi, Questo merita la squadra per il nome che porta. Quel giorno, per un insieme di situazioni il sole, che siamo noi, si è eclissato. Però quella partita va raccontata e va ricordata perché è un memo, un post-it per ricordare ai romanisti dove stiamo andando. La terra promessa è quella. Ecco perché ricordare Roma-Liverpool non come la celebrazione di una sconfitta, ma come il ricordo di una promessa: la promessa che noi dobbiamo arrivare lì.
Questo è un aspetto davvero interessante perché sembra bilanciare la narrazione del lutto e della sconfitta stessa e fa parte di questa necessità collettiva del ricordo sempre presente. Continuare a ricordare, nonostante tutto.
Beh, questo è come la vedo io. Ho scritto anche un articolo tanti anni fa su Il Romanista che si intitolava proprio così. È una promessa, ma io ci ho messo vent’anni per elaborare questa cosa. Io la sento così poi non è detto che gli altri tifosi della Roma, che hanno vissuto quella partita, la pensino come me. Per me è questo il significato di Roma-Liverpool. Noi dobbiamo arrivare là e spero di vivere abbastanza a lungo per vederlo. Vorrei tanto vedere quel momento, ma sono sicuro che i tifosi della Roma prima o poi lo vedranno. Non ho nessun dubbio, assolutamente. Non so se ce la farò ad arrivare alla terra promessa, ma noi andremo. Quell’esperienza, in quel momento, avrà un senso compiuto.
C’è un aneddoto chi mi raccontavi e che mi è sembrato molto interessante, anche da un punto di vista di ricerca metodologica sulle fonti e sulle testimonianze. Mi hai raccontato che sei riuscito ad avere il contatto dell’arbitro Fredriksson e gli hai spedito una lettera. Puoi raccontarmi come è andata?
Prima della partita, me lo ricordo e se lo ricordano sicuramente tutti quelli che erano più grandi di me, ci fu un gran parlare sulla designazione di un arbitro svedese. Questo perché Liedholm era svedese e perché già si sapeva che sarebbe arrivato un altro svedese a sedere su quella panchina, vale a dire Sven Goran Eriksson. Quindi si chiacchierava e si viveva questa atmosfera di grandi “favoritismi”. Del resto questa è un’altra grande tematica ricorrente: l’aiuto del mondo istituzionale. E si è visto quanto ci ha aiutato….Probabilmente l’arbitro, nella sua fragilità di essere umano, si è sentito in dovere di dimostrare che non era lì per per aiutare Liedholm. Questa è stata una disgrazia cataclismatica dal momento che ha convalidato un goal che non si sarebbe dato, penso, neanche in una partita tra scapoli e ammogliati.
Se parlate con Tancredi, ancora oggi vi racconterà per quanto tempo ha portato sulla gamba i segni dei tacchetti causati dalla carica che ha subito. Quel gol non era assolutamente da convalidare, ma è stato il minimo rispetto ai tanti episodi di quella partita. Giocatori che nomino malvolentieri, perché non li ritengo degni dei campioni che schierava la Roma, hanno picchiato dal primo all’ultimo minuto. Probabilmente l’arbitro doveva dimostrare la sua imparzialità non favorendo la Roma e così ha arbitrato una partita per me allucinante. Ecco, quindi, il senso di scrivergli era innanzitutto dirgli quello che pensavo.
Non volevo, diciamo, concludere la mia vita senza dirgli che ci aveva privato di un risultato che secondo me era assolutamente nelle corde della Roma. Devo dire che, con grande signorilità, mi ha risposto il che gli fa onore. È giusto riconoscerglielo perché non aveva assolutamente nessun tipo di interesse a rispondere ad un ragazzo che gli scriveva da Roma e che aveva ottenuto il suo numero chiamando l’ambasciata svedese. Quando chiamai dissi che ero un un tifoso della Roma e che volevo fare delle domande all’arbitro della finale di Coppa dei Campioni perché non l’avevo digerita. Lì c’era un addetto, che tra l’altro era un tifoso, non della Roma, ma comune qualcuno che poteva capire la situazione.
E infatti capì subito che non era mia intenzione né insultare né arrecare un qualche tipo di disturbo ma semplicemente testimoniare un mio modo di vedere le cose. Ovviamente un modo molto radicato. Così mi venne dato l’indirizzo – parliamo di tempi in cui il concetto di privacy era abbastanza diverso da quello di oggi – che si trovava, molto semplicemente, sull’elenco del telefono. Ho scritto anche ai due guardalinee. Quando poi mi è arrivata la risposta – in svedese – era come se non avessi voglia di leggerla, se non avessi interesse a sapere quello che mi aveva scritto, e quindi prima di farla tradurre sono passati anni. Il libro era già uscito quando la risposta è arrivata. La lettera è rimasta per diverso tempo in un cassetto, poi, una volta tradotta è stata anche pubblicata su Il Romanista. Comunque la sua risposta non ha aggiunto molto a quello che pensavo.
Ho come l’impressione che anche se lui ti avesse dato la risposta più sincera, la sua verità più completa, alla fine non avrebbe cambiato il tuo pensiero. Non poteva essere la tua risposta.
Guarda ti dico un aneddoto che durante la stesura del libro mi è stato raccontato da Massimo Ciulli, l’arbitro delegato dall’Uefa ai controlli a bordo campo che, di fatto, fece da accompagnatore alla terna arbitrale per tutte quelle che potevano essere la logistica e le necessità degli arbitri. Lui mi disse di essere rimasto alquanto sorpreso da alcuni comportamenti. Per esempio, a 20 minuti dall’inizio, i tacchetti di Falcão non andavano più bene. E la Roma dovette perdere proprio quegli ultimi minuti prima della partita più importante della stagione perché i tacchetti secondo l’arbitro non erano a norma di regolamento, e così non si sapeva se Falcão sarebbe riuscito ad entrare oppure no. In un momento cruciale, la Roma si trovò ad affrontare un “problema” come quello. Ecco, per quanto possa ritenere Fredriksson un arbitro assolutamente corretto, non credo che quella sera fosse sereno.
Tra l’altro quello era il periodo in cui la Coppa dei Campioni veniva vinta anche da squadre inizialmente impronosticabili come il Nottingham Forest che ne ha vinte due di fila, l’Aston Villa e l’Amburgo che la vinse contro la Juve proprio l’anno prima di Roma-Liverpool. Da li a poco questo trend si sarebbe interrotto e sarebbero tornati i “monopoli” delle squadre più forti (in senso di preparate).
Aggiungo un altro particolare che sicuramente è vero per me, ma credo che non sia già vero per Paolo Castellani e per tanti altri. Io del calcio europeo me ne fregavo, perché all’epoca la nostra dimensione era quella italiana. Poi improvvisamente ci siamo resi conto che eravamo una squadra così grande che poteva diventare la più forte di tutti. La prima edizione della Coppa dei Campioni che ho seguito è stata quella a cui ha partecipato la Roma. Quando c’erano le altre squadre, per me, era come il torneo dell’oratorio Don Bosco. Non mi interessava assolutamente che la Juventus fosse arrivata in finale contro l’Amburgo. Chi c’era mai stato in Europa?
Penso che in quel momento diversi ragazzi si sono aperti per la prima volta ad una dimensione europea che la Roma non aveva avuto fino a pochissimi anni prima. Anche l’anno prima, infatti, la squadra aveva fatto un ottimo percorso arrivando ai quarti in Coppa Uefa, ma c’era lo scudetto da vincere. Non me ne fregava niente di quella Coppa Uefa. Noi eravamo concentrati a vincere lo scudetto. Non mi sono neanche accorto di quando la Roma è stata eliminata dal Benfica. E poi improvvisamente, invece, la Roma europea ci esplose in mano perché era una squadra grandiosa.
Una squadra che contro il Goteborg, penso, abbia dato uno degli spettacoli calcistici più netti, più nitidi, più meravigliosi che si sia mai visto nella storia del calcio. C’era una squadra che era meravigliosa, per me la più forte del mondo. E quindi ti dico la verità, il Nottingham o l’Aston Villa le ho scoperte solo dopo. Prima di Roma-Liverpool, mi preoccupavo solo perché avevo visto che il Liverpool era una squadra micidiale, che aveva già vinto due Coppe dei Campioni e che veniva da noi a giocarsi la terza Coppa in pochissimi anni. Era sicuramente straordinaria, ma a mio avviso in fase calante. La Roma era più forte. Poi tutta una serie di situazioni hanno favorito l’eclissi di cui parlavo prima.
C’è anche un altro aneddoto che mi raccontavi e che mi è sembrato molto affascinante. Il rumore dei tacchetti di Souness nel momento in cui sale i gradini per andare a prendere la Coppa. Tutto questo dà la l’impressione viva di chi c’era. Che altre sensazioni ricordi?
Ricordo che mi presero i crampi alle gambe, ne avevo anche di fortissimi allo stomaco. Avrei preferito morire lanciandomi dall’ultimo anello dello Stadio Olimpico perché è stato un dolore atroce. Vedevo gente attorno a me che non riusciva nemmeno a piangere. Quella sera non ho pianto perché sul momento ero concentrato sul “tremore” alle gambe. Mi ricordo in questo clima irreale, questo individuo (Souness n.d.r.) che saliva gli scalini. Allora i tacchetti erano diversi da quelli che vengono utilizzati adesso ed io ricordo nitidamente il suono dei suoi scarpini. Non volava una mosca. Si sentivano in Curva Nord i tifosi dell’altra squadra. È stato un momento.
Ricordo anche l’episodio di Gilberto Viti che era addetto della Roma per la cerimonia della consegna Coppa, anche perché la Roma risultava organizzatrice dell’incontro. Mi ricordo che [Souness] nel sollevare la Coppa gliela diede in faccia e ho ancora in mente questa scena di Viti che perde sangue dal labbro. Così come ricordo anche il momento in cui Souness mostra la Coppa prima verso la Curva Sud. Nessuno mi deve mai parlare del Liverpool perché per me non esiste, rappresenta il male calcistico assoluto e io sono uno dei più grandi appassionati dei Beatles che possano esistere… queste sono le contraddizioni della vita.
Il Liverpool come città mi ha dato una delle gioie più grandi, ovvero i Beatles che mi hanno riempito la vita di bellezza. E allo stesso tempo poi mi ha dato questa tragedia. Quindi per me, quel momento lì, sono i tacchetti di Souness che si sentono in uno stadio dove c’erano 90.000 persone. I tacchetti e il sangue di Gilberto Viti. Ancora oggi quando ripenso a quel momento mi viene in mente questo film e penso con grande dolore che, se fosse andata come doveva andare, quella Coppa sarebbe stata alzata da Agostino Di Bartolomei. Questo è il mio ricordo più vivo, non so gli altri che erano lì e che l’hanno vissuta. Ognuno avrà la sua.
Comunque si diceva che Paul McCartney tifasse Everton quindi ..
George Harrison, atterrato poco prima dell’incontro, dichiarò che avrebbe tifato per il Liverpool e anche Paul McCartney disse che, sebbene tutta la sua famiglia avesse sempre tifato per l’Everton, alle persone come lui era concesso fare quello che un abitante di Liverpool non potrà mai fare, ovvero tifare per tutte e due le squadre. Quindi quella sera avrebbe tifato per il Liverpool. Credo che a Paul gliene fregasse il giusto di calcio, però io in quel momento ho avuto la riprova che tra i due grandi amori della della mia vita, la Roma e i Beatles, era più forte la Roma. Penso sia stato l’unico momento della mia vita in cui avrei fracassato Paul McCartney con tutti i suoi dischi perché purtroppo eravamo su due barricate diverse. Quella sera lui sarà stato sicuramente felice, io no.
E se Roma-Liverpool fosse una canzone dei Beatles?
Secondo me, la colonna sonora di Roma-Liverpool è la prima canzone che fece Antonello Venditti quella sera al concerto al Circo Massimo. Mentre si giocava Roma-Liverpool, infatti, c’era un’altra isola di luce piena di altri 100.000 romanisti, che era il Circo Massimo. La prima canzone che fece Antonello Venditti quella sera era Attila e la Stella. Se leggi il testo di quella canzone – che io non ho più potuto ascoltare senza pensare a Roma-Liverpool – ti accorgi di quanto fosse profetica. Quella sera Antonello suonò per la prima volta Notte prima degli esami, la canzone della mia generazione.
Quindi per me non c’è la musica dei Beatles, ma c’è la musica di Antonello Venditti che secondo me ha saputo interpretare quel momento della nostra storia collettiva in una maniera per cui gliene sarò sempre grato. Non riesco ad immaginare cosa abbia rappresentato per lui dover proseguire il concerto e portarlo a termine dopo quello che era accaduto. Una cosa surreale. Quindi se mi chiedi la canzone di Roma-Liverpool ti rispondo che è la voce di Antonello Venditti. I Beatles stanno in silenzio.
Dopo anni, e innumerevoli ascolti, ho riletto Notte prima degli esami alla luce del fatto che l’avesse cantata per la prima volta dopo la partita. In particolare la frase “notte di sogni, di coppe e di campioni” come a slegare la coppa dai campioni. I sogni, le coppe e i campioni vivono tutti su di uno stesso livello e non bisogna aver vinto una coppa per essere campioni.
In quell’occasione, per me Venditti è stato come un altro grande artista contemporaneo, Banksy, cioè ha avuto la capacità di legarsi al momento prima ancora che il momento scoccasse. È stata un’altra di quelle cose irripetibili. È molto bello che quella canzone, che adesso compie quarant’anni, sia rimasta nella memoria collettiva di tutti magari con significati diversi perché penso che per un’adolescente che quest’anno fa la maturità può avere un significato diverso dal mio. Così come è differente per te.
Per me rappresenta la canzone di quel momento, di quando noi eravamo vicino alla Roma in cima al mondo e abbracciati alla Roma. Siamo stati insieme alla Roma, eravamo in Curva Sud. Tutta la mia generazione era lì, a spingere la Roma. Antonello Venditti ci ha saputo cantare. Una cosa di cui gli sono molto, molto grato. Ho incontrato Venditti alcune volte nella mia vita e non l’ho mai ringraziato. Glielo dico adesso, grazie.
Ti rubo ancora 5 minuti sulla questione generazionale. Roma-Liverpool è stato un evento che ha cambiato la prospettiva di quelli che l’hanno vissuta. Per una generazione di romanisti, ha significato tantissimo oltre il calcio. Penso che forse abbia, come molti eventi generazionali, plasmato il pensiero di molte persone. Pensi che abbia cambiato il modo di pensare la Roma e il pensiero sulla Roma?
Questo non te lo saprei dire perché ognuno ha il suo modo di vedere le cose, però sono convinto che quella sera, ad un certo punto, il percorso della Roma è cambiato. Nel corso della partita Agostino Di Bartolomei scagliò un tiro palesemente destinato ad entrare se non fosse per il Carneade in maglia rossa che prese in pieno volto. Quel tiro venne deviato, ed ho sempre pensato che poteva essere il proiettile d’argento in grado di far scoppiare il paiolo dove c’erano i dobloni d’oro, dove c’era la felicità. Quel momento avrebbe portato a tutta una serie di tappe successive. Noi l’anno dopo saremmo andati a Tokyo a giocare la finale di Coppa Intercontinentale contro l’Independiente.
La Roma sarebbe arrivata a essere quello che per me deve essere e sarà. Noi siamo la Roma, dobbiamo stare lì. Certo aver perso quella partita ci ha cambiato, ci ha posto in una traiettoria in cui le nostre vittorie sono sempre state drammatiche. Persino nel 2001 che sembrava dovessimo vincere (lo scudetto n.d.r.) con venti giornate d’anticipo siamo arrivati agli ultimi 20 minuti che non si sapeva se avremmo vinto oppure no. Tutto questo perché abbiamo una ferita, perché abbiamo visto portarci via il sogno a cinque centimetri dall’agguantarlo. È per questo che sono così preziosi i momenti in cui tu dimostri che la storia bisogna conoscerla ma non è detto che sei condannato a ripeterla.
Ho sempre pensato che essere romanista significasse avere una sorta di fatalismo, dover sempre iniziare recuperando. Ho sempre pensato che questo fosse un carattere distintivo, l’ho sempre legato ad una necessita di recupero. Tu cosa ne pensi ?
Non ti so dire, so che noi siamo qualcosa di unico al mondo. La Roma è un’entità, ti ripeto, particolarissima. Roma-Liverpool ha visto in campo la Roma più grande di tutti i tempi, la Roma che io ho più amato con un capitano che per me rimane il mio capitano, di cui sono immensamente orgoglioso e grato. Il primo anno di Agostino Di Bartolomei è stato l’ultimo anno di Angelino Ceretti lo storico massaggiatore della Roma del 1927. L’ultima squadra di Angelino è stata quella di Di Bartolomei. È stato un passaggio generazionale fantastico. I giocatori dicevano che Angelino era mezza Roma e l’altra mezza era Agostino Di Bartolomei.
Il capitano l’abbiamo amato tantissimo e vedo con grande piacere e con grandissima gioia che anche i romanisti che non l’hanno mai visto giocare lo amano altrettanto. Hanno capito che Agostino siamo noi. Quella poi era anche la Roma di Carletto Ancelotti, il Bimbo, che è rimasto romanista anche se poi è andato a vincere coppe in tutto il mondo e che, quando parla della Roma, utilizza ancora la nostra calata. Era la Roma di Madera, era la Roma di Franco Tancredi, di Sebino Nela. Non ne voglio dimenticare nessuno. Bruno Conti, Cerezo, Falcão, Nappi, Superchi. È la Roma che ho amato di più, a cui ho voluto più bene.
Questi giocatori mi sono rimasti tutti nel cuore. Abbiamo un debito enorme verso verso di loro, verso le gioie che ci hanno dato, verso quella cavalcata straordinaria che ci hanno fatto fare e verso quello che ci permettono di continuare a inseguire, a sognare. Tutto questo per me rimane Roma-Liverpool, oggi. Il 30 maggio non è solamente il ricordo di un dolore, ma un monito “Attenzione romanista tu devi arrivare lì”. Devi trovare qualcuno che alzi la Coppa dei Campioni per Agostino Di Bartolomei, per quella squadra e per noi che eravamo in Curva Sud, per noi che quella sera ci abbiamo provato con tutto quello che avevamo. Tutto qua.
Massimo Izzi nato a Roma nel 1971 da famiglia di Testaccio (via Ginori) che gli spiega l’addendo della sua vita: essere romanista senza bisogno di doverlo diventare. Nel 1999 si laurea in Lettere. Un suo professore prova ad appiccicargli una tesi sul Circolo Canottiere Aniene, ringrazia e cambia professore che gli assegna una tesi sulla fondazione dell’As Roma. Da quel momento scrive una ventina di libri sull’universo giallorosso, tra questi la prima biografia di Italo Foschi lavorando per 3 anni sulle carte dell’Archivio del fondatore giallorosso messe a disposizione da Vittorio Zingarelli, ultimo nipote vivente di Foschi e suo grande amico.
Nel cuore anche il libro dedicato ad Angelino Cerretti scritto a sei mani con Paolo Arcangeli e Massimo Germani, e con l’ausilio dello sterminato Archivio della famiglia Cerretti, e il libro ‘Il Bimbo’ dedicato a Carlo Ancelotti che consegna nelle mani dello stesso in un pellegrinaggio laico a Madrid. Ha collaborato con l’Archivio Storico della Roma che lo ha inserito nella commissione della prima Hall of fame della storia del Club e membro del Centro Studi UTR sulla storia della Roma presieduto da Fabrizio Grassetti. Ancora oggi prima di ogni partita della Roma la sua analisi è asciutta ed equilibrata “CONTRO QUESTI NON POSSIAMO NON VINCE”!
Qual è stata la domanda che ti hanno fatto di più su Roma Liverpool? Quali sono i tuoi ricordi?
Questa è una partita talmente densa, profonda e immediatamente grande che di solito parto a parlare e basta. Si prendono spunti a caso, tanto sta tutto dentro ancora adesso. Se dovessi scegliere un’immagine ti direi “il silenzio”. Io non ero allo stadio, avevo dodici anni e mi trovavo a San Lorenzo, il mio quartiere grazie al quale devo tutta quella montagna d’amore per la Roma. Prima della partita ricordo una serie di carri che giravano per il quartiere come fosse il Paese dei Balocchi. Noi ragazzini ci salivamo sopra e andavamo in giro, mi ricordo che, a un certo punto, siamo finiti al Circo Massimo e siamo tornati a San Lorenzo. In giro vedevi persone con le sciarpe e le bandiere, quelle già con la Coppa dei Campioni e si cantava “Coppa dei Campioni Oh Oh” sulle note di Vamos a la playa dei Righeira.
Poi si torna a casa. In televisione vedo un servizio di TeleRoma 56 sul pre-partita e inizio a cambiare inspiegabilmente mood; poi, i Beatles. Da lì qualcosa ha iniziato a “stranirmi”. Non era per l’emozione della partita, era come se cominciassi veramente a vedere cosa e contro chi andavamo a giocarla. Mi affacciavo su qualcosa di mai visto. È lì che è cominciato il silenzio, su quei carri, sulla città, sull’entusiasmo. La partita di per sé è stata diversa da tutte le altre partite di cui ho memoria da bambino. Ricordo molto più della Roma dal ’79 al ’84 che di una partita di cinque-sei anni fa. Ho fatto il giornalista, ho scritto di Roma e bisogna sempre ricontrollare qualche dato, ma io di quegli anni ricordo tutto senza guardare niente, neanche le classifiche, le altre squadre, addirittura i palinsesti televisivi che c’erano quando la Roma giocava ce li ho qua davanti.
Quella, però, è stata una partita strana anche da questo punto di vista, non la ricordo ma non per il discorso che “la Roma non l’ha mai giocata”, ma è come se fosse stata giocata in un altrove, in uno spazio altro, tra un prima che ricordo appunto nitidamente e un dopo che ancora vivo. Roma-Liverpool è stata giocata da qualche parte della mia e della nostra memoria nel silenzio. Il silenzio, lo ricordo sia in piazza a San Lorenzo, sia a casa mia con i miei genitori preoccupatissimi, visto che io stavo male anche quando la Roma perdeva in amichevole. Ero proprio esagerato eh, ma stavo male veramente. Mi sembrava sempre la fine del mondo quando la Roma perdeva. E quella notte la Roma non ha vinto la Coppa dei Campioni ai rigori…Che voi dì? Silenzio. Anche perché poi a un certo punto dovevi spegnere la luce e provare a dormire. Ma ecco, quando l’ho spenta non ho visto la differenza.
Parli dell’eclissi?
Sinceramente ho saputo dopo dell’eclissi, no, non me lo ricordavo che c’era un’eclisse. Però lo scuro del 30 maggio sta tutto nel contrasto con quella maglietta della Roma bianca, così stranamente bianca. È come se risaltasse di più.
Ti avevo chiesto una domanda, e quindi una parola ricorrente su quella partita, e tu hai raccontato tutto tramite delle immagini…
Eh, sì io lavoro così. Per me il silenzio è un’immagine. L’immagine di una Roma che non mi parlava. Non c’era la festa, non saprei come dire, ma tutto sembrava ovattato. Tutto era ovattato.
Questo aspetto, dell’atmosfera ovattata, quasi una cappa, è un qualcosa che è emerso dall’intervista con Paolo Castellani, con il quale del resto avete scritto “55 secondi. Trenta maggio 1984” (2013). Da quello che mi avete raccontato sembra come se ci fosse stato un evento, un cielo, non da Roma. Come se fosse effettivamente cambiato il clima.
Sì, qualcosa del genere. Anche perché in quegli anni c’è stata la Roma più grande e la Roma più grande era una Roma che aveva il sole in faccia, allo stadio e negli occhi. A quella Roma sono legati non solo i miei ricordi da bambino ma quelli della nostra dell’età dell’oro. Quella Roma era sempre, direi, ferocemente, solare e aperta. L’Olimpico era senza coperture, il marmo era bianco, e vedevi la Madonnina d’oro dallo stadio. Tutta era aperto e grande. La Roma stessa, ti ripeto, era solare, anche quando giocava di notte all’Olimpico la notte diventava blu elettrica, c’era il sole pure alle 22 con quella squadra, invece quella notte c’era… la notte.
Qual è, invece, la domanda che avresti voluto che ti facessero rispetto a questa partita. Cosa senti, se c’è, di non aver detto?
Perdonami ma per lavoro, per cuore e per mestiere, ho scritto talmente tanto su Roma-Liverpool che neanche mi ricordo più quello che ho scritto e a volte devo andare a rileggerlo (ride n.d.r.). In “55 secondi” ho scritto molto di quello che volevo scrivere. Forse la cosa a cui tengo di più e che mi sembra un po’ meno banale è quell’apparente paradosso che la Roma non ha mai giocato una partita così in trasferta come quella. Per tutti, per me, era la finale di Coppa Campioni che giocavamo in casa. Perché era così. Sulla carta, nel cuore. Coppa dei Campioni a Roma, Stadio Olimpico e lo stadio, il fattore campo, soprattutto all’epoca, per la Roma era una cosa enorme.
C’era la regola del 3 a 0 perché vincemmo 3-0 col Goteborg, 3-0 con la Dinamo Berlino, la squadra dell’est col portiere alto due metri (iperbole n.d.r.), vincemmo 3-0 al ritorno contro il Dundee. Adesso che ci penso, non prendemmo neanche un gol all’Olimpico in quella coppa. Lo stadio con i suoi ottantamila si riempiva dalla mattina: quella era la Roma più forte, con lo stadio più caldo che faceva un record di incasso ad ogni partita. C’era questa cosa da ragazzini, si diceva, ad esempio “Roma-Inter incasso record un miliardo e ottocento milioni, il record di tutti i tempi nel campionato italiano”. Era una costante a ogni partita, come i sold out di adesso. Un ritornello. Giocare in casa era proprio qualcosa che sentivi sulla pelle, una cosa tua, e quindi la Coppa dei Campioni da giocare in casa era molto di più di un’occasione enorme.
Invece, ed è questa è la cosa strana, l’impressione che ho avuto guardando in televisione quello strano pre-partita con i Beatles e l’ingresso in campo e tutto il resto è che mi avevano cambiato casa. Era diverso tutto. L’Uefa vietò ai ragazzi del Commando di fare la coreografia che volevano, quindi diciamo che già veniva meno il corredo scenografico che tutti si aspettavano (a parte l’enorme coppa nei Distinti). In generale era diverso lo stadio. L’Olimpico era sempre pieno in quegli anni. Basti pensare che per Roma-Ascoli, girone eliminatorio di Coppa Italia ’del 1979, ci furono 71.000 paganti. Vedi Roma- Liverpool e ti accorgi subito che nei Distinti Nord, tra la Tevere e la Curva, c’è un vuoto. Dissero che quel vuoto doveva servire come zona cuscinetto per i famosi hooligans.
C’è chi sostiene, anche se per me è una forzatura, che in questo modo si sia evitata la tragedia come purtroppo successe proprio l’anno successivo all’Heysel. Quindi ti trovi ad entrare in campo senza la coreografia della Curva Sud e con gli spalti “vuoti”, cosa che non avevo mai visto con la Roma, pensa in una finale. Per farti un esempio una volta al Flaminio ci fu Roma-Spes Artiglio, la squadra di San Lorenzo: rimasero fuori 5.000 persone. L’altro elemento fortemente straniante era proprio la maglia della Roma, una maglietta “santa” quella dell’ultima partita, della partita più grande ma una maglia con la quale la Roma non aveva mai giocato: soprattutto, non c’era il giallo. Era una maglietta bianca e rossa.
Non c’era la Roma su quella maglia, anche se adesso su quella maglia la Roma è immortalata per sempre. Nel momento in cui entri in campo vedi il Liverpool e le loro bandiere giallorosse. Chi giocava in casa? Per ricapitolare, lasciando perdere pure i Beatles trasmessi a Teleroma 56, in quella notte “a casa mia” non ho la solita Curva Sud, c’era uno stadio “vuoto” e una maglietta che non è una maglietta della Roma. Non c’è la Roma, non è giallorossa. Il Liverpool invece aveva già giocato tre finali di Coppa Campioni e la prima proprio all’Olimpico nel ’77 contro il Borussia Mönchengladbach. Era casa loro. Era come se qualcuno fosse entrato a casa tua e avesse cambiato l’arredamento prima del tuo rientro. Quel qualcuno è il Liverpool.
E allora cosa c’è di più estraneo e straniante di sentirsi straniero a casa tua? Di non riconoscere casa tua? Altro che straniamento di Brecht. La Roma non ha giocato quella partita in casa. La Roma biancorossa, in trasferta all’Olimpico, contro un avversario che aveva già vinto una Coppa Campioni proprio in quello stadio, in una finale, quella del 1977, in cui il neonato Commando Ultrà era nella curva del Liverpool a tifare reds: il coro per Agostino Di Bartolomei “Ohhh Agostino Ago Ago Agostino gol” nasce quella sera prendendo ispirazione da un coro del Liverpool che facevano al loro Joey Jones. Oh Agostino… Che potevamo fare?
Dal momento che l’elemento dell’infanzia sembra essere un tema ricorrente, ti volevo fare domanda. Se potessi tornare indietro e parlare con il te, piccolo tifoso, cosa gli diresti?
La risposta è che questa cosa non è un’ipotesi, ma succede ancora adesso. Io sono fermo a quella partita. Io sono ancora Tonino bambino e ho appena perso la Coppa Campioni. Ho cercato di scrivere di quella partita, ne ho fatto un mestiere, però io sono ancora quel bambino che ha perso, io sono quello che aspetta di rigiocare, e quindi è qualcun altro che deve venire a dirmi qualcosa.
La cosa che mi colpisce è che se potessi tornare alla tua infanzia comunque non diresti al piccolo te di non preoccuparsi, che tutto passerà.
No, no, no, io sono quel ragazzino che il giorno dopo, il 31 maggio del 1984, la mattina si alza e non va a scuola. Da allora, ogni 31 maggio, io cerco di non fare niente, perché quel giorno ebbi una sorta di dispensa papale dei miei genitori. Ricordo che feci una passeggiata a San Lorenzo e mangiai un panino con la mortadella in un bar a via degli Equi che dal juke box mandava “Grazie Roma”. Non mi direi di non preoccuparmi, perché mi direi una bugia. Mi direi che continuerò a tifare Roma perché è la cosa più bella del mondo. Non saprei dirmi nient’altro che forza Roma.
La tua infanzia ha coinciso con un periodo incredibile per la Roma. Hai “incontrato” la Roma in un momento in cui la tua fantasia era ancora tutta da scrivere.
Da una parte sono stato una sorta di campione da laboratorio. Il destino ha voluto che fossi il bambino e il tifoso più fortunato del mondo, dall’altra, l’uomo e il tifoso più sfortunato. Io divento della Roma sostanzialmente fra il ’79 e l’80 anche se mi ricordo qualcosa della stagione ’78-’79. La prima volta che vidi una partita era tutto un mondo da scoprire ed era un mondo enorme e bello e la Roma se andava male vinceva la Coppa Italia. Poi ho visto Falcão e ho visto la luce. Punto. La Roma in quel periodo vinse lo scudetto dopo quarantuno anni e anche se avevo undici anni quello scudetto lo sentivo, e lo sento, tantissimo.
Era come se anche io avessi aspettato quarantuno anni per via di tutti i racconti che sentivo e delle cose che vedevo in giro, in città e allo stadio. Con la finale di Coppa Campioni, a dodici anni, possiamo dire che ho finito la mia carriera. Scherzando, dico che la Lazio l’ho scoperta a diciott’anni, ma è quasi così. Quando inizi così ti aspetti sempre il massimo e invece non sai che a 12 anni hai appena vissuto gli anni più belli della tua vita. Eravamo troppo felici per immaginarci un futuro diverso.
Ti faccio l’ultima domanda. Parlando di questa partita sono emerse diverse parole ed elementi ricorrenti come dolore, fine di un ciclo, promessa da mantenere, necessità di ricordare. Vorresti aggiungere un’altra parola?
Forse direi purezza. Purezza per tutto ciò che quella maglietta bianca ha sempre significato per me, con la sua mancanza di giallo. L’eclissi, il sole. La notte che è la nostra notte. C’è un senso di purezza e tenerezza verso il tifoso della Roma che ha giocato la partita più grande della sua storia fino all’ultimo. Fino al penultimo rigore, visto che Chierico il quinto non l’ha potuto tirare. Purezza perché racchiude tutta un’epoca da sogno. Un po’ idealizzata, ovviamente, ma è stato un tempo fatto di grandi partite, di grandi sentimenti, di persone che erano innamorate di Roma. È la purezza di quel sentimento, di quel sogno che ci ha accompagnato fin lì. Purezza ma anche orgoglio sconfinato, infinito, perché ho giocato quella partita avendo come capitano Di Bartolomei.
Tonino Cagnucci è nato a Roma il 21 luglio nel 1972. Giornalista professionista, laureato in Filosofia, già Direttore del Romanista, ha pubblicato sette libri, tra cui Il mare di Roma; Fabrizio De André, storia di un tifoso del Genoa; 55 secondi fra gli altri. È alla Roma di cui è stato membro della Commissione della Hall of fame, consulente storico e adesso S.L.O. Considera Paulo Roberto Falcão il più grande pensatore del Novecento insieme a Pasolini, Goldrake e McEnroe le espressioni più alte del genio umano. Cura il blog Cogito ergo Sud.
Come si racconta un evento storico così collettivamente pregnante 25 anni dopo? Soprattutto, come lo si racconta dopo averlo vissuto da giovanissimo in curva e poi essere diventato inviato e giornalista sportivo quindi professionista del racconto del calcio?
Roma-Liverpool è un archetipo. È un’aspirazione negata che si ripete, una sliding door che ti fa entrare nella dimensione sbagliata di cui rimani prigioniero. È un racconto universale perché è in linea di continuità con tutte le altre Roma-Liverpool che si sono ripetute avendo solo l’accortezza di cambiare nome: Roma-Lecce, Roma-Sampdoria, Roma-Slavia Praga …e potremmo continuare ancora senza neppure il conforto di un arbitro Taylor da prendere a male parole o di un gol buono di Turone da moviolare fino alla fine dei tempi.
In Roma–Liverpool non c’è la consolazione dell’errore umano (anche se il vantaggio dei Reds nasce da una possibile carica al portiere) ma solo la fatalità che diventa imprinting, quindi destinata a ripetersi, contribuendo all’affresco romantico di una tifoseria innamorata e sempre ad un passo dalla gloria. Da questa consapevolezza nasce una narrazione connessa con tutto.
Una sorta di ipertesto emotivo che mescola emozioni di vita personale e collettiva in un’osmosi continua fra passato e presente con un racconto che contamina l’epica calcistica con incursioni nella cultura pop e notazioni tratte dal bagaglio esperienziale del giornalista. Dal punto di vista pratico mi ha aiutato la mia forte memoria e il confronto con mio fratello che ha vissuto l’evento insieme a me, la consultazione di tutti i giornali dell’epoca e la visione dell’intera partita, ripescata dagli archivi (non l’avevo più rivisto da allora).
Nel tuo libro Quel Roma-Liverpool di un mercoledì da cani (2009) le linee temporali non sono fissate dalla triade “passato-presente-futuro” bensì l’intera narrazione è costruita in una continuità temporale in cui gli eventi vengono continuamente richiamanti alla memoria e compresi alla luce della tua esperienza attuale. Allo stesso tempo nella tua narrazione il senso collettivo di quella finale si mescola costantemente con quella che è la tua storia personale. Cosa ti ha portato a scegliere questo approccio e a cosa è stato funzionale in termini di memoria e descrizione ?
Mi piace rileggere il passato alla luce del presente per far sì che non sia solo e semplicemente nostalgia ma diventi anche strumento di comprensione. È lo stesso motivo che mi porta a dire che rivivrei volentieri gli anni dell’adolescenza ma con la testa e l’esperienza di oggi: essere di nuovo com’ero e rifare le stesse identiche cose senza termini di paragone non sarebbe un gran vantaggio. Riguardo poi al singolare-plurale della mia narrazione penso che gli eventi epocali (e Roma-Liverpool lo è stato) siano sempre collettivi e al tempo stesso personali. Facendo le opportune distinzioni, quante volte, parlando con qualcuno ci è capitato di chiedere: “dov’eri tu l’11 settembre?”.
Parliamo – ovviamente – di fatti completamente diversi e neppure paragonabili ma è solo per dire che un evento collettivo ci porta sempre a confrontare la nostra esperienza personale con quella degli altri in relazione dell’evento stesso. Roma-Liverpool è stata la mia “Linea d’Ombra” precoce e mi ha dato anche un po’ di quella distanza necessaria per fare il mestiere di giornalista e per scrivere e parlare di sport. Dopo l’ultimo calcio di rigore – quando tutto è diventato reale la sofferenza si è trasformata in dolore puro – ho visto attorno a me un oceano di tristezza e disperazione…su quella tristezza galleggiavamo tutti come superstiti e in quel momento ho pensato che la felicità dovevo andarmela a cercare di persona e non potevo delegare il compito a undici calciatori che rincorrono una palla.
È per questo che la mia Roma-Liverpool è storia collettiva e storia personale. Ma è il calcio in genere che mi lega al personale, nel ricordo di mio padre che mi ha lasciato troppo presto e che una sera di fine estate mi ha portato a vedere Pelé. E al fondo di tutto, probabilmente, c’è proprio la difficoltà di accettare la finitezzae la perdita e il tentativo di scomporre e riscrivere il Tempo nell’illusione di controllare l’unica variabile che non riusciremo mai a governare.
Un passaggio che mi è piaciuto molto è quella della tua “impersonificazione”, in qualità di terzino con Phil Neal. Perché hai scelto lui e non Nela, nel senso, perché hai scelto di immedesimarti con l’avversario?
Sebino Nela è mitologia calcistica, dotato di forza fisica sovrumana e sensibilità terrena che esprimeva nel tocco di palla in velocità. Era accelerazione brutale capace di saltare l’avversario e intuito raffinato per la posizione e l’inserimento. Insomma, un Totem che potevi vedere da molto lontano, mentre Phil Neal affondava i tacchetti nella mia stessa zolla di terra, nei pomeriggi fangosi dei campetti di periferia: niente dribbling e movenze da campione. Neal Era il “terzinaccio”, il numero 2 (il numero meno affascinante della muta), un binario con due linee che non si incontrano mai, ma che da qualche parte necessariamente ti porta. Senza di lui non era neppure ipotizzabile giocare.
Neal era sempre lì dove ti aspettavi di trovarlo, in campo per iniziare la partita: record di presenze con la maglia della nazionale e con quella del Liverpool, la squadra con la quale ha vinto tutto. Tanto concreto che a volte faceva pure gli straordinari e te lo ritrovavi dove non ti aspettavi: al centro dell’area avversaria in una finale di Coppa dei Campioni giocata in campo avverso, per sfruttare l’unico corridoio disponibile al termine di un rocambolesco flipper e mettere il pallone in rete con un tocco banalissimo nella porta vuota. Neal era l’uomo che trasformava l’ordinario in virtù. A pensarci bene Neal era l’anagramma di Nela: colui che rimescolava le carte e mi offriva una chiave di lettura alla vita reale strappandomi dal sogno.
Il libro è diviso per momenti e protagonisti ed è costruito attorno al suo ambiente. Da una parte la tua, e quella di tutti, attesa spasmodica, dall’altra la “mascherata” tranquillità inglese. Nel mezzo, il racconto di come le squadre sono arrivate fino alla finale passando per elementi “esterni” alla partita stessa come il primo goal in giallorosso di Falcão, l’importanza dell’essere scozzese nel Liverpool, fino al “vaffa” di Chinaglia e la finale di Coppa Davis del 1980. Come hai scelto questi momenti e come li ha collegati nel racconto di quella partita?
Li ho scelti per associazione di idee, mi piace andare in giro con la mente perché ogni cosa è connessa e mi fa sempre pensare a qualcos’altro. La vita è fatta di vasi comunicanti, spesso addirittura di veli osmotici, e non esistono limiti espressivi se non quelli che ci auto imponiamo. È un concetto che potrebbe sembrare etereo ma credo invece sia qualcosa di fortemente pratico, tanto in natura quanto in economia e nella società civile.
Il malfunzionamento di tante cose dipende dalla difficolta che abbiamo di pensare a noi stessi in connessione con gli altri e con un contesto di cose più ampio. Il calcio poi è sempre un’ottima occasione per parlare di altro, un metalinguaggio che unisce tutti e abbatte qualsiasi barriera. È la famosa “metafora della vita” – come diceva meravigliosamente Juan Paul Sartre – che ne decreta il fascino e che travalica i limiti del campo per divenire fenomeno psicososciale.
Come mi ha raccontato in una precedente chiacchierata, “alla fine parlano solo i vincitori e la sconfitta sembra azzerare tutto il percorso fatto”. Ecco, la Roma prima di quella finale aveva disputato una grande stagione europea. Qual è la partita che ti è rimasta più impressa?
La prima, ovvero Roma-Göteborg, davanti allo stadio Olimpico gremito fino all’inverosimile… e quel gol incredibile del 3-0 con un fraseggio stretto palla a terra, il pallone che passa due volte fra le gambe di Paulo Roberto Falcão e arriva sul piede di Toninho Cerezo che entra in porta lasciandosi dietro una scia di finte per piazzare un tocco sopraffino fra il difensore che lo tallona e il portiere avversario in uscita. Un miracolo di sincronia, di equilibrio e di grazia. Ricordo anche le trasferta nell’allora misteriosa e imperscrutabile Europa dell’Est, con il diagonale vincente di Falcão nella porta del Cska di Sofia e l’impensabile rete in contropiede di Emidio Oddi “leone” in casa della Dinamo Berlino.
Tappe di un viaggio europeo fantastico, totalmente cancellato dai calci di rigore dello stadio Olimpico. Perché nel calcio – come nella vita – la storia la scrivono solo e sempre i vincitori. È una tendenza forse impossibile da invertire, ma in questo senso ho apprezzato molto le parole sorprendenti di Gianpiero Gasperini che al termine della Finale di Europa League stravinta contro il Bayern Leverkusen ha detto «Oggi non mi sento più bravo di ieri e il percorso della mia squadra va valutato per la stagione e non solo per la finale stravinta». Il viaggio…e non solo la meta! Peccato che abbia avuto la possibilità di dirlo (e sia stato apprezzato per questo) solamente perché è risultato vincitore.
In uno degli ultimi capitoli scrivi: «Per quanto fosse incredibile la Roma aveva perso la sua finale in casa. Il destino a lungo atteso non si era presentato all’appuntamento. L’enorme bolla di cristallo era finita in frantumi, e ognuno, sugli spalti, raccoglieva come poteva i propri frammenti emotivi». Cosa ha significato da un punto di vista emotivo quella sconfitta? Che mitologia ha creato?
Roma-Liverpool è un trauma rimosso dalla memoria collettiva e le rimozioni non fanno mai bene. È quello che dicevo prima. È come se volessimo cancellare il ricordo di un lungo viaggio perché non ce l’abbiamo fatta a raggiungere la meta finale, dimenticando tutti i luoghi visti e tutte le persone incontrate nel tragitto. Roma-Liverpool invece è esistita (al contrario di quello che dice Chicco Lazzaretti della 3^ C) e avrebbe dovuto essere motivo di orgoglio, prima che si stratificasse con le delusioni successive e diventasse archertipo di una romantica mitologia dei perdenti che è stata declinata in vari modi. Mi viene in mente il famoso “Mai schiavi del risultato” che forse è una forzatura al contrario.
Proprio nel finale parli dei “se”, delle possibilità alternative e dei possibili scenari che più volte hai rivisto nella tua mente. Qual è il tuo “se”, cosa immagini avresti fatto o sarebbe successo se la Roma avesse vinto?
Difficile dire cosa avrei fatto io. Forse non avrei letto e scritto di calcio, non avrei sentito il bisogno di “cercare”… o forse lo avrei fatto lo stesso. Credo però che per la Roma sarebbe cambiato sicuramente qualcosa. Sarebbe entrata nell’Olimpo insieme alle grandi Inter e Milan degli anni ’60. L’imprinting che poteva cambiare la consapevolezza collettiva e dare un corso diverso alla storia.
Massimiliano Graziani, Vice Caporedattore della Redazione sportiva del Giornale Radio Rai. Conduttore della storica trasmissione “Tutto il Calcio minuto per minuto”, curatore e conduttore Su Radio 1 di “Extratime” lo sport si racconta. Per tanti anni telecronista e radiocronista inviato sui campi di calcio di Serie A.
Vorrei entrare subito nel vivo con una domanda “semplice”. Perché la Roma, perché Di Bartolomei? Ovvero, certe cose si possono scegliere o sono inevitabili ?
Credo che ogni artista debba parlare e raccontare storie che in qualche misura gli appartengano e che derivino dall’esigenza di essere raccontate. Io sono romano e romanista, ho la fortuna di “esserlo”, e quindi sono partito da una base solida di conoscenza dell’argomento però chiaramente ho fatto tanti spettacoli e ricerche. Ad esempio per Marocchinate. L’altra faccia della Liberazione (spettacolo realizzato insieme a Simone Cristicchi n.d.r.) in cui interpretavo un pastore ciociaro sono andato in Ciociaria e ho studiato il dialetto.
In questo caso, l’esigenza, la voglia, il bisogno e la necessità è stata quella di raccontare la storia di un uomo, Agostino, a partire dal punto di vista di un tifoso della Roma. Da questo punto di vista possiamo dire che sono stato agevolato, anche se la ricerca per lo spettacolo è stata lunga. Io dico sempre che sono le storie a sceglierti e non siamo noi a decidere le storie che raccontiamo. In questo caso spero che Agostino mi abbia scelto.
Nel tuo spettacolo “AGO”, Di Bartolomei è il protagonista assente e allo stesso tempo il pretesto per parlare di un mondo sociale e calcistico che non c’è più. Come hai costruito questo racconto e cosa rappresenta Di Bartolomei in questa riscoperta o consapevolizzazione della Roma/di Roma?
Dunque, ho costruito lo spettacolo attraverso un anno di ricerche, in cui ho letto libri, intervistato persone, e scritto per mesi e mesi chiuso in casa. Tutto questo mentre, naturalmente, facevo anche altri spettacoli, perché quando ti dedichi alla scrittura di un nuovo testo, purtroppo, non puoi fare solo quello ininterrottamente. Il percorso di studio è durato un anno in cui sono stato in giro per i vicoli di Tor Marancia incontrando vecchi tifosi, ex ultrà della Roma, vecchi amici di Agostino, gente del quartiere che mi ha raccontato le proprie storie. Sono entrato spesso nel bar dove andava Agostino, un bar, che mi piace definire “in bianco e nero”, dove ci sono ancora le foto di Agostino, i tavolini di una volta e le persone profumano di un tempo che non esiste più.
Tutto questo per me è stato molto affascinante. Una volta che ho avuto la prima stesura del testo, la primissima, ho fatto tre mesi di prove in un teatrino dei Castelli Romani, dove abito. Tre mesi incessanti di prove in cui molte cose non mi tornavano. Ho cambiato tante volte la regia, ho veramente stravolto il testo, me lo sono mangiato e rivomitato per tre mesi, tutti i mesi estivi. Poi ho debuttato nel 2019 al Teatro Ghione e da lì è partito lo spettacolo. Per quanto riguarda il mondo che non c’è più, posso dire che quando mi trovo a raccontare un personaggio come fulcro della storia questo mi dà allo stesso tempo la possibilità di parlare di una serie di altri aspetti più universali, più a 360 gradi.
Non racconti mai solo un personaggio ma anche il contesto dove è vissuto ed è proprio il contesto che dà un ulteriore universalizzazione allo spettacolo. Attraverso una Roma che non c’è più racconti un’Italia che non c’è più. Anche se il fulcro è Agostino, questo spettacolo non è solo per romanisti. Questa è la storia di un uomo, di una brava persona, di un uomo educato, gentile, dai modi raffinati, una persona coerente che non era capace di dire bugie né essere ipocrita. Ed è forse proprio per questo che la gente, anche lontano da Roma, anche se di calcio non sa assolutamente nulla si affeziona a questa figura. Perché ripeto, questa non è la storia della Roma o del suo capitano.
È la storia di un uomo che purtroppo ha fatto quello che ha fatto e questo lo rende ancora più vicino allo spettatore, perché in qualche modo tutti noi ci abbiamo pensato almeno una. Tutti noi abbiamo paura di rimanere soli, di essere abbandonati, di cadere in depressione. La riscoperta di Agostino, se possiamo definirla così, sta anche nel fatto che rappresenta una metafora del tempo che passa e quindi attraverso la sua figura abbiamo la possibilità di fermarci e capire che forse i valori, quelli più importanti, sono proprio quelli che emergono dal suo racconto. Si tratta di valori, secondo me, che vanno un po’ in controtendenza rispetto all’oggi, dove tutto si brucia, dove tutto si consuma in maniera veloce.
Agostino, invece, già nel suo modo di parlare, nella sua apparente calma, nei suoi silenzi e nel suo essere colto, curioso, lettore, amante della poesia, dell’arte, rappresentadei valori che si stanno perdendo. Questo ci riporta al fatto che è uno spettacolo universale, non solo sul calcio anche se, naturalmente, sappiamo tutti i valori calcistici e sportivi che Agostino emanava. L’eleganza, l’educazione il rispetto per le persone, il rispetto per i tifosi, per gli avversari. Poi, ovviamente, non era una persona per così dire così “univoca”. Aveva anche un altro lato della medaglia, per molti versi aveva un carattere un po’ forte. Quindi non era facile perché incarnava il carisma del vero capitano e questo carisma forse un po’ veniva sofferto anche all’interno dello spogliatoio.
Spesso si dice che il calcio è un arte, ma molte volte il passaggio dalla sfera agonistica a quella artistica di per sé – con tutte le sue reinterpretazioni – non è così facile e immediato ne tanto meno capito. In questo, molto probabilmente, la tua fede giallorossa ha fatto sì che la storia non venisse snaturata rimanendo il più fedele possibile alla vita vissuta. Come reagisce il pubblico di fronte al tuo spettacolo? Come lo considera?
Il calcio come arte…secondo me il calcio è uno sport. E poi sì, magari qualche calciatore può essere definito artista, in quanto regala emozioni, però, il fattore fisico agonistico prevale sull’arte. Sta magari a noi artisti andare a rispolverare quei lati artistici, poetici, malinconici del calcio che è anche e comunque un veicolo importante di aggregazione sociale. Il calcio deve essere rispettato per quello che fa, per quello che produce, non in termini economici, ma per quanto riguarda le masse delle persone, l’unione, l’aggregazione e lo spettacolo.
In questo la mia fede giallorossa mi ha aiutato però, naturalmente, per me fare teatro è un’altra cosa, nel senso che non si tratta solo di raccontare la sua vita, una vita, così come avviene nel teatro di narrazione di Paolini ad esempio. Ho cercato di creare, invece, una situazione teatrale, una storia, una favola dove un suo amico d’infanzia, un ex ultrà della Roma, il giorno dopo il triste evento va sotto casa di Agostino a Tor Marancia per realizzare uno striscione. Questo è il contesto teatrale drammaturgico di partenza per poter raccontare tutta la sua vita e quello che è stato. Si tratta di un monologo teatrale vero e proprio.
Come detto, la fede della Roma e per la Roma mi ha aiutato, però poi comunque ho adottato le tecniche di scrittura teatrale, tipica dei monologhi. Per quanto riguarda la reazione del pubblico, devo dirti che fin dall’inizio ho messo in chiaro che questo doveva essere uno spettacolo da portare anche a Trieste, Verona, Udine. Le persone piangono, si commuovono e stanno con me. Così è andata e così sta andando e questa è la più grande soddisfazione. Parlare anche a bambini e ragazzi giovani che non siano solo di Roma. Questo spettacolo fa politica nel senso sano, cioè, la polis viene a teatro. È un rito collettivo, un rito popolare di persone che non vanno mai a teatro se non proprio costretti, magari dalle mogli in passato, o a scuola da bambini.
Questa è la più grande soddisfazione, riuscire a parlare a tutte le fasce di età e tutti gli strati sociali come allo stadio. Del resto, quando lo presento a Roma il teatro diventa uno stadio. Quando invece vado fuori posso trovare un pubblico più teatrale più intellettuale, se vogliamo, che riesce ad apprezzare la storia. Paradossalmente quando porto fuori lo spettacolo è ancora più bello perché le persone non sanno niente di Agostino e senti un’attenzione diversa. Diventa teatro puro e puoi raccontare la storia di Tor Marancia e dello Shangai anche lontano da Roma. Tutti stanno lì ad ascoltarti.
Questo vuol dire che il teatro è democrazia, un posto libero dove se hai delle cose da dire, a cui tieni, le persone ti ascoltano qualsiasi sia l’argomento che proponi. Quando lo presento a Roma mi capita spesso di vedere tre generazioni, nonno padre e figlio, a teatro. A Roma, come detto, diventa un rito popolare e lo spettacolo si fa tutti insieme. Questa è un’emozione che dà senso al mio lavoro, alla fatica e agli investimenti fisici e spirituali che ho messo su questo spettacolo. Tanta fatica, tanta umiltà e abnegazione come diceva Agostino. Questo, tra l’altro è l’unico monologo che ho fatto tutto da solo. Di solito mi affianco a un regista.
Quando ci siamo sentiti per telefono, siamo stati abbastanza concordi fin da subito sul fatto che Agostino è un personaggio tragico – inteso proprio in termini teatrali – che porta con se qualcosa di “oltre”, qualcosa di meravigliosamente drammatico che non può essere ridotto o spiegato solo attraverso il calcio. Cosa rende unica la sua storia/vita?
Sì, sicuramente, è un eroe tragico, come ci siamo detti. Perché purtroppo non c’è il lieto fine e, quindi, come nelle grandi opere liriche, i suoi protagonisti, soprattutto donne, muoiono sempre. Cos’è che rende unica la sua storia? La rende unica il fatto di essere una storia per certi aspetti comune, una una storia che succede quotidianamente in Italia. Allo stesso tempo, il problema, la sua unicità, sta nel fatto che questa volta è successa a una persona “importante”, un calciatore importante, il capitano della Roma dello scudetto, una persona a cui teoricamente non dovrebbe succedere e invece succede.
Questo rende ancora più forte il messaggio. Poi c’è l’unicità della sua storia da calciatore come eroe tragico partito dal basso. Agostino ha iniziato a giocare a pallone sotto casa, i campetti di periferia, poi la Roma il sogno di una vita, il padre romanista, Tor Marancia e quindi romano romanista, attaccato ai colori, a questa maglia, poi tradito dalla società e mandato via. Come l’aneddoto di quando esultò a Milano che ancora molti a Roma, quando vado in giro, si chiedono perché avesse esultato (ndr, 14 Ottobre 1984. Di Bartolomei appena passato al Milan segna contro la Roma. La partita finirà 2-1 per i rossoneri).
Nello spettacolo racconto e spiego anche questo, il perché ha fatto quel gesto che non era rivolto certamente ai tifosi della Roma, ma era rivolto alla società, alle persone che non hanno tenuto conto di tutto quello che lui aveva fatto per la Roma compreso tirare il primo rigore contro il Liverpool, essere andato sul dischetto quando su quel dischetto stava per andare Graziani. Liedholm cambiò l’ordine all’ultimo e Agostino, tranquillo, andò in nome della maglia, della Roma, il suo amore di tutta la vita. E quindi, ecco, ci sono tutti quegli appuntamenti tipici di una drammaturgia tragica, di una tragedia greca.
Attraverso Di Bartolomei, racconti forse il momento epico per eccellenza, il mito fondativo e collettivo del romanismo. Roma-Liverpool. Cos’è stata quella finale in termini di memoria collettiva e cosa ha generato negli anni successivi ?
Roma-Liverpool è stata una grande illusione, tutto il contrario di tutto. È stata una partita, non è stata un partita. È stata giocata, ma non è stata giocata. È l’illusione di un popolo, il riscatto dell’Italia vista dalla Capitale, un’Italia che usciva dagli anni ‘70 e quindi una Roma, in questo caso, violenta che viveva un epoca tumultuosa e attraverso il calcio cercava una via d’uscita, un’affermazione anche a livello europeo, a livello estero. Perciò è stata una tragedia popolare.
Tornando al discorso dell’eroe tragico in questa partita c’è stato l’epilogo finale, perché quello è stato l’epilogo del rapporto tra Agostino e la Roma, quel dramma, così importante a livello sportivo. Per quanto si possa dire “quella è stata solo una partita” sappiamo che è non stata solo quello. È stato molto di più e il fatto che Agostino abbia preso la sua decisione nel giorno dell’anniversario di quella partita corona tutta la sua storia drammatica. È incredibile a livello di unicità, il fatto che lui si suicidò a 10 anni esatti da Roma-Liverpool.
Forse, tornando alla domanda di prima, è ciò che rende unica questa storia più di ogni altra cosa. C’era tutto, la voglia di riscatto di una popolazione, la voglia di crescere, di migliorare, la voglia di affermarsi. Se vedi le foto e i video dell’epoca anche i giovani erano diversi. Si vestivano con le magliette bianche che trovavano, non c’erano vestiti di marca non c’era niente, quindi attraverso il calcio le persone volevano rivendicare la propria presenza nel mondo. Roma-Liverpool è stata la partita che doveva decretare questo grande successo della capitale in giro per l’Europa e, invece, niente. È andata così.
Ariele Vincenti, nasce a Roma nel 1977. È attore, autore e regista teatrale. Si laurea al D.A.M.S. , si diploma nella scuola di recitazione Teatro Azione e successivamente partecipa a diversi seminari di commedia dell’arte, biomeccanica, musical e teatro di narrazione. Dal 2002 recita in vari film e fiction, ma la sua passione è il teatro. Partecipa come attore a circa 90 spettacoli come scritturato molti dei quali con tournée nazionali. Nel 2015 è attore e co-autore di Cose Popolari raccontando il mondo delle case popolari. Nel 2016 debutta con il suo primo monologo, “Marocchinate”, scritto con Simone Cristicchi in cui racconta le violenze avvenute in Ciociaria ai danni di migliaia di donne da parte dell’esercito alleato durante la seconda guerra mondiale. Dallo spettacolo è stato tratto l’omonimo libro edito da “La Nave di Teseo”. Nel 2017 come regista e co-autore mette in scena “Storie Bastarde” narrando la vita della periferia di Ostia degli anni ’80 e di come le giovani generazioni dell’epoca siano state segnate dall’eroina.
Nel 2018 conduce un laboratorio teatrale di un anno presso il carcere di Pescara, mettendo in scena, come attore e regista, lo spettacolo musicale “Dalle Sbarre alle Stelle”, insieme a 12 detenuti, prodotto dal Teatro Stabile d’Abruzzo al quale la trasmissione Blob ha dedicato una puntata. Nel 2019 è attore, autore e regista, di “Ago Capitano Silenzioso”, dedicato ad Agostino Di Bartolomei, storico Capitano della Roma morto suicida. Nel 2020 è regista di “Vita da Cani”, spettacolo ambientato in una sala slot, che affronta il problema della ludopatia. Nel 2020 debutta con il monologo “La Tovaglia di Trilussa”, dedicato al grande poeta romano. Nel 2021 è autore e regista di “I Matti di Dio”, spettacolo musicale, incentrato sulla figura di Oreste De Amicis. Nel 2021 è regista del Musical “Forza Venite Gente” in scena nei più grandi teatri italiani. Nel 2022 e 2023 è regista della sesta e settima edizione de “I Nasoni raccontano” dedicato alle fontanelle di Roma che ogni anno attraverso il teatro itinerante, racconta la storia di un quartiere della capitale e prodotto da “La città ideale”. Nel 2022 in occasione del centenario della nascita di Pasolini, dirige “Un giorno tutto questo niente sarà tuo”. Uno spettacolo finanziato dalla regione Lazio ispirato ad Accattone di Pasolini e interamente ambientato e messo in scena nei cortili di vari A.T.E.R. di Roma. Nel 2023 è regista della nuova edizione di Caino e Abele il Musical, in scena nei più grandi teatro italiani.
Roma-Liverpool: morte e rinascita di una comunità tifosa
Testo di Roberto Colozza
Gli occhi del mondo erano puntati sulla grande ellisse del Foro Italico quel giorno: quasi ottanta paesi e oltre l’80% dei telespettatori italiani. Il massimo del pathos per un’esperienza vissuta dal mondo romanista come epitome dei mali terreni e mortifero risveglio dal sogno di riprendersi l’Europa dopo secoli dal tramonto dell’impero d’occidente. La ferita del 30 maggio 1984 ha lasciato tracce indelebili nella memoria di chi lo visse.
Oltre la sconfitta, grava i ricordi il gran rifiuto dell’uomo-simbolo di quella Roma, Paulo Roberto Falcão, che inaspettatamente disertò la lotteria dei rigori. Si difende il diretto interessato: quella sera gli doleva un ginocchio e solo un’infiltrazione gli aveva permesso di scendere in campo; e poi in carriera non era mai stato rigorista. In una lontana partita di gioventù, ricordò per avvalorare l’autocensura, aveva fallito ben quattro dei cinque penalty in palio. Segna, è vero, quello decisivo nella finale di Coppa Italia del 1981 contro il Torino, ma uno scoglio, si sa, non può arginare il mare.
Decimata dagli infortuni e dal giudice sportivo, la Roma quella sera doveva affidare i tiri dagli undici metri a chi c’era, improvvisando. Anche per questo alcuni compagni di squadra, sentitisi traditi, insistono che davanti a una responsabilità del genere un vero leader deve affrontare stoicamente il destino anche a costo di fare figuracce. Quella cui va incontro Bruno Conti. Lui in fondo realizzava la profezia di Francesco De Gregori, scagliando il pallone sopra la traversa senza che ciò abbia scalfito d’un graffio la fama. Falcao, rinunciatario e sconfitto, scriveva la parola fine sulla sua carriera romanista. Tornerà in Brasile nel 1985, bloccato da un infortunio e ai ferri corti con la società per beghe contrattuali.
Da quella sera di primavera di 40 anni fa, le rappresentazioni dell’evento hanno enfatizzato o esorcizzato il dramma ma non hanno potuto far a meno di riconoscerne la centralità simbolica. Reazione fisiologica è stato il processo di vittimizzazione che per autodifesa s’è impossessato della generazione traumatizzata. L’immagine di eroi-reduci attraversa la ricostruzione che Tonino Cagnucci e Paolo Castellani offrono in un diario-memoriale intriso di religiosità civile giallorossa: la preghiera per la Roma, l’onniscienza di Falcão e gli epiteti evangelici che lo connotano, la sacralità di Roma-Dundee United, cioè dell’epica semifinale di ritorno vinta per 3-0 rovesciando lo sciagurato 2-0 dell’andata in Scozia[1].
Il titolo del libro evoca i 55 secondi duranti i quali la Roma, dopo l’1-1 dei 90 minuti, era stata virtualmente campione d’Europa: tra il secondo rigore della serie, quello realizzato da Agostino Di Bartolomei che l’aveva portata in vantaggio 2-1, e il pareggio ospite. È l’apogeo della storia sportiva romanista: un salto in alto del capitano lo immortala, la cui euforia si tramuterà presto in afflizione. Dal punto di vista dei giocatori, maggiore del dolore per aver fallito la partita è solo il non averla potuta giocare. Lo riconosce il difensore Aldo Maldera, milanese di nascita ma romano d’adozione, romanista dal 1982 al 1985 e assente quel giorno per un’ammonizione di troppo. «Io non ho mai visto tanto amore nei confronti di una squadra come a Roma», dice [2].
E forse la chiave di lettura di quel miraggio trasformatosi in incubo sta proprio nello psicodramma che avvolse alla vigilia una città non abituata a tanto. Perfino le falangi della Sud, sfibrate da troppe ore di gradinata e sgolate da canti precoci, finirono per incidere meno del solito. Senza saper che fare, tanti parvenu, giunti quel giorno per la grande occasione, sciuparono gli arnesi della coreografia per ingannare l’attesa giochicchiandoci, e trasformando la pista d’atletica in un tappeto di carta. Complice una bottiglietta volante che lo sfiorò nel bel mezzo del concistoro davanti alla Sud, il delegato UEFA decise infine d’impedire lo squadernarsi della coreografia, che prevedeva fuochi pirotecnici e quindi rischio incendio[3].
Se ansia disciplinatrice e stress avevano minato la performance dei tifosi, figurarsi i giocatori. Rinfrancati dal ritiro nell’assolata Tel Aviv con mogli e compagne, quelli del Liverpool dovevano avere l’aria di turisti in gita a fronte dei romanisti tesi, reduci da giorni di clausura e consapevoli di portare sulle spalle il peso d’un fato collettivo da compiere a tutti i costi. Sulla retorica solennità prevaleva il disimpegno, l’allure da allegra brigata dei Reds, che i testimoni ci raccontano rilassati e canticchianti nel tunnel diretto al campo.
Ispirato giullare di fronte ai rigoristi giallorossi, il portiere Bruce Grobbelaar si esibì in strane movenze danzando goffamente sulla linea di porta, facendo l’occhiolino ai fotografi, mordicchiando la rete in un buffonesco spettacolino. Istrione in campo, ma con un orrorifico passato alle spalle: la guerra in Rhodesia. Un’esperienza di gioventù che i suoi scherzi di giocatore erano forse un modo per confinare in un andito impercettibile della memoria. Fu censurabile antisportività la sua, o genialità beffarda, utile a distrarre il tiratore di turno? Ci s’arrovellerà a lungo Bruno Conti, cercando di elaborare lo choc nella solitudine della cantina di casa, di fronte a quella «specie di altarino» realizzato dal padre: un muro solcato da un intreccio di tubi di servizio pittati di giallorosso[4].
La spasmodica attesa per Roma-Liverpool era cominciata subito dopo il triplice fischio della semifinale di ritorno, in un climax d’ansia divorante esorcizzata da una temerità cui dava sfogo la voce anonima di Pasquino, sfidando gli albionici e la sorte dal suo piedistallo marmoreo: «Ma chi so’ ’sti pellegrini, je faremo l’ossa rotte, basteranno du’ pallini e agli inglesi bonanotte»[5]. Fissata la vendita dei 18500 biglietti ai non abbonati per le ore 9 del 14 maggio, i potenziali acquirenti erano autorizzati a comprare massimo due tagliandi cadauno. S’accamparono in ordine sparso fuori dall’Olimpico fin dal tardo pomeriggio precedente, muniti di sedie sedili d’auto sedie a sdraio, poltrone sacchi a pelo coperte, vessilli e verve da gradinata, ingannando il tempo con carte da gioco e giochi da tavola, partitelle a pallone, carne alla brace.
Già nella notte le prime scaramucce. All’ora X circa 15000 persone si muovevano all’unisono verso i sei sportelli e l’immane groviglio mutò in paurosa ressa. Svenimenti, tafferugli, cariche della polizia, gas lacrimogeni e sassi, spari in aria e baluginare di coltelli, fake news su morti e moribondi, macchine semidistrutte. Chi rinunciò e chi prevaricò, chi scippò i preziosi rettangolini ai legittimi proprietari e chi fece incetta, chi manteneva un barlume d’autodisciplina e chi cercava rifugio dove poteva. Poco meno di una ventina i feriti, una decina scarsa gli arrestati per una battaglia da anni di piombo cui seguì il prevedibile scaricabarile tra A.S. Roma e municipalità, e l’intervento dell’autorità giudiziaria.
Il giorno della finale i mattinieri s’aggiravano in zona Olimpico dalle 8 e guadagnavano la gradinata intorno alle 13: sette ore prima del fischio d’inizio. La vita metropolitana quel giorno scivolava a passo di coro. Il megaconcerto di Antonello Venditti al Circo Massimo raddoppiava il cerimoniale del 1983, la prima parte anticipando il match la seconda seguendolo all’ombra di un maxischermo, il più grande dei cinque allestiti in giro per la città. A giochi fatti, mentre il cantore della romanità giallorossa cercava di rincuorare uno stuolo d’animi affranti, gongolavano gli inglesi. Circa 8000 erano giunti all’Olimpico d’oltremanica: una fiumana di forestieri cui l’Urbe calcistica non era avvezza, eccettuati i match col Napoli. Già questo scombussolava gli equilibri.
Per giunta i tifosi del Liverpool non brillavano per paciosità: la sinistra fama dell’hooligan li precedeva, che le visite diplomatiche presso i Roma club d’una delegazione guidata dal vicesindaco Jimmy Hackett poterono solo stemperare[6]. Qualche secondo dopo l’ultimo penalty, mentre il silenzio opprimeva l’anfiteatro del Foro Italico e migliaia di case, il coro «Roma, Roma!» surclassava i festeggiamenti altrui, encomiato dal solidale telecronista RAI Bruno Pizzul, e nel cervello di tanti s’imponeva istantaneo un unico pensiero: vendicarsi. I fatti di Roma non passarono inosservati in Inghilterra. Qualche rimostranza si levò persino tra i banchi della Camera dei Comuni e il nostro ambasciatore a Londra fece arrivare in Italia inviti a ricucire lo strappo attraverso l’arte della diplomazia[7].
Per ammissione di un ex hooligan, la violenza di Roma incarognì l’odio antiitaliano degli inglesi che nel 1985 avrebbero raggiunto Bruxelles per la finale di Coppa dei Campioni allo stadio Heysel contro la Juventus[8]. Un cocktail micidiale di dolo, disorganizzazione logistica e fatiscenza infrastrutturale consentì ai tifosi dei Reds d’imperversare nel settore limitrofo, occupato per lo più da pacifici tifosi bianconeri, scompaginandolo e gettandolo nel panico. Decine saranno le vittime, in una delle giornate più tetre del calcio mondiale.
La finale di Coppa dei Campioni è un evento luttuoso per i romanisti, sportivamente ma non solo. Dieci anni dopo, si toglieva la vita il capitano silenzioso Agostino Di Bartolomei. Ex giocatore ormai, frustrato da una lontananza non solo fisica dalla sua adorata Roma, marginalizzato dal calcio che conta. La sconfitta tempra, se non uccide, e la condivisione della sofferenza costruisce un cameratismo più solido di qualunque vittoria. Come tanti traumi, anche quello del 30 maggio 1984 ha capacità palingenetiche. Le sperimenta un attivista anarchico di Prati, curvarolo navigato e indipendente. Scrive al CUCS l’indomani della famigerata partita, cercando l’anima della città nel deserto lasciato dalla disfatta. «La romanità non esiste e forse non esisterà mai. Il romanismo, quello esiste».
Dove cercarlo? Certo non nelle Estati romane dell’assessore comunista alla cultura, Renato Nicolini, o in quella Roma imborghesita che popolava l’«asettico ambiente» della tribuna Monte Mario, pieno di viziati con la sciarpetta nuova da sfoggiare. «Allo studente, al meccanico, al barista con i vessilli al vento strappati da mille sventolii, con le 500 lire in tasca, con la fatica della coda ai cancelli […], con l’attesa noiosa e snervante dentro lo stadio, o con ore di trasferte notturne, a loro sì la Roma può chiedere qualcosa ed è sicura di ricevere cuore, tifo, voce»[9]. È probabilmente questa la prima volta che la parola «romanismo» viene usata con consapevolezza teorica. Per definire la Curva Sud e per esportarne lo stile di vita agli altri settori. Una chiamata incruenta alla riscossa. Una parola che sa d’ideologia e dà nome a una religione civile.
[1] Tonino Cagnucci-Paolo Castellani, 55 secondi. Trenta maggio 1984, Pagine, Roma, 2014, pp. 36, 38, 39, 45, 52, 58, 65-70.
[2] Ivi, p. 109.
[3] Cagnucci-Castellani, 55 secondi, op. cit., pp. 83-84.
[4] Bruno Conti, Gioco da ragazzi, p. 145.
[5] Massimiliano Graziani, Quel Roma-Liverpool di un mercoledì da cani. 30 maggio 1984, Arezzo, Limina, 2009, p. 11.
[6] Romanisti e “red”, un abbraccio… Trionfale, in Giallorossi, n. 134, giugno 1984, pp. 44-45.
[7] ACS, MI, Gab., archivio generale, fascicoli correnti, 1944-1990, b. 68, «incontri di calcio italo-britannici – misure di sicurezza», lettera dell’ambasciatore Andrea Cagiati ai ministeri dell’Interno, degli Esteri e del Turismo e spettacolo, Londra, 5 giugno 1984.
[9] Tutte le ultime citazioni sono in Aldo Galvagno, lettera a I Ragazzi della Sud, in Giallorossi, n. 136, ottobre 1984, p. 36.
Roberto Colozza fa lo storico per amore di Roma e insegna all’università della Tuscia perché non corrisposto. Ex normalista, ha alle spalle anni precari di ricerca in Italia e altrove; di fronte, l’inesausta speranza di trovare quel non so che di rassicurantemente indeterminato. Alla produzione accademica affianca da sempre un’intensa passione divulgativa che non gli ha fruttato alcunché ma se non altro l’ha svagato. Ha scritto di cose capitoline tra storia, arte, urbanistica: si chiamano “Flâneries de noantri” e sono leggibili gratis online se non avete niente di meglio da fare. Romanista impenitente, sta ultimando un libro sulla storia del tifo giallorosso dalle origini a oggi.
La memoria sempre viva: la necessità dell’archivio
Immagini dall’Archivio Storico dell’AS Roma
“Non esiste alcuna comunità storica che non sia nata da un rapporto assimilabile senza esitazione alla guerra: noi celebriamo con il titolo di eventi fondatori sostanzialmente atti violenti, legittimati a posteriori da uno Stato di diritto precario. Ciò che per gli uni fu gloria, fu umiliazione per gli altri, e alla celebrazione di una parte corrisponde l’esecrazione dell’altra: in questo modo negli archivi della memoria collettiva sono immagazzinate ferite non tutte simboliche” (Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Il Mulino, Bologna, 2004, p 72).
Questo lo scriveva il filosofo francese Paul Ricoeur parlando del fatto che la memoria non è una dimensione, un qualcosa di staccato dal presente e non proiettabile nel futuro. Anzi, passato-presente-futuro viaggiano su di una stessa linea temporale in un costante rapporto dialogico. La memoria, sia collettiva che personale, è ciò che ogni volta recuperiamo, e ciò che selezioniamo, quando abbiamo bisogno di ricordarci chi siamo. La triade terminologica di Ricoeur, ricordare, dimenticare, perdonare, indica proprio questa possibilità di navigare la memoria nel presente verso il futuro facendo sì che non si cristallizzi o che venga bloccata nella fissità di una visione nella quale è impossibile rispecchiarci.
Se qualcosa ci appartiene – premesso che si possa estendere questo senso di possesso all’immaterialità – dobbiamo essere in grado di risistemarlo, risemanitzzarlo nelle nostre vite altrimenti il rischio è quello di incorrere in una costante crisi identitaria. Noi non possediamo il passato, non l’abbiamo mai fatto. Abbiamo tuttavia la possibilità di dialogarci e comprenderlo. In questo Ricouer si rifà al pensiero di Martin Heidegger, il quale dà al passato una sua fisicità e indipendenza, non considerandolo come non-è-più, bensì come essere-stato. Il non-è-più implica, infatti, la nostra presenza: il passato è tale perché non è più presente, in nostro possesso. Ovvero, noi non abbiamo più possibilità di azione su di esso. Invece, l’essere-stato evidenzia la presenza, l’autonomia – l’essere – e la persistenza a ogni fatto precedente. Era-già.
Ricoeur scrive: “nessuno può far sì che ciò che non è più non sia stato” ed è così che l’essere-stato sopravvive al nostro (mancato) possesso, trovando sempre la via per riemergere. La storia riemerge.
Ecco Roma-Liverpool a 40 anni di distanza rappresenta questo era-già, questa possibilità di riemersione della storia. Parafrasando Ricoeur, il 30 maggio 1984 rientra negli eventi fondativi dell’identità romanista e per la comunità storica (tifosi che hanno vissuto quella partita) è assimilabile ad un atto violento, o meglio la sua nascita è stata generata da un atto violento legittimato da uno stato di diritto precario (in questo caso potremmo dire l’Uefa) “Ciò che per gli uni fu gloria (Liverpool), fu umiliazione per gli altri (Roma), e alla celebrazione di una parte corrisponde l’esecrazione dell’altra”.
Qui entra in gioco il modo, il come e il luogo questa memoria si sedimenta e diventa patrimonio, seppur doloroso e problematico, aperto eppure già-dato. Qui entra in gioco l’archivio in quanto magazzino e organizzatore delle ferite non del tutto simboliche della memoria collettiva. Entra in gioco, nello specifico, l’Archivio Storico dell’AS Roma. L’Archivio Storico dell’AS Roma è un dipartimento della Società, nato il 21 aprile del 2012 e collocato fisicamente nel cuore del Centro Sportivo Fulvio Bernardini, a Trigoria. Partito da zero, dopo 12 anni di attività l’Archivio Storico oggi si articola su cinque diverse banche dati, una delle quali gestisce la Collezione del Club, costituita da 140.000 oggetti fisici e distribuiti su 64 tra Fondi e Collezioni.
In una serie di oggetti unici, come un esemplare della prima fornitura di maglie da gioco prodotta nell’estate del 1927 e utilizzata dall’attaccante Antonio Maddaluno per tutta la stagione inaugurale, spiccano naturalmente numerosissimi documenti storici relativi alla finale di Coppa dei Campioni del 1984, tra cui ben quattro maglie (la numero 10 di Agostino Di Bartolomei, la numero 7 di Bruno Conti, la numero 5 di Paulo Roberto Falcão e la numero 1 di Franco Tancredi) e diversi elementi del Fondo Commando Ultrà Curva Sud e del Fondo Piero Gratton, che oltre ad essere l’ideatore del Lupetto creò per la UEFA il vecchio logo della confederazione europea e l’immagine coordinata delle finali di Coppa dei Campioni del 1977 e del 1984 e degli Europei del 1980 e del 1984.
Questo articolo vuole essere un testo per immagini un visual essay che attraverso la selezione dei materiali concessi dall’Archivio Storico dell’AS Roma ripercorre quelle ferite non del tutto simboliche che Roma-Liverpool ha generato. In queste ferite mi piace pensare, tuttavia, che attraverso il nostro ricordo, attraverso il nostro racconto e la nostra presenza, possiamo diventare dei piccoli punti di sutura storica che ci permettono di riappropriarci di quanto è stato.
Si ringrazia Gabriele D’Urbano e l’Archivio Storico dell’AS Roma per la disponibilità e gentilezza con la quale hanno messo a disposizione questi materiali.
Liverpool all’Holiday Inn
Il motto coniato da Renato Rascel il 17 giugno 1951, nel giorno dell’unica retrocessione in Serie B, resta valido sui muri della città anche nel giorno della finale di Coppa dei Campioni.
Volantino in cartoncino di Roma-Liverpool, finale della Coppa dei Campioni 1983/1984: contiene dichiarazioni dei sindaci di Liverpool e Roma, Hugh Dalton e Ugo Vetere, sovrastate da un artwork in cui i tifosi di calcio delle due squadre sono rappresentati ai piedi di una particolare composizione grafica in cui il Colosseo lascia intravedere all’interno gli spalti e i ritratti dei 4 membri storici dei Beatles (da sinistra John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr).
Maglia AS Roma da gara, bianca numero 10 a maniche corte con colletto, scollo, bordi delle maniche e numero di maglia di colore rosso, indossata da Agostino Di Bartolomei nell’incontro Roma-Liverpool 1-1 (3-5 dopo i calci di rigore), finale della Coppa dei Campioni 1983/1984, Roma, Stadio Olimpico, mercoledì 30 maggio 1984. “Bianca Luce”, nella definizione dello storico Massimo Izzi. Sul petto, per le restrizioni UEFA non compaiono lo sponsor Barilla né lo Scudetto tricolore conquistato nella stagione precedente: la Roma, potendo scegliere soltanto un marchio, preferisce i l Lupetto all’emblema di campione d’Italia, prediligendo l’identità a ogni altra cosa.
“European Cup Final”, match program ufficiale dell’UEFA dedicato all’incontro Liverpool-Roma 1-1 (3-5 dopo i calci di rigore), finale della Coppa dei Campioni 1983/1984, Roma, Stadio Olimpico, mercoledì 30 maggio 1984. La copertina, a colori al pari di tutte le illustrazioni contenute all’interno, è dedicata ad una veduta del Colosseo dalle pendici di Colle Oppio. Le due squadre sono presentate con profili individuali di una pagina per i due allenatori e per i 22 titolari delle formazioni tipo, mentre i calciatori abitualmente schierati come riserve sono condensati in un’unica pagina.
Schema per il bandierone per la finale della Coppa dei Campioni del 30 maggio 1984, realizzato dal Commando Ultrà Curva Sud. Sono riportate a penna le misure finali, il disegno della coppa da stampare e il numero di lenzuola necessarie ad assemblare il bandierone.
Badge di servizio utilizzato per la Finale della Coppa dei Campioni del 30 maggio 1984 Roma-Liverpool 1-1 (3-5 dopo i calci di rigore), tipologia “Photo platform”, di colore rosa, disegnato da Piero Gratton nel quadro dell’immagine coordinata dell’evento a cura del papà del Lupetto romanista. Gratton è anche autore del logo UEFA visibile al centro del badge e introdotto nel 1983.
Quale è stata la domanda che le hanno fatto più spesso riguardo a quella partita ?
La domanda che mi è hanno fatto più spesso è stata “chi era il quinto rigorista ?” Il quintoero io, anche se molti credevano dovesse essere Falcão. Purtroppo però non sono mai riuscito a tirare quel rigore e vivo con questo enigma da quel giorno. In questi 40 anni mi è capitato più di una volta di aver fatto sogni inerenti a una cosa che non sono mai riuscito a fare. Purtroppo questo è quello che è successo anche perché secondo me uno tra conti e Graziani non avrebbe dovuto tirare quel rigore, ma Falcão.
Fermo restando che sia Conti che Graziani avrebbero meritato molto di più di una Coppa per la loro consapevolezza rispetto alla responsabilità della scelta. Perché un campione lo è anche per carattere. Purtroppo quella sera Falcão non se l’è sentita e quella rimane una specie di pecca nella sua carriera, però sono convinto che se potesse tornare indentro lo tirerebbe tre volte quel rigore. Falcão per molti di noi è stato una guida, all’interno di una Roma che era una famiglia, una squadra che non si è mai sfaldata. Vorrei che Paulo vivesse qui in Italia così come Cerezo e Prohaska per vederci più spesso.
Lei è entrato nel secondo tempo per sostituire Pruzzo. Quali sono stati i suoi pensieri in quel momento e come è stato entrare ?
In allenamento 7 giorni prima riportai una distorsione alla caviglia per un’entrata di Emidio Oddi, ma ho stretto i denti perché non volevo mancare. Avrei giocato anche con le stampelle. Non ero più giovanissimo, avevo 25 anni e certe sensazioni le avevo già provate e riprovate. Avevamo fatto tante “finali” come quella contro il Dundee ad esempio. Anche se sei abituato, in quel momento non capisci l’importanza di quello che sta accadendo di quello che stai facendo.
Oggi ce ne stiamo accorgendo soprattutto vedendo quanto è diventato difficile negli ultimi anni arrivare in finale. Una curiosità rispetto ai rigori. Nella fase di preparazione estiva di quella stagione, come ogni anno si giocavano diversi tornei. Quell’anno giocammo (13 agosto 1983 n.d.r.) contro il Feyenoord di Cruyff che all’epoca aveva 36 anni. La partita finì 1-1 e dopo i supplementari si arrivò ai rigori. Per il Feyenoord sbagliò, tra gli altri, Cruyff così come per noi, Ancelotti, Pruzzo e Maldera. Io segnai il mio (così come Righetti e Di Bartolomei n.d.r.). Certo un conto è tirare un rigore in amichevole un altro è tirarlo in finale.
Cosa è stato il giorno dopo ?
Il giorno dopo è stato come il film The Day After, ‘na tranvata. Tra le altre cose, in caso di vittoria erano stati preparati i festeggiamenti come per lo scudetto. Era tutto pronto. Fu come risvegliarsi da un incubo, come quando accade qualcosa di brutto nella vita e quindi ti rendi conto che è tutto vero. Ricadi in uno stato….Per me, romano di Roma, e forse anche per Ago per lil suo carattere, è stata un vera sofferenza. I tifosi stavano peggio di noi, però ci hanno continuato a sostenere perché c’era una finale di Coppa Italia da giocare. Potevamo vincere tre trofei in due anni. In quegli anni la Roma ha combattuto contro una grande Juventus che non era solo una squadra ma una nazionale nel vero senso del termine. Sette nazionali italiani, se non sbaglio, più Platini e Boniek.
La Roma in quel periodo era una famiglia creata dai Viola. Una famiglia passionale con un grandissimo allenatore. Non riesco a menzionare tutti perché altrimenti corro il rischio di dimenticare qualcuno. Tra l’altro, non c’era così tanto staff come oggi, eravamo i classici pochi ma buoni. Quel periodo del calcio per certi aspetti può essere definito come “familiare” dove, credo, per Dino Viola noi rappresentassimo i figli di un secondo matrimonio. Ho sbagliato a voler lasciare la Roma (per andare all’Udinese n.d.r.) anche se sono ovviamente felice di quello che ho avuto. In quel periodo non c’erano i procuratori…
Io poi venivo dall’Inter del presidente Fraizzoli e devo molto ad un allenatore come Giancarlo Cella che mi ha aiutato moltissimo nel mio inserimento a Milano. Ci tengo a fare questi nomi perché per me sono stati personaggi fondamentali. Sia Viola che Frezzoli rientrano in questa visione di calcio “familiare” così come Anconetani che ho avuto la fortuna di avere come presidente durante la mia esperienza al Pisa. Cosa si può voler di più…. Quello era il vecchio calcio, di gente che aveva passione di presidenti innamorati di persone che ci credevano. Forse sono un romantico però vorrei che cambiassero tantissime cose. Oggi, per dire, vedo degli arbitraggi che non capisco come facciano ad agevolare il bel gioco, non si fischiano falli clamorosi sembra il calcio fiorentino.
Futuro ipotetico. Ha mai pensato come sarebbe stato se aveste vinto quella finale ?
Me lo sono sognato e rivisto. Saremmo stati una squadra invincibile, ma non per quella vittoria bensì per quello che non è avvenuto nei 40 anni dopo. I nostri figli non saranno mai come noi e noi non potremmo essere come i nostri genitori. Vincendo quella Coppa saremmo entrati nella storia del calcio europeo, saremmo stati la prima Roma a vincere la Coppa.
PER IL SECONDO ANNO consecutivo, la Coppa dei Campioni ci sfugge beffarda all’ultimo atto. Ad Atene fu la tempratissima Juventus a squagliarsi davanti all’Amburgo; aveva già archiviato mentalmente la vittoria, quel gol di Magath fu un affronto che la lasciò attonita e incapace di una reazione adeguata All’Olimpico, sul prato di casa, anche le Roma ha subito un sollecito oltraggio alla botta di Neal, preceduta dall’impatto Tancredi Wheelan che l’arbitro svedese ha giudicato regolare, lasciandomi personalmente perplesso, ha saputo però replicare con una splendida prodezza combinata di Conti e Pruzzo.
Ma lì, l’incontro si è congelato. Gli inglesi, a parer mio, erano cotti e mascheravano una condizione atletica calante con grande spavalderia di palleggi e meline, un gioco pieno di sussiego quasi a dire: non stuzzicatemi, se no vi travolgo. La Roma mancava dell’uomo che sapesse sospingerla all’iniziativa con il suo carisma e il suo superiore senso tattico, Falcão era in vacanza, come in vacanza era stato Platini ad Atene. Sul piano delle analogie mettiamoci anche questa defaillance degli uomini-guida, nel momento più importante della stagione. Non è un’accusa, ma una doverosa constatazione.
QUANDO LA PARTITA APPRODAVA alla roulette russa dei calci di rigore, esattamente là dove il Liverpool l’aveva condotta (ribadisco il concetto: non avendo la forza di metter sotto l’avversario, gli inglesi avevano scelto questo malizioso “bluff” e la Roma non se l’era sentita di andare a scoprirlo), soltanto un miracolo poteva salvare i giallorossi. Dei loro rigoristi abituali, ben tre erano fuori causa. Pruzzo e Cerezo avevano lasciato il campo infortunati, Maldera era bloccato dalla squalifica. Restava Di Bartolomei, restava il prode Righetti, e poi? Falcão declinava l’incarico, né Liedholm poteva assumersi la tremenda responsabilità ( è facile parlare a cose fatte) di mandare sulla piazzuola di tiro un giocatore mentalmente già predisposto all’ errore. Ha preferito affidarsi al cuore di Ciccio Graziani e al sinistro tante volte fatato di Bruto Conti.
L’uno e l’altro hanno ciccato e il Liverpool si è cinto del suo quarto titolo europeo. Come spesso accade, di fronte a una conclusione amara si è violentemente attaccato il regolamento. Meglio sarebbe stata la ripetizione della partita, si è detto e scritto. Mille volte meglio, amici miei. E infatti cosi si è proceduto sino a qualche anno fa, sin quando cioè i problemi logistici e organizzativi non si sono dimostrati insormontabili Abbiamo visto tutti cos’è successo dopo la partita. Pensate un momento alle conseguenze di “fermare” a Roma per altri due giorni le migliaia di tifosi del Liverpool. Ma certo qualcosa andrebbe cambiato: magari sposare anche per le due Coppe principali la formula dell’Uefa, andata e ritorno. Sarebbe un modo sicuro per diluire la tensione della sfida unica, ormai arrivata a livelli insostenibili, ma non affrancherebbe dal rischio dei rigori, come è accaduto proprio quest’anno per Tottenham-Anderlecht.
QUELLA STESSA CRITICA che con una buona dose di incoscienza, unita alla cronica disinformazione per quanto accade fuori dei confini, aveva eletto la Roma a favorita indiscutibile del confronto, si è poi segnalata in una feroce stroncatura della prova dei giallorossi, a mio avviso ammirevoli con i limiti psicologici cui prima accennavо, per essersi battuti alla pari contro rivali incomparabilmente più attrezzati al clima particolare di questi appuntamenti. Certo, non c’è stato grande spettacolo; lo lamentava anche Eriksson, prossima guida della Roma rilevando che a Lisbona il suo Benfica aveva affrontato il Liverpool con ben maggiore determinazione offensiva.
Aggiungeva, come parlando di un trascurabile dettaglio: “È pur vero che abbiamo perso 4-1”. Cera poi chi scopriva, il 30 maggio 1984, che il Liverpool non pratica il tradizionale gioco all’inglese. Ma, amici miei, è proprio per questo che in patria, da anni, vince tutto o quasi. Perché alla scontata furia britannica oppone una strategia raffinata, soluzioni tattiche d’avanguardia, capacità di cambiar volto a seconda dell’avversario. Liedholm lo aveva ben radiografato e sapendo di non poterlo spezzare, lo aveva intanto bloccato. Il destro di giocarlo, nella sottile schermaglia con Joe Fagan, doveva offrirglielo o il genio di una superiore individualità o la fortuna. Invece, Falcão lo ha “tradito” e la sorte gli si è addirittura voltata contro. Cosi il barone emigra senza l’alloro più ambito e Roma paga il suo amaro tributo a una Coppa stregata.
I rigori sono ingiusti? Giocare a oltranza
Fino all’ultimo respiro
di Enzo Rossi
È GIUSTO che una Coppa dei Campioni venga assegnata dalla roulette russa dei rigori? Se n’è parlato molto, sull’onda della delusione patita dalla Roma, ma forse non abbastanza per cercare una soluzione meno iniqua. I pareri, per la verità, non sono concordi: Carlo Grandini, per esempio, ha dedicato al tema un fondo sul “Corriere della sera” scrivendo tra l’altro: “La questione ci sembra tanto di origine sospetta quanto destituita di attendibilità tecnica. Per cominciare dubitiamo molto che la medesima grana sarebbe stata piantata, a livello se non altro dialettico, da certe correnti di pensiero italiane, nel caso in cui all’Olimpico fosse stata la Roma e non il Liverpool a conquistare la Coppa dagli undici metri”.
Tutte le opinioni meritano rispetto, ma ci permettiamo di non condividere la logica di Grandini, che ci sembra simile a quella di alcuni censori dell’arbitro Menicucci, accusato di aver parlato per interessi personali, Cause ed effetti vanno a nostro avviso divisi: se un ladro, magari per bieca ritorsione, coinvolge un complice, il giudice ha il dovere di verificare, fino a prova contraria. La considerazione che la Roma non avrebbe sollevato il caso se avesse vinto la Coppa, non sposta termini del problema: sarebbero probabilmente stati gli inglesi a rammaricarsi.
I VERDETTI VANNO ACCETTATI serenamente, ma ciò non esclude che ci si preoccupi di renderli sportivamente più giusti. Nel 1970, guarda caso, la Roma fu eliminata in semifinale dalla Coppa delle Coppe dopo tre accanite sfide con il Gornik di Lubanski: decise una maledetta monetina. In seguito a quell’episodio l’Uefa, resasi conto dell’assurdità di giocarsi a testa o croce una finale europea, corse ai ripari modificando il regolamento e introducendo la norma del gol in trasferta che vale doppio. La monetina venne fortunatamente abolita e al di là degli interessi di parte tutti ne furono lieti. Nel 1974 la finale di Coppa dei Campioni fra Bayern e Atletico Madrid fini 1-1 dopo i supplementari e venne ripetuta: stravinsero tedeschi.
Che erano indubbiamente i migliori visto che proprio quella sera inaugurarono un prestigioso ciclo. Può darsi che una soluzione più aleatoria, come quella dei rigori, li avrebbe penalizzati. Ma l’UEFA, spaventata dalle difficoltà organizzative legate alla disputa di una seconda partita a 48 ore di distanza dalla prima, ritenne opportune eliminare la ripetizione. Nel gerontocomio di Zurigo si sostiene la legittimità dell’attuale sistema, ma a noi sembra che sarebbe ora di ringiovanire i ranghi, se non altro per acquisire elasticità mentale. I problemi si affrontano e si risolvono quando si pongono: Jacques Georges ha giustamente annunciato che d’ora in a vanti le finali non verranno più giocate nella città di una delle due squadre impegnate.
Pareva anche questo un vicolo cieco: poi si è scoperto che nulla vieta di stabilire la sede prima delle semifinali in base alle quattro formazioni qualificate. Purtroppo siamo in mano ai dilettanti e una delle prove di questa nostra affermazione ce l’ha fornita la curva mezzo vuota del’Olimpico, uno schiaffo al buonsenso se si pensa a quel che accadde a Roma nella caccia al biglietto. Non potevamo vendere quei posti ,si difendono all’Uefa con il rischio di mescolare tifosi italiani e britannici. Eppure sarebbe stato sufficiente investire poche decine di migliaia di lire per una transenna aggiuntiva.
IN VERITA’ SONO LE STESSE strutture dell’Uefa a scricchiolare paurosamente. Ed è singolare, per non dire scandaloso, che l’Ente europeo sia costretto a dare in appalto a una società svizzera per un tozzo di pane la gestione della pubblicità nello stadio: un cartellone costava al singolo sponsor circa cento milioni, di cui soltanto la decima parte, a conti fatti, è finita nelle casse dell’Uefa e delle due società. Tutto questo significa non vedere al di là del proprio naso e non sapere tenere il passo dei tempi. Ma l’aspetto economico, per quanto rilevante, ci interessa meno di quello sportivo.
Dalle colonne dell’Equipe, Jacques Ferran lancia una proposta suggestiva, e, caro Grandini, sicuramente disinteressata in quanto neutrale (il quotidiano francese è tra l’altro l’inventore della Coppa dei Campioni): giocare “ad oltranza” tempi supplementari, come nel basket. Si usava cosi, nei tempi eroici, anche nel pugilato, quando il ko era l’unica soluzione prevista dal regolamento. Abolita sul ring, dove è obiettivamente sconsigliabile, la formula potrebbe essere adottata sui campi di calcio, magari cominciando la finale un’ora prima per salvaguardare gli interessi dei giornali, che non possono restare “aperti” fino a notte fonda.
Quella di Ferran è un’idea come un’altra, forse non la migliore, ma sicuramente un contributo al dibattito. A noi personalmente Sordillo ha detto che, se verrà eletto nello staff dell’Uefa, si adopererà per trovare una soluzione che risponda ai canoni sportivi prima che a quelli dell’alea fattore [casualità n.d.r.], che in ogni caso conserverà una parte di peso. Bene, l’importante è muoversi: le coppe europee hanno ormai acquisito un tale rilievo da non poter essere più abbandonate nelle mani degli “amateurs”. È d’uopo correre ai ripari. Anzi è di rigore.
Quattro di coppe
Continua l’egemonia britannica e il Liverpool fa poker all’Olimpico contro la Roma, piegandola ai rigori
di Vladimiro Caminiti
ROMA. Il vezzo di recensire le grandi partite stando seduti davanti al video di casa, magari addentando pane e salame, è ormai una regola, così qualcuno, di regola illustre, almeno per il ruolo che riveste, ha bollato come inerte e bloccata la Roma vista perdere ai calci di rigore, dopo 120 minuti, contro il Liverpool. Chi la partita ha invece vissuto in campo, magari narrandola in diretta, sa come essa fu una cosa serissima, una impestata vicenda di calci, una rissa, in certi punti, sedata in tempo da un arbitro severo ed equanime, in cui fatalmente avrebbe prevalso – mettiamo in una ripetizione, come molti scienziati del senno di poi auspicano – sempre ed esclusivamente il Liverpool. Io sostengo che è difficile fare i giornalisti a caldo, raccontare immediatamente una partita, vederla al di fuori da schemi fissi, soprattutto mentali.
Perché a parole si dice che ogni partita è diversa dall’altra, poi, per certuni, tutte le partite si somigliano e conosco santoni che si scrivono sull’unghia da trent’anni la stessa cronaca e lo stesso commento. Il Liverpool imprigionò la Roma di Liedholm, la sapiente squadra di Nils il grande, con il suo collettivo piratesco, dove l’aggettivo è usato per esprimere l’humus di questi calciatori britannici come sputati da un libro di Stevenson. Mi succede spesso di citare questo scrittore inglese che fu anche eminente giornalista, per me tra i più dotati di fantasia della storia del mondo; e mi capita di citarlo sempre a proposito di calcio, in quanto al calcio si chiede fantasia. Stevenson scrisse magistrali libri di avventura. Il suo mondo è cangiante, animoso, nessuno sta fermo, i giovani viaggiano in continuazione, sognano e lottano. C’è amicizia, c’è sfida, c’è anche rabbia e furore, Stevenson rimane uno scrittore per i giovani e quasi uno scrittore sportivo. Per la sua fantasia certamente.
BRASILIANI. Il manipolo del Liverpool gioca un calcio perfino originale come calcio inglese. Non è che abolisca il traversone, ma abolisce l’ottimismo. È un calcio eminentemente tattico. È un calcio malandrino. È un calcio che mette in conto tutto. Il Liverpool ha battuto ai punti la Roma, cosi come Grobbelaar ha battuto ai punti Tancredi, e Neal Nappi, e via via, ruolo per ruolo. È vero che dopo centoventi minuti il risultato era di 1 a 1, ma non significa niente. La Roma aveva dato tutto, aveva dato il massimo. Alla vigilia, Liedholm dettava che, solo attaccando, la Roma avrebbe potuto snidare e piegare il Liverpool. Bene, gli inglesi sono andati in campo ed hanno attaccato loro in modo furioso, i loro palleggi volteggianti e vorticosi hanno preso in mezzo Falcão e Cerezo: Cerezo si è spremuto e si è via via spento.
Per me ha giocato malissimo. lo lo trovo deludente. Se posso dare un consiglio a Dino Viola ci pensi a lungo prima di riconfermarlo. Non è da Roma, da primato. Farebbe il gioco della Juve. Cerezo è poco adatto al calcio europeo. Nessuno discute la sua generosità, si è visto lungo l’arco dell’intera stagione qua e là utile, ha avuto impennate di stile, ma è un cursore che porta palla, stranamente prolisso e tatticamente quasi cieco. Ma è solo uno dei motivi della sconfitta della Roma. Il secondo è Falcão. Paulo Roberto ha rivelato una certa idiosincrasia alle partite-clou. Quando l’aspetti non arriva mai. Lui come Platini, se vogliamo. Cosa ha, è fragile emotivamente? Oppure soffre, come qualcuno opina, i copioni surriscaldati? Insomma non è un carattere leonino?
SFAVORITA. La storia del calcio europeo è scritta a suon di gol, è risaputo, ma in Coppa dei Campioni è scritta all’insegna del collettivo. E qui che la Roma è ancora indietro. Si sapeva a guardar bene, che in una finale con il Liverpool, sarebbe stata sfavorita. Perciò mi meraviglia cosa vadano a recriminare gli spiriti seduti della critica fatta guardando le vendite dei giornali. Il problema è più serio. II nostro calcio rimane un calcio settoriale, a compartimenti stagni. Si dice, a parole, collettivo. Noi siamo sempre in cammino e non arriviamo mai. Il singolo fiorisce da noi più che la squadra.
Cosi la Roma, trovatasi contro un vero collettivo, armato di tutta la giusta “rabies” plebea, forte di intese pluricollaudate, con marpioni al posto giusto, con piedi egregi nella rifinitura, questa squadra di pirati che si aiutano alla voce, che non mollano mai, che corrono e si coprono l’uno con l’altro, ha mostrato le magagne del meccanismo giallorosso. lo non so se Eriksson l’erede riuscirà a fare meglio di Liedholm. Ho i miei dubbi. Condivido che è ridicolo tener chiuse le frontiere ai tecnici stranieri. Però mi chiedo: riuscirà questo signor Eriksson a farsi capire da tipi come Nela, ad esempio, come si è fatto capire Liedholm? Allenare in Italia non è un fatto di schemi palla a terra. Soprattutto è un fatto di schemi mentali.
GLI INGLESI. Un po’ lenta nella fase prettamente difensiva dove Grobbelaar abbiamo detto, ripara con la sua prodigiosa agilità, la squadra inglese cresce globalmente. Tengono quel pallone legato col filo, mi diceva un amico, e questa deve essere l’impressione che ha dato la televisione. Whelan, Dalglish, Lee, Johnston mi sono piaciuti enormemente ed hanno surclassato Falcão, Conti, Cerezo e Di Bartolomei. Qualcuno ha giudicato modesto Graziani. E stato il solo della Roma a confermarsi grande all’altezza dell’impegno europeo. Fatalmente anche lui si è disunito alla distanza, fatalmente ha mancato il penalty, come Conti d’altronde. E mi sorprende che Conti sia stato giudicato positivo in una partita che ha invece giocato soltanto a sprazzi e si deve aggiungere, nel rispetto della verità, che l’intera stagione di questo calciatore è stata lacunosa, manchevole, riscattata da guizzi determinanti all’altezza di un piede mancino paganiniano, impagabile per estro, ma anche di mollezze e mancamenti. Conti non ha fondo.
I PROTAGONISTI. Passiamo ora ad un esame dei singoli, da una parte e dall’altra, guardando all’avvenimento storico, cioè alla irripetibile finale. Paragoniamo i due portieri Tancredi e Grobbelaar e cominciano le dolenti note. Tancredi ha avuto parate pregevoli, è un portiere bravo e simpatico, quante volte lo abbiamo scritto. Ma il suo dirimpettaio Grobbelaar, senza essere simpatico per niente, anzi un po’ sgherro, è un grande portiere. Il calcio nostro, pieno di fissazioni, ha fissato pure il portiere. Ora lo vogliono magari somigliante ad un salumaio, ce ne siamo occupati in questa sede, lo vogliono ragionieresco. Esiste un solo prototipo di portiere, per il ruolo com’è nato, come deve essere, come erano Olivieri e Peruchetti, Moro e Ghezzi, il portiere matto.
Grobbelaar ha vinto la partita, lui. Ha aiutato la sua squadra a vincerla, sostituendosi al libero ed ai terzini esterni, con uscite di travolgente efficacia. lo dico che Zoff è l’eccezione che conferma la regola, imitarlo è assurdo, è stato grandissimo fuori dalla realtà del ruolo, quando l’Italia era la terra dei portieri. E sui traversoni alti Zoff non perdeva mai il pallone! Prendiamo poi i due terzini Neal e Kennedy. Nappi e Nela. C’è stata una partita, ma Neal ha messo a segno il fegatoso gol determinante, il primo un gol di rapina, anche un gol trovato, giacché la carica al portiere in Italia non è contemplata, ma nel mondo la carica al portiere fa parte delle ineluttabili regole del gioco. E finisce come deve finire.
ORGOGLIO INGLESE. La Roma cosi, giunta ai rigori, ha ceduto all’implacabilità degli inglesi, con quel Rush confermatosi il bomber più originale e vero del calcio europeo. Fu una lezione per la Roma, ma anche per noi. I progressi della Roma sul piano collettivistico sono cospicui, ma non bastano contro squadre ortodossamente unite, orgogliosamente britanniche come il Liverpool. La grandezza del calcio inglese sopravvive nel clima societario. Undici uomini con un cuore solo hanno meritato all’Inghilterra ed al Liverpool per la quarta volta vincitore della Coppa campioni questa nuova notte trionfale.
Nella speranza che questo speciale, dopo 40 anni, possa costituire una guida sentimentale, un racconto catartico e un’elaborazione di un lutto che ha forgiato (e fondato) la storia stessa del romanismo, ringraziamo ancora tutti coloro che hanno partecipato alla realizzazione di questa folle, irrazionale ma forse necessaria testimonianza collettiva.
Questo lavoro è entrato, il giorno 31 maggio 2024, nell’archivio storico dell’As Roma.
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