Una squadra che già da tempo ha superato i propri limiti.
Intanto una considerazione, preliminare ma imprescindibile: chiunque in questi mesi abbia criticato Mourinho, non solo i Cassano di turno ma anche tutti coloro che si concentravano sul (non) gioco della Roma per delegittimare l’operato del tecnico portoghese, dovrebbe un po’ riconsiderare la sua visione del calcio (e non solo). Qui siamo soliti scrivere che in campo ci vanno pur sempre i giocatori, e questo è indiscutibile, ma sono pochi i casi in cui un tecnico riesce ad incidere così tanto sulla testa, sul cuore, sul carattere e sulla maturità di una squadra. Davvero pochi e, nella loro rarità, dei casi esemplari.
Vedendo questa Roma, falcidiata dagli infortuni, ma anche fiaccata da una condizione atletica generale ai limiti dell’esaurimento (perché oltre agli assenti ci sono i presenti, sempre gli stessi, che non riposano da mesi e ogni partita tirano i loro muscoli come una corda tesissima, rischiando ogni domenica di romperli), insomma ammirando questa Roma si entra in un’altra dimensione dello ‘spettacolo’: non quello del gioco, dominante e offensivo, ma quello della sofferenza; la potenza, quasi commovente, del sacrificio.
Una squadra che del sacrificio ha fatto il proprio marchio speciale di speciale disperazione, riservato secondo De André a coloro che andavano in direzione ostinata e contraria. Cosa che, a suo modo, fanno anche i giallorossi: nel calcio degli Xabi Alonso, degli Arteta, dei Nagelsmann, quella mourinhana è la vecchia scuola che non passa; la scuola degli uomini prima che dei calciatori. Mourinho di questa squadra è padre, psicologo, allenatore, demiurgo. Adattatosi con il tempo, e con il sopraggiungere dei capelli bianchi, ad una nuova fase della carriera, a una cornice tecnica mai vissuta prima.
Ma Mourinho non è solo un allenatore, è un uomo straodinariamente intelligente. Uno di quelli che danno l’impressione di poter riuscire in qualsiasi cosa facciano, di avere una marcia in più a livello umano; Mourinho potrebbe essere un leader politico, un grande imprenditore, un affarista del mercato azionario, un avvocato o un medico, e certamente avrebbe successo lo stesso. Un uomo dai cento volti e dalle mille maschere, uno stregone e un matematico, uno straordinario machiavellico che sa dosare perfettamente momenti e situazioni.
In questa fase della carriera ha costruito intorno alla sua Roma, e grazie al calore del pubblico che sempre rimarca, una dimensione eroica capace di andare ben oltre gli effettivi valori del campo. Si perché questa squadra nella sofferenza trova energie, quasi gioia nel dolore. E nell’emergenza tira fuori l’anno scorso Zalewski, autore di una grande stagione e di prestazioni decisive; e quest’anno Bove, romano e romanista dal volto pulito che ieri sera, contro qualsiasi pronostico e qualsivoglia logica, ha deciso l’andata di una semifinale di Europa League.
«Bove è un ragazzo con un’educazione estrema, anche una formazione intellettuale e accademica, per merito suo e dei genitori. Io ho fatto il mio lavoro aiutandolo a crescere, ma per essere il ragazzo che è deve avere una famiglia di livello».
José Mourinho su Edoardo Bove
Se si cerca degli esempi nel mondo del calcio, esempi per le giovani generazioni, questi sono. Bove non è Wirtz, un ragazzo baciato dal talento che già a 19 anni vale 100 milioni. Ma non è neanche Miretti o Fagioli. È anzi un giocatore, core de Roma e cresciuto solo nella primavera giallorossa, che ad inizio anno mostrava dei limiti profondi per una competizione come la Serie A, per non parlare delle coppe europee; eppure è un ragazzo intelligente, di testa e cuore, con un’ottima famiglia e studi sulle spalle, che fortissimamente volendo, allenandosi e applicandosi, è cresciuto con Mourinho in modo esponenziale, quasi surreale.
E qui torniamo al punto, perché questa Roma ricorda delle grandi squadre che nel sacrificio si esaltavano, che trovavano nuove inaspettate risorse scavando nel fondo, andando oltre. Oltre il 100%, arrivando al 110, al 120%, superando la riserva, i propri limiti e lo stesso calcio giocato. Osservando alcuni giocatori crollare a terra al triplice fischio ieri sera, sembrava quasi di vedere l’Atletico Madrid versione 2014, quello arrivato a fine stagione esausto e che in un certo senso si forgiava nella sofferenza.
Quello a cui, per laurearsi campione, serviva un punto nell’ultima partita stagionale della Liga al Camp Nou contro il Barcellona secondo, e che dopo neanche mezz’ora vedeva uscire per infortunio (e tra le lacrime) sia Diego Costa che Arda Turan; quello che poi andava sotto nel punteggio, e proprio quando tutto sembrava perduto, pareggiava prima con Godin (su corner, e come sennò?) e poi si trincerava nella propria area in un’estasi tragica fino al fischio finale.
È da uomini di poca fede, senza testa e senza cuore, da studiosi del calcio che a calcio non hanno mai veramente giocato, non ammirare queste squadre e, nel suo piccolo, questa Roma. Credere che lo spettacolo sia solo quello del pressing alto e dei triangoli offensivi. Non comprendere il valore e la bellezza del sacrificio, il significato ancor prima di tutto ciò, pre ed extra-calcistico. Il tutto rivestito dall’orgoglio, sapientemente montato e modellato da Mourinho, che è quello di scendere in guerra contro tutti, contro il mondo: avversari più forti, infortuni in serie, partite ogni tre giorni.
Forse allora questa squadra chiuderà la stagione senza trofei, sarebbe un autentico miracolo succedesse il contrario; magari potrebbe già uscire in Germania, a un passo dalla finale. Ma certamente, non tutti si sono resi conto di cosa stia facendo la Roma di Mourinho, di fin dove si stia spingendo nei suoi enormi limiti strutturali. E di come stia vincendo tante partite. In tutto ciò noi vediamo un travolgente spettacolo concretizzato nell’urlo dell’Olimpico, nel superamento dei limiti tecnici e fisici, nell’esultanza di un Edoardo Bove. L’extra-ordinario del pallone. Chi sa solo di calcio, forse la penserà (e la sentirà) diversamente.